American Fiction

di Mattia Caruso
American fiction - recensione film jefferson

Tratto da un romanzo del 2001 (“Erasure” di Percival Everett) ma adattato in modo da essere perfetto per i nostri tempi, a prima vista sembrerebbe quasi che American Fiction voglia elevarsi a programmatico bilancio degli ultimi anni, di ciò che Black Lives Matter (e non solo) ha rappresentato per l'industria culturale statunitense. Eppure, a guardarlo meglio, il film d'esordio di Cord Jefferson (sceneggiatore per serie come Master of None, The Good Place e, soprattutto, Watchmen) è prima di tutto una farsa, una commedia drammatica dove pubblico e privato, politica e vissuto personale si mischiano e confondono tra loro, restituendo l'immagine di un Paese dove tutto è storytelling, (auto)fiction, narrazione (di sé).
Messi da parte i toni incendiari o militanti cui il soggetto si sarebbe potuto prestare, è così chesi anima la vicenda di Thelonious Ellison - detto Monk (un più che perfetto Jeffrey Wright), scrittore in crisi i cui ponderosi volumi vengono snobbati da case editrici che paiono avere occhi solo per storie “da ghetto” (e, quindi, per i lettori bianchi almeno, infinitamente più reali) -, proprio quando vengono messe in scena le idiosincrasie e le nevrosi del suo protagonista, il rapporto con una famiglia inevitabilmente disfunzionale (dalla madre malata al fratello scopertosi viveur, passando per il rapporto altalenante con la nuova compagna) e lo scollamento da una realtà divenuta ormai lo stereotipo di se stessa.

"I bianchi dicono di volere la verità, ma non è vero. Vogliono solo sentirsi assolti”, dice Arthur, l'agente di Monk. Una lezione che il protagonista è costretto a imparare a proprie spese quando il suo romanzo-parodia (My Pafology, poi ridotto a un lapidario e ancora più “vernacolare” Fuck), scritto di getto e sotto pseudonimo per scimmiottare le narrazioni “da strada” tanto in voga (“libri che i bianchi definiscono importanti e necessari, ma non ben scritti”) e mettere finalmente il pubblico di fronte alla propria ipocrisia, viene invece preso sul serio, fagocitato da un'industria che decide da sé cosa sia o non sia letteratura black, distribuendo arbitrariamente etichette e patentini di autenticità e promuovendo ancora e ancora gli stessi stereotipi.

Adottando lo sguardo privilegiato e borghese del suo protagonista, la sua nevrotica quotidianità lontana anni luce dai cliché dominanti, American Fiction guarda così – in modo insolito e sagace, sebbene non senza qualche automatismo di scrittura, specchio di una satira sempre precisa e puntuale ma mai davvero graffiante – dietro le quinte di quella che è, oggi, la narrazione della comunità afroamericana. Un mondo fatto di paradossi e contraddizioni dove la verità e la realtà vanno a perdersi dentro un meccanismo di scatole cinesi (lo stesso film, con le sue ben 5 nomination agli Oscar, non è in fondo un altro modo per l'establishment di lavarsi la coscienza?), mentre l'ipocrisia diventa l'arma anche dei più benintenzionati. L'unico modo per leggere tra le righe di un sistema dove tutto resta, sempre e comunque, bianco o nero.

 

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Cord Jefferson Jeffrey Wright Erika Alexander Sterling K. Brown Leslie Uggams 117 minuti
USA 2023
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Scavengers Reign

di Alessandro Gaudiano
 scavengers reign recensione serie HBO.jpg

Scavengers Reign appare fin da subito come un’opera enormemente ambiziosa:  la storia dei sopravvissuti della nave cargo Demeter 227 si impone come una delle stelle più luminose della fantascienza recente. Nata da un cortometraggio (Scavengers, appunto), la serie Max trova qui gli spazi e i tempi per raccontare la portata di un dramma cosmico e di una lotta per la sopravvivenza, nel tentativo di comprendere un mondo ignoto.

Di quale fantascienza stiamo parlando, innanzitutto? La fantascienza è un genere che tende a dimenticare ciclicamente se stesso, preso dalle mille tentazioni della forma che oscurano l’essenziale. La panoplia di luci al neon, metropoli tentacolari e macchine senzienti è un’esca sempre efficace per lo spettatore, ma non sempre la qualità dei soggetti e delle idee tiene il passo dello spettacolo visivo. Facile dimenticare che  la sostanza dietro alle immagini non sta nelle macchine colossali e nei viaggi interstellari, ma nelle idee che queste estensioni del possibile rendono pensabili. Idee magari a noi famigliari, ma finalmente a fuoco, nitide, pronte a rivelare  nuove emozioni e nuovi modi di essere umani.
Scavengers Reign appartiene a quella fantascienza che potremmo definire antropologica:  si interroga su cosa sia l’umano messo di fronte alla più profonda, irriducibile alterità. L’alieno, in questo caso, non è la civiltà extraterrestre, ma una Natura ferina e indifferente ai piani dei coloni, che intacca e corrode ogni velleità di dominio, ogni ideologia della purezza. Una Natura che i protagonisti provano a domare, invano: il pianeta Vesta è vita ribollente, incontrollabile. Nessuno tra gli esseri umani protagonisti di Scavengers Reign resta “puro”, incontaminato, incontestato. Il contatto con ciò che è alieno non può che trasformare, imporre un cambiamento. Ma il rifiuto di questo confronto è impossibile e porta a sterilità o morte.

scavengers reign sci-fi

La scommessa vinta dagli autori è farci vedere e, soprattutto, sentire cosa vuol dire trovarsi alla frontiera, quella radicale Frontiera che solo la fantascienza può mettere in scena con le sue distanze e proporzioni  vertiginose. Il suo vero protagonista è il paesaggio, un mondo sconosciuto che funziona con logiche radicalmente opache. Un enigma che abbraccia l’orizzonte. Animali, piante e rocce che vivono di vita propria, leopardianamente indifferenti (ma è davvero così?) alle vite e le logiche di uomini, donne e robot sopravvissuti al disastro che cercano di restare in vita o di tornare tra le stelle. Ognuno di loro arriverà alla fine del viaggio radicalmente mutato nel corpo e nella mente, costretto ad affrontare le paure e i traumi del passato per trovare la forza difare un altro passo verso la salvezza.

La scelta di uno stile di animazione tra Miyazaki e il fumetto di fantascienza classico, di una tecnica di animazione rarefatta e una palette cromatica quasi pastello, contribuiscono a rendere l’esperienza di visione ipnotica e irripetibile. Il risultato è affascinante, al punto che, a volte, ci si dimentica della fantascienza e ci si immerge in una dimensione quasi fantastica, perturbante. Se volessimo tracciare delle linee di connessione tra Scavengers Reign e il continente della fantascienza, i rimandi sarebbero infiniti. Tra tutti, Asimov, Moebius e Jeff VanderMeer. Tuttavia, anche Scavengers Reign è a sua volta un organismo complesso, un ibrido di generi e stili. I momenti migliori della serie si rivelano quando i sopravvissuti entrano in un nuovo ecosistema che si fa subito incursione  in un nuovo genere cinematografico: il body horror à la Carpenter, il fantastico metafisico, il thriller.

Vesta è un pianeta-Cinema in cui è bellissimo perdersi. I sopravvissuti lo attraversano in una sorta di pellegrinaggio laico verso il relitto della loro astronave e ogni passo è un confronto, una memoria che emerge, una certezza che si sgretola. Come ogni viaggio, anche questo è un'esperienza innanzitutto interiore, di scoperta del sé, in direzione di un finale che è il culmine di tutto questo mescolarsi e creare nuove visioni da “vecchi” pezzi di cinema e di tecnologia.

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Joseph Bennett Charles Huettner Sunita Mani Alia Shawkat Wunmi Mosaku Bob Stephenson 1 stagione da 12 episodi
USA 2023
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Clementina

di Andrea Vassalle
clementina recensione film pampero

Tra i tanti aspetti che hanno riguardato la pandemia, con ampie conseguenze ed effetti su tutta la quotidianità, uno dei più segnanti è stato sicuramente la gestione e il rapporto con lo spazio, tanto quello urbano e pubblico quanto quello domestico. Con una significativa e complessiva risemantizzazione dello spazio che abitiamo, che in molti ambiti perdura tuttora, si sono mostrate nuove esigenze che possono aprire a un rinnovato assetto individuale e sociale. Il cinema ha saputo tracciare tali implicazioni, ad esempio in Kimi di Steven Soderbergh, nella connessione con l'immagine e il digitale, ma ha saputo anche originarsi da questa spazialità, come nel caso di Clementina.

Il film diretto da Constanza Feldman e Agustín Mendilaharzu - al suo esordio alla regia di un lungometraggio, dopo una lunga attività come operatore e direttore della fotografia dei film di El Pampero Cine - nasce come un gioco, nei giorni del Lockdown. I due protagonisti hanno iniziato a filmare quasi per necessità, per occupare i giorni di confinamento, dando così, attraverso il cinema, una nuova forma al loro spazio e alla quotidianità. L'idea embrionale di un cortometraggio è andata via via espandendosi e sviluppandosi, sino a comporre un mosaico (in pieno stile El Pampero Cine) di segmenti di vita ordinaria, che si traducono in un racconto ironico e personale. Da un'originaria pulsione semi documentaristica emerge una finzione sempre più consapevole e strutturata, e gli elementi della realtà vengono plasmati e trasformati con una rifrazione quasi fantastica, arricchita dalla musica medievaleggiante composta da Gabriel Chwojnik.

Spesso gli oggetti sono generatori di relazioni e spazi, sono mediatori tra noi e il mondo, come sosteneva Roland Barthes, e Clementina sembra proprio ruotare attorno a questa riflessione. Gli oggetti sono i protagonisti aggiuntivi del film, riecheggiando il cinema di Buster Keaton e soprattutto Jacques Tati, per l'iperrealismo dei suoni, e sono al centro dei momenti più divertenti e bizzarri. Ma soprattutto sono la prima connotazione data all'ambiente, con la casa in cui la coppia trascorre il Lockdown che è ricolma di oggetti in ogni anfratto, a formare dedali inestricabili (sembrano persino dotati di vita propria, come quando i frutti "cercano di fuggire" dalla borsa della spesa), mentre nella seconda parte la loro assenza esprime un mutamento e un nuovo equilibrio. È proprio attraverso questa costante relazione coreografica tra personaggi, spazi e oggetti che Clementina riesce a mettere in scena con semplicità l'intreccio tra la vita di coppia e un isolamento forzato, alla ricerca di una rinnovata stabilità che passa anche attraverso una risignificazione dell'ambiente in cui viviamo e operiamo.

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Constanza Feldman Agustín Mendilaharzu Agustín Mendilaharzu Constanza Feldman Alejo Moguillansky Laura Paredes 109 minuti
Argentina 2022
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Clorindo Testa

di Andrea Vassalle
Clorindo testa recensione film

«Noi dobbiamo fare questo documentario sull'Italia. Io devo fare questo documentario. È un dovere fare questo documentario sull'Italia», ripeteva senza posa Nanni Moretti in una scena di Aprile, dalla cui uscita sono appena trascorsi 25 anni. Sentiva la necessità di realizzare un documentario sulla campagna elettorale del 1996 e sulla situazione politica italiana. Fremeva per girarlo. Eppure finiva con il pensare a tutt'altro, perdendosi tra digressioni, storie, episodi familiari e variazioni, in un film che evolve come un canto libero sul paese, sul cinema e su Moretti stesso. Il Mariano Llinás documentarista, dopo i fluviali Historias extraordinarias e La Flor, sembra riprendere proprio quel Moretti (riecheggiandolo finanche in certe espressioni) e arriva a girare Clorindo Testa con un approccio non troppo dissimile. Commissionato dalla Fundación Andreani, il film all'apparenza dovrebbe concentrarsi sulla figura di Clorindo Testa, architetto e pittore italiano naturalizzato argentino ed esponente della corrente brutalista. Nonché amico del padre di Llinás, autore di un libro su di lui. Sin da subito però diviene chiaro come il soggetto altro non sia che l’ennesimo MacGuffin tramite il quale Mariano Llinás può zigzagare tra vari temi e suggestioni, esponendosi e raccontandosi in prima persona.

La ricerca iniziale del libro scritto da Julio Llinás su Clorindo Testa, mentre Mariano intreccia divertenti e irresistibili dialoghi con la madre, si trasforma in una ricerca sulla forma e sull'indirizzo del documentario, che costantemente viene elusa e rilanciata attraverso infinite deviazioni. Tra accenni al padre e a Testa, viaggi in auto per Buenos Aires, letture del libro, visioni alla moviola del materiale girato e confronti con la madre e i collaboratori di El Pampero Cine (tra cui la moglie Laura Paredes e Agustín Mendilaharzu) Clorindo Testa sfugge ogni vincolo e ogni collocazione, compresa quella di documentario. Di cosa parla, allora? «Prima di tutto, questo non è un film su Clorindo Testa. E seconda cosa, questo non è un film su mio padre», dice lo stesso Llinás. Come in un gioco di scatole cinesi, il film ne contiene e ne rivela altri, autoriflettendosi e commentando la propria natura. Al centro di tutto torna sempre l'omonimo libro, che racchiude in sé ogni componente del racconto e collega tra loro la storia dell'Argentina, Clorindo Testa, la famiglia Llinás e i rapporti con l'artista, i temi dell'arte e persino politici. Un nome, nessuno e centomila.

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Così come il precedente documentario da lui diretto, Corsini interpreta a Blomberg y Maciel, Clorindo Testa è attraversato e sospinto dal voice over di Mariano Llinás. Nel ruolo di cantastorie e abile affabulatore intreccia racconti, narrazioni parallele, frammenti, parentesi che si rincorrono e si susseguono come interludi musicali. Le immagini e lo svolgimento del film sembrano avere origine direttamente dalla sua voce, con cui il regista si rivolge allo spettatore per trascinarlo nel suo vortice di passione e ironia. "El fervor de filmar como se te canta", recita il motto di El Pampero, il fervore di filmare come si canta, e i documentari di Llinás ne risultano la perfetta traduzione, dispiegandosi come viaggi lucidamente anarchici e improvvisati, di una pulsione quasi dadaista.

Le molte e inaspettate connessioni e il costante rifrangersi del racconto rievocano la letteratura di Jorge Luis Borges, punto di riferimento fondamentale per Mariano Llinás, a partire dall'idea di un libro che racchiude un mondo. Un libro che diventa il film - la stessa cosa avveniva in Corsini interpreta a Blomberg y Maciel con l'omonimo album musicale - e da cui si origina il dedalo di storie raccontate da Llinás. Quella del labirinto è una figura centrale proprio della poetica borghesiana, come simbolo della confusione e dello stupore dell'uomo, dell'impossibilità di uno sguardo univoco sul reale, ed è anche alla base di Clorindo Testa, in cui a essere predominante è il tema della rappresentazione (come la diretta messa in scena dell'incontro alla Fundación Andreani) e quindi del cinema. Una realtà apparentemente semplice e raggiungibile cela significati più complessi e collegamenti impensabili, che Mariano Llinás include e raffigura attraverso il cinema, finendo con il riflettere su di sé e sulla storia del proprio paese.

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Mariano Llinás Mariano Llinás Agustín Mendilaharzu Laura Paredes Constanza Feldman Marta López Beltrán 100 minuti
Argentina 2022
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How to Have Sex

di Veronica Vituzzi
how to have sex - recensione film mubi

How to Have Sex richiama fin dal titolo quelle commedie americane grossolane e un po’ sciocche dove l’adolescente timido e poco scafato cerca di raggiungere fra mille magre figure l’agognata perdita della verginità. In questi casi poca importanza hanno le caratterizzazioni o lo sviluppo narrativo, una sola cosa è certa: il ragazzino è straordinariamente arrapato; la voracità del suo desiderio ossessivo è un dato di fatto. Così sembra anche per Tara, Skye e Em, giovanissime ragazze appena arrivate a Creta per quella che sulla carta si presenta come la vacanza "migliore" del mondo. Unica vergine fra le tre amiche, Tara auspica di liberarsi di quella verginità che sembra limitarla sia in termini di status sociale che di spontaneo e personale desiderio di vivere qualcosa che tutti raccontano come straordinario; l’incontro con la comitiva del balcone accanto alla loro stanza, in particolare i due amici Badger e Paddy, fa ben sperare, ma le cose non andranno nel modo sognato.

È bene sottolineare anzitutto che la regista Molly Manning Walker non disprezza i propri personaggi: nel film manca uno sguardo giudicante atto a produrre la solita concezione disfattista e traumatizzata sull’odierna gioventù persa fra cellulari, balletti ammiccanti e fiumi di cocktail. C’è anzi una certa tenerissima ingenuità in questo gettarsi a perdifiato nell’alcool ingurgitato senza freni, nella musica assordante e nei vestitini sempre più corti: una promessa di felicità e di libertà offerte al costo minimo di fare esattamente quello che fanno tutti gli altri. L’analisi di Manning Walker indugia a lungo sul contesto in cui agiscono i ragazzi, lasciando che dinamiche inconsce predeterminate si svelino pian piano nell’inquadratura.

how to have sex mubi

Ballare, drogarsi, ubriacarsi, fare sesso: sono i paradigmi di una vita apparentemente vissuta “al massimo” e di una gioventù ben spesa, e non si può rimproverare a degli adolescenti la mancata consapevolezza che ciò che viene raccontato loro come gratuito e spontaneo è in realtà stato predefinito dalla società come oggetto di consumo. Lo spazio in cui si muovono le tre protagoniste è un enorme parco gioco delle pulsioni, dedalo di locali, alberghi con piscine, dj set assordanti in cui alcool, corpi e musica sono a disposizione per offrire un’esperienza di vita in forma di merce da dissipare con voracità. In tutto questo il sesso è solo un altro prodotto, il che non sottintende un giudizio morale verso l'istinto sessuale in sé. Tara desidera perdere la verginità, ma non sa verbalizzare il proprio desiderio né entrare in contatto con sé stessa. D’altra parte, nessuno intorno a lei parla veramente di piacere sessuale, l’atto in sé sembra dover bastare a rispondere a ogni interrogativo. Al fondo di questa apparente giocosa socialità si muovono incerte e nascoste le vere emozioni dei personaggi, espresse in minimi atti quasi impercettibili di svelamento: frecciatine velenose da quella che dovrebbe essere la tua migliore amica, micro-reazioni di dolore e insicurezza, preziosi brevissimi atti di reale complicità con la persona che abbiamo davanti.  

In questa dimensione industriale dell’esistenza si innerva facilmente la cultura dello stupro, del corpo cioè come puro oggetto di consumo defraudato di ogni valenza. L’orrore taciuto nel film è il modo legalizzato in cui la violenza sessuale continua ad agire in un’apparente contesto di reciproco consenso, facendosi forte dell’insicurezza, dell’indifferenza, della pressione sociale, di un linguaggio assente. Tara dice sì perché non sa dire no, non conosce la differenza tra ciò che vuole e ciò che le sembra di dover volere. Non ci è dato sapere se il ragazzo che abusa di lei sappia o voglia riconoscere i segnali del corpo che chiaramente indicano che la ragazza non prova desiderio. Certo è che l’alibi sociale dell’equivoco innocente – non fare niente per esprimere il proprio dissenso - basta a fugare in lui anche solo il minimo dubbio sulle proprie azioni, lasciandolo libero di muoversi nel mondo nella veste consapevole o meno di stupratore.  

How to Have Sex assume progressivamente lo statuto di incubo filmico, opera sempre più claustrofobica man mano che la musica, i corpi danzanti, l’alcool, si impossessano di tutto lo spazio. La chiusura finale, con quell’ultima battuta consolatoria tra amiche, sembra rispondere più a una necessità inderogabile di speranza che a una reale fiducia nel futuro, ma certo è che ogni cambiamento, sembra dire la regista, non può partire che da questo: il balbettio impaurito di chi finalmente inizia a parlare veramente, frasi incerte e smozzicate che saranno la base per costruire di un vocabolario dello spirito più ricco ed efficace.  

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Molly Manning Walker Mia McKenna-Bruce Lara Peake Samuel Bottomley Shaun Thomas Enva Lewis 91 minuti
Regno Unito, Grecia, Belgio 2023
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Il cinema per Kristoffer Borgli: come nasce un autore

di Arianna Caserta
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Per le sale italiane, il secondo e il terzo lungometraggio del regista norvegese Kristoffer Borgli sono arrivati a un mese di distanza, restituendo agli spettatori l’idea che questo nuovo autore - sconosciuto a molti fino a poco prima - fosse una tra le poche leve emergenti in grado di ritagliarsi un posto consolidato nel panorama cinematografico mondiale in pochissimo tempo. Nonostante il fatto che Sick of Myself abbia dovuto lottare prima di ottenere una distribuzione ampia - era  stato presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival del Cinema di Cannes nel maggio 2022 - e che il contrario sia invece accaduto con Dream Scenario, arrivato subito nelle sale grazie alla spinta di A24, è come se, per casualità di programmazione, la distribuzione italiana avesse riportato il legame tra i due film al loro stato primordiale: il regista, infatti, li ha scritti entrambi nello stesso periodo, e non avrebbe mai immaginato che da lì a poco lo avrebbero reso uno degli autori più chiacchierati dell’industria. 

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Ma chi è Kristoffer Borgli? Nato nel 1985 a Oslo, la vita del regista segue la parabola di molti altri che come lui hanno lasciato l’Europa per inserirsi - lottando con le delusioni, la competizione e la bassa autostima - nel clima delle produzioni di Los Angeles che, in molti casi, è ancora l’unico vero trampolino di lancio per raggiungere un pubblico internazionale, creare connessioni e ricevere finanziamenti ingenti. Tra le strade affollate e le luci sgargianti di Los Angeles, però, Borgli non è arrivato solo con l’idea del lungometraggio che lo avrebbe consacrato; alle sue spalle aveva Drib (2017), uno strano film dove documentario e finzione si mescolano continuamente per raccontare la storia di un finto “caso mediatico” relativo a uno YouTuber impegnato a aizzare risse con sconosciuti per strada (proprio come nel celebre film mai realizzato da Harmony Korine, Fight Harm). È proprio quando il finto YouTuber - che mette in scena le risse senza parteciparvi davvero - viene contattato da un famosa marca di bevande effervescenti americana che lo vuole come volto dell’azienda, che Borgli comincia a seguire il feedback di realtà e finzione che si snoda attorno alla faccenda. Con Drib, due corti e una serie di video musicali nel suo portfolio, il regista norvegese aveva in realtà già messo al mondo il germe di una poetica che sarebbe rimasta coerente fino all’incontro con A24 e alla fama mondiale: una poetica messa a punto, particolarmente, nei sei cortometraggi realizzati a Los Angeles prima del rilascio di Sick of Myself nel 2022.

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Chi non ha familiarità con i leitmotiv dell’opera di Borgli ben prima della commedia nera sulla giovane Signe, che si deturpa pur di essere notata, non sa infatti che la quantità di film in cui il regista non appare anche come attore è minore rispetto a quella dei film in cui il regista presta il suo volto all’obiettivo per assumere il ruolo da protagonista. Eppure, il fattore più sorprendente rivelato da un’analisi della produzione dei suo cortometraggi, ha a che vedere con la sua divisione in blocchi tematici. Seppur con linee di contorno non troppo nette, - ma significative - il cinema di Borgli sembra aver attraversato due fasi cruciali: la prima, a cui si riferiscono lavori come A Place We Call Reality (2018) It’s not a phase (2019), The Loser (2019), The Altruist (2020) ha come nucleo tematico la sensazione di arresa e il perpetuo timore di sentirsi un perdente attorno a un mondo che continua a muoversi in modo rapido - e famelico - fino ad alimentare delusioni e ossessioni, soprattutto indirizzate verso la fama e il riconoscimento. In A Place We Call Reality, che coincide con il periodo di spostamento tra l’Europa e gli Stati Uniti, il regista risponde alla chiamata della rivista Dazed girando un cortometraggio sul suo stesso spaesamento una volta arrivato nella giungla di LA, e con il budget datogli per il film, paga il viaggio e le spese a uno strano guru rintracciato sul web che assume il ruolo di sua guida spirituale. It’s not a phase è un finto documentario su un fan die-hard di una band fittizia (di cui il frontman è interpretato da Borgli), che raggiunge l’estasi solo nel momento in cui riesce a introdursi furtivamente nella casa del suo idolo ed essere quindi finalmente notato.

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Sulla scia del finto documentario si muove anche The Loser, dove lo stesso Borgli, che interpreta sé stesso, si rende conto di non avere abbastanza stoffa o carisma per condurre un’intervista con il grande scrittore David Shields. The Altruist - forse il più significativo tra tutti i corti di questa fase - vede il regista interpretare nuovamente sé stesso mentre, durante la quarantena, chiama ognuno dei suoi conoscenti divorato dalla paura che gli altri si stiano magari incontrandosi e divertendosi alle sue spalle. La FOMO (Fear of missing out), la paura di non essere abbastanza, la sensazione di sentirsi esclusi e di non avere nulla da offrire, sono gli elementi cardine della fase che nella vita di Borgli coincide con l’arrivo in America e lo scoppio della pandemia. Di qui, al senso di disperazione che accomuna e attraversa questo gruppo di lavori, segue una seconda fase , volta a esaminare tutto ciò che si è disposti a fare pur di non esserlo. Un approccio che pare  ravvivare le suggestioni di Drib, e che corrisponde all’osservazione dei meccanismi della scintillante industria di LA, dove finanche l’ultimo detrito di umanità viene ingurgitato, sminuzzato e parcellizzato dalle regole della fama, dei soldi e da un modo di pensare corporate. È qui che il cinema di Borgli comincia a parlare dell’estenuante tentativo di emergere in un’epoca iper competitiva in cui l’attenzione è poca e i metodi per attirarla sempre più sconvolgenti. A questa fase corrispondono Former Cult Member Hears Music For The First Time (2020), EER (2021) e Filmmaker Gets Shot Suring Interview (2023), quest’ultimo rilasciato subito dopo Sick of Myself. Former Cult Member è una satira oscura su cosa accade quando le fragilità e l’innocenza altrui si scontrano con lo spietato mondo dei riflettori di LA, raccontato grazie alle vicende di una troupe intenta a filmare il primo incontro con la musica di una ragazza nata e cresciuta in una setta dove udire qualsiasi melodia era vietato. EER, figlio diretto degli studi per Sick of Myself, riflette invece sulle contraddizioni del sistema sanitario americano, e prende spunto dal fatto che lo stesso regista abbia dovuto dar prova di lavorare negli States per poter ricevere l’assicurazione sanitaria lontano dalla Norvegia. Ispirato all’episodio celebre di cui il regista Werner Herzog è stato protagonista nel 2006, Filmmaker Gets Shot vede il regista vittima di proiettili sparati anonimamente durante un’intervista per presentare il suo nuovo film in sala, e preme sul comico espediente di voler continuare l’intervista nonostante il sangue sgorghi e i colpi continuino a ferire.

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«Sono sempre stato interessato dal fatto che una persona che pare avere già tutto dalla vita, finisce spesso per rendersi miserabile concentrandosi sulle cose sbagliate»,  ha detto il regista durante un’intervista. E in un panorama in cui tutti sembrano vivere la versione migliore delle loro vite e la possibile fama è lontana solo un click, i film di Borgli riflettono, puntualmente, sulle dinamiche sociali che si snodano fuori dal grande schermo: la dimensione performativa del dolore sui social media, la corsa alla fama, l’annichilimento di ogni caratteristica umana sostituita dalla sua rappresentazione, l’olimpo degli influencer e dei contenuti virali, chiamati in causa nonostante gli schermi degli  smartphone non appaiano mai nei suoi film. L’operazione di Borgli non è didascalica, ma conta invece sullo spettatore e sulla sua capacità di riempire gli spazi mancanti di una narrazione contemporanea che non mira dritto alle sue cause, ma le sviscera fino allo sfinimento.

Il cinema di Borgli non parla di internet e di social media, ma degli impeti umani che li hanno resi quello che sono. Come succedeva per Michael Haneke, - che come nessun altro ha sviscerato l’ontologia dei nuovi media - i testi filmici non si nutrono tanto della loro trama, quanto del modo in cui lo spettatore si relaziona a essi — perché il modo più sincero di parlare dei media è parlare di chi li fruisce. L’operazione di Borgli è di ribaltamento: ricordare che le nuove tecnologie hanno solo esaltato alcune dinamiche umane, ma di certo non le hanno inventate. Se internet è la digitalizzazione dell’inconscio collettivo junghiano, è anche vero che questo è dettato da dinamiche di potere, algoritmi e bolle, e non è un caso che siano proprio i sogni a essere i protagonisti del più recente Dream Scenario (2023). Come salvare quei pochi brandelli di sincerità non raggiunti dalle fauci dell’exploitation capitalista? Probabilmente non c’è soluzione, e le aziende potrebbero aver già preso di mira persino la dimensione onirica. Del resto è proprio A24, che di quella trasformazione della cultura in gadget, merchandising e lustrini è a capo, a produrre un corto rilasciato negli ultimi giorni del 2023 dove il regista viene intervistato mentre sogna. Dream Scenario, però, dà inizio a una nuova fase che si apre con un nuovo quesito già suggerito dalle ultime scene di Sick of Myself: cosa succederebbe se, una volta raggiunta l’agognata fama, ci si rendesse conto che è esattamente l’opposto di ciò che si voleva? 

Se grazie a una vasta produzione di cortometraggi è già possibile un’ampia operazione di politique des auteurs per il regista appena presentato al grande pubblico, meno efficace sarebbe limitarsi ad attribuire un mucchio di parole chiave alla sua poetica, che si snoda invece come un un dialogo in cui regista controbatte, risponde a sé stesso, introduce domande laterali, si contraddice come principio irremovibile. Un movimento costante, in cui ciò che resta è l’importanza di un testo filmico in relazione all’anno della sua realizzazione, e il fatto  che un’opera come Sick of Myself sia stato in sala mentre al telegiornale passava la notizia di una donna che aveva finto di deturparsi il viso con un enorme tatuaggio sulla fronte, rivelatosi nient’altro che una bufala per raggiungere la fama su TikTok.
Accettare di dedicare il proprio estro artistico allo studio dei meccanismi che regolano i (nuovi?) media vuol dire confrontarsi con la primordialità dell’inconscio umano, che non ha età e resterà invariato anche quando ogni nuova tecnologia verrà spazzata da un’altra ancora più nuova; vuol dire analizzare un chiasso straniante, confuso e opprimente, mettendo la testa fuori e osservando con un po’ di distanza qualcosa da cui sembra impossibile non lasciarsi travolgere. Muoversi nel paesaggio dei media contemporanei con occhio critico prevede la messa in prospettiva di un fracasso assordante, e prevede l’accettazione del fatto che tutto sia già in procinto di svanire, di essere sostituito e trasformato in nient’altro che cenere. Perché come suggerito dallo stesso Borgli nel corto Willem Dafoe (2023), tra gli ultimi da lui realizzati, a cosa serve raggiungere lo stato di icona se le persone non riescono neanche a ricordare il tuo nome? 

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Passages

di Irene Frau
Passages recensione film

«Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa»
Walter Benjamin, I «passages» di Parigi volume primo

In una Parigi inafferrabile allo sguardo, il giovane regista tedesco Tomas (Franz Rogowski) sta girando un film. Nella scena successiva è insieme alla troupe e a suo marito Martin (Ben Whishaw), mentre tenta di divertirsi al party di fine riprese. Il film nel film, diretto dal protagonista, sembra essere costato parecchio stress a Tomas, che non riesce a coinvolgere il suo consorte nei festeggiamenti e finisce per passare la serata con Agathe (Adèle Exarchopoulos), una ragazza con la quale si ritrova a ballare per una lunga e seducente sequenza. Sin dall'incipit, carico di erotismo, prende forma una triangolazione amorosa dalle dinamiche tossiche fra i due coniugi e Agathe, dove Tomas è il motore, o meglio il regista, che dispone dei sentimenti e dei corpi dei suoi amanti per assecondare le sue smanie di controllo, tipiche di un narcisista patologico.

Passages è la seconda produzione europea di Ira Sachs dopo Frankie (2019), ed è anche il lungometraggio nel quale impiega tinte più vivide e pennellate più nette, sia nella regia che nella scrittura di una storia ricca di scene di sesso, mai superflue e sempre funzionali. Di fatto, nelle relazioni tossiche l’attrazione fisica è una delle armi utilizzate per manipolare, confondere e indurre il partner o la partner a sviluppare un rapporto disfunzionale, fatto di dipendenza affettiva e insincerità. Non solo il sesso, ma tutta l’estetica dell’ultimo lungometraggio di Sachs si manifesta con potente grazia, specialmente per la raffinatezza del linguaggio, dalle evidenti assonanze con Antoine Pialat e la Nouvelle vague di Jean-Luc Godard e Éric Rohmer. Anche le prove attoriali risultano determinanti per la riuscita di un lavoro senza sbavature, raffinato, capace di attraversare la grammatica di un cinema ormai lontano, rendendolo attuale e senza anacronismi.

Nei contenuti, Passages è un film contemporaneo; nella forma è immerso nella tradizione del cinema francese. I dialoghi degli amanti hanno come sfondo le tinte chiare delle camere da letto, illuminate dalla luce filtrata dalle finestre, dove Tomas cerca conforto. La natura dei loro discorsi, leggeri e nervosi, ricorda quelli di À bout de souffle (1960) e degli amanti clandestini di Romer in L'amour l'après-midi (1972). Ogni inquadratura è elegante, sobria e dalla composizione nitida a opera del direttore della fotografia Josée Deshaies. L’estetica delle immagini è esaltata dalla colonna sonora che varia dal folk al funky, fino a "La Marsigliese" free jazz di Albert Ayler.
La scrittura dei personaggi risulta densa, ma non didascalica. In ogni dialogo e scambio di sguardi emerge con naturalezza l’indole dei tre amanti parigini. Martin si occupa di arti grafiche, ha l’animo fragile e la corporatura esile; vorrebbe essere accudente ed è sinceramente innamorato. Tomas, pur essendo al centro della narrazione, non occupa tutta la scena e si rivela sofferente, sovversivo rispetto a ogni retaggio del passato e alla ricerca di uno spazio di azione che non troverà mai. Lo dimostra quando conosce i genitori di Agathe, i quali giudicano sintomo di inaffidabilità la sua natura bisessuale e le sue origini tedesche. Lei, pur essendo vittima della instabilità di Tomas, lo difende nelle questioni di principio e nei valori che con lui condivide. Risulta curioso notare come il personaggio di Agathe possa ricordare l’evoluzione di quello di Adèle in La vita di Adele (2013), interpretato dalla stessa e omonima attrice. Entrambi i personaggi sono semplici e seducenti: sia Agathe che Adèle fanno le maestre e sono alla ricerca spasmodica di amore e passione. Sia Agathe che Adèle sembrano succubi di chi dice di amarle, ma Agathe manifesta una maggior maturità e distacco rispetto ad Adèle.

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Martin e Agathe parlano in inglese con il tedesco Tomas. Lui dice qualche parola in francese, ma non è a causa della lingua che comunicare risulta complesso. Il problema maggiore è dato dal contesto in cui è ambientata la loro storia d’amore, ovvero quello della fine della modernità. Non a caso il film è intitolato Passages prendendo il nome di ciò che il filosofo Walter Benjamin definiva come il monumento ai fantasmi della cultura borghese capitalista di fine ottocento. I passages parigini erano i precursori dei centri commerciali e raccontano di un mondo in cui l’esplosività del sorgere della modernità ha pervaso ogni aspetto della vita dell’uomo. L’avanzare della cultura mediale (l’avvento della fotografia e del cinema), il processo di massificazione e il capitalismo industriale hanno modificato inesorabilmente le modalità del sentire in ogni sua forma. Perciò, modernità è sinonimo di choc. Secondo Benjamin, le masse atrofizzate da continui stimoli invasivi sono ridotte a folle di sonnambuli, pervasi dalla fantasmagoria delle merci esposte nelle vetrine dei passages e delle prime esposizioni universali. Vagano come flâneur tra i monumenti alla modernità, decaduti prima ancora di essere stati eretti.
Anche Tomas sfreccia per le strade di Parigi come un flâneur contemporaneo sulla sua bicicletta, correndo da un amante all’altro, da un fallimento all’altro, inseguito dalla camera con veloci carrellate. Martin e Agathe invece restano nei loro ambienti, quasi ne fossero intrappolati. Loro non hanno cambiato paese, né hanno rimesso in discussione il loro orientamento sessuale. Non si muovono compulsivamente per la città, ma restano nei binari delle loro professioni, delle loro abitudini e dei loro principi, per uscirne solo quando cedono al regista delle loro vite, ovvero l’insaziabile Tomas. Verso il finale, tra i sopravvissuti si instaura un rapporto di solidarietà, lasciando che i veleni rimangano a chi ne dispone.

I protagonisti si muovono in un contesto privilegiato, siedono al tavolo dei ristoranti più cool di Parigi, incontrando intellettuali e artisti della scena metropolitana. Abitano in case raffinate, ma dal gusto decadente; indossano abiti eccentrici, all’apparenza poco costosi. Sembra che siano disposti a superare le rigidità delle relazioni monogame e che possano spingersi alla sperimentazione del poliamore, ma in realtà Tomas, Agathe e Martin non sanno come gestire la libertà a cui aspirano. Tentano di andare oltre la “gabbia” dei rapporti di coppia eteronormati, ma come in una sorta di Jules e Jim (1962) queer del ventunesimo secolo, falliscono.

Con Passages la prospettiva del precedente Love Is Strange (2014), ovvero la lunga storia d’amore newyorkese dei protagonisti Ben e George, è ribaltata e superata per mostrare una complessità relazionale che potrebbe essere sintomatica dei nostri giorni, pur senza esprimere giudizi. Ira Sachs ha lavorato al suo ultimo film come se non avesse nulla di definitivo da dire con le parole, ma tanto da mostrare attraverso le immagini, composte secondo la sua interpretazione dei passages parigini nel mondo contemporaneo, senza pretendere di sapere cosa sia giusto o sbagliato nelle relazioni amorose.

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Ira Sachs Adèle Exarchopoulos Franz Rogowski Ben Whishaw 92 minuti
Francia 2013
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Red Rooms

di Emanuele Polverino
Red roomes-  recensione film

Kelly-Anne è una giovanissima e affermata modella, algida e imperturbabile nella sua spaventosa bellezza – «fai paura per quanto sei bella», le dirà un’amica – simbolo traslucido di una generazione che vive e respira su internet: «i soldi sono numeri, e io sono brava con quelli». Perché arricchirsi non è un problema: sedute di poker online, bitcoin, shooting fotografici, tutto le appartiene senza il minimo sforzo. Una fastidiosa routine che la separa dall’unica cosa che riesce a renderla partecipe di un mondo altrimenti sfocato e confinato alle sue spalle (insistiti e rivelatori i primi piani sul suo volto, in un ricorso quasi matematico a una minima profondità di campo): assistere ogni giorno alla morbosa (non solo per lei) ricerca della verità nel processo che vede imputato Ludovic Chevalier, presunto colpevole di tre efferati omicidi ai danni di altrettante ragazze.
La natura degli assassini è brutale, insostenibile per la macchina da presa: tre ragazze seviziate e riprese all’interno di camere rosse, luoghi “conosciuti” e famosi nel Dark Web (e anche qui il film risulta saldamente ancorato al contemporaneo, nel distinguere il Dark dal Deep Web, definizioni spesso fumose e mai chiarificatrici), sin dai visionari tempi di Videodrome. Ma se Cronenberg risulta tematicamente e formalmente (per lo meno a tratti) distante come riferimento, Red Rooms di  Pascal Plante trova il suo spazio tra l’astrattismo e l’artificiosità di The Neon Demon e il mondo post-pandemico e quasi post-umano di Kimi. Perché se è attraverso il corpo – gli shooting di alta moda, i duri allenamenti etc. – che la protagonista si aggrappa alla realtà analogica e ai suoi riflessi che abitano lo spoglio ma funzionale appartamento, è nel dialogo con Guenievre, intelligenza artificiale confezionata e adattata su misura, che Kelly-Anne riesce in qualche modo a non perdere contatto con sé stessa. Emblematica la domanda che pone all’AI durante una serata in compagnia di Clementine, l’altra ragazza che segue spasmodicamente il processo: «Guenievre, mi devo suicidare?» – proprio come il personaggio di Zoë Kravitz nel film di Soderbergh, eremita nella sua torre d’avorio perché simbioticamente collegata alla sua Intelligenza Artificiale.

È un film che vive di immagini, quello scritto e diretto da Plante, principali e di rimando. Dove il controcampo diventa soggetto delle scene, specchio di una mostruosità che non può essere svelata ma solamente accennata, dedotta. Ed è nelle urla dei parenti che visionano per la prima volta le bestialità subite dalle figlie che affrontiamo l’orrore, apice spettacolare di un pornografico gioco true crime che infesta talk show e dibattiti televisivi. Accorato argomento di discussione in grado di unire, anche solo momentaneamente, due persone così distanti come Kelly-Anne e Clementine. E sarà proprio la ricerca di un video mancante, tassello fondamentale che disvelerà la colpevolezza di Ludovic Chevalier, di un’immagine primaria che legherà ogni elemento in gioco, a permettere che Kelly-Anne si unisca al riflesso di sé. A un alter ego digitale che morbosamente assumerà le sembianze farsesche di una delle vittime, doppelgänger involontario figlio di un ossessivo viaggio verso la verità. Una rincorsa che culminerà in una singola scena madre, in una stanza inondata di rosso e del frutto delle ricerche di Kelly, che prende forma sul suo viso. Una cinica freddezza che trova riscontro formale nella messa in scena di Plante, chirurgica nelle geometrie durante il processo, ma mutevole e costruita su immagini di rimando (telecamere di sorveglianza, schermi di pc e cellulari) quando Kelly si trova a vivere “al di fuori” della finzione.

Ed è proprio nel suo dialogo con la realtà-altra, quella del digitale, ormai vera e propria linea parallela con il mondo fenomenico, che il film assume un’estrema importanza. Nel sorpassare la pura e semplice critica ai talk show – elemento che rimane comunque interno al film, con il personaggio di Clementine che passa dall’inveire in diretta TV al diventare soggetto ella stessa di un programma di gossip – per portare il tutto su un altro livello di consapevolezza del contemporaneo.

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Pascal Plante Juliette Gariépy Laurie Babin Maxwell McCabe-Lokos 118 minuti
Canada 2023
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New Religion

di Riccardo Turchi
New Religion cop img recensione

"Vuoi salire a vedere la mia collezione di farfalle?”
Ricco di elementi riconducibili al J-Horror e al sottogenere trasversale del Denpa, New Religion, opera prima di Keishi Kondo, è la storia crudele di giovani giapponesi senza spina dorsale, incapaci di declinare l’invito di uno squilibrato con l’ossessione per le colonne vertebrali (e in cerca di discepoli a cui manchi un sostegno). Le coordinate sono quelle lasciate da Kiyoshi Kurosawa: cercare la “X” e scavare dentro le persone più deboli, per trovare quei desideri e quei ricordi che non dovrebbero, per nessun motivo al mondo, tornare in superficie.

Miyabi ha perso da poco Aoi, la figlia piccola. Divorziata, convive con il nuovo fidanzato (produttore musicale) conosciuto a una festa e si è reinventata squillo. Un giorno, il suo “protettore” la accompagna a casa di un nuovo cliente, diverso da tutti gli altri. A ogni incontro, l’uomo misterioso (con la passione per le falene) pretende di fotografare diverse parti del corpo della giovane donna. Man mano che l’immagine di Myiabi viene scomposta, quella della sfortunata figlioletta inizia a ricomporsi nella sua mente. E l’assenza si fa pericolosamente presenza.
Analizziamo una delle primissime sequenze. Colori spenti, linee verticali e orizzontali che creano più di un quadro nel quadro (in piena tradizione giapponese, qui si tratta di finestre scorrevoli presenti all’interno di un moderno appartamento giapponese), particolare attenzione alla profondità di campo e personaggi che non mostrano mai il volto nella sua interezza: sembra Kairo del già citato Kurosawa.

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Viene anche inquadrata una tazza con del tè ancora bollente, mancano solo il detective Takabe e Mamiya. Mentre Myiabi legge un libro di Virginia Woolf (Gita al faro), la figlia è sul balcone. Prende uno sgabello, ci sale sopra e, apparentemente senza un motivo, si lancia giù. Cade, o forse vola. Destino - il suicidio dovuto a salti da considerevoli altezze - che accomuna numerosi personaggi, spesso femminili, all’interno delle produzioni Denpa giapponesi (All About Lily Chou Chou di Shunji Iwai). Tra i personaggi più iconici del genere, caratterizzato da individui incapaci di comunicare tra loro ma in grado di captare l’invisibile (le onde elettromagnetiche) e di udire le voci provenienti dall’Universo (e dai “micro regni” contenuti nel cranio) - nel quale sembrerebbe non esserci spazio per il concetto di vuoto, si pensi allo “spettro” di Mizumi attraversato da “particelle di Luna” in August in The Water di Gakuryū Ishii - c’è sicuramente Chisa Yomoda di Serial Experiments Lain, anime del 1998 scritto da Chiaki J. Konaka.
 

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Ispirata al personaggio omonimo di Alice 6 – un Area Code Drama (produzioni a basso budget visibili solo in determinate regioni del Giappone, popolari intorno a metà degli anni ’90) del 1995, diretto dal fratello minore di Konaka e trasmesso da TV Shizuoka per la prefettura di Shizuoka – la tredicenne Chisa Yomoda si suicida nel primo episodio di Lain buttandosi da un palazzo, apparentemente senza motivo, proprio come la figlia di Myabi. Durante la sequenza, entrata nell’immaginario collettivo giapponese, si ha la costante sensazione che la ragazza sia vittima di ipnosi o sotto l’influenza di una qualche voce. Prima di commettere il gesto estremo (con i suoi pensieri riportati allo spettatore attraverso l’utilizzo di cartelli, altro elemento tipico delle produzioni Denpa), Chisa Yomoda allunga un braccio, quasi a voler indicare qualcosa che solo lei vede. Mentre vola, i cavi elettrici le strappano la divisa scolastica. Dirà, in seguito, di aver raggiunto il posto dove si trova Dio.

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Anche in New Religion è presente un personaggio che allunga il braccio, indicando qualcosa di invisibile allo spettatore: si tratta di Akari, collega di Myabi. Come la protagonista, anche lei è alle prese con traumi che sembrano insuperabili (tanto da portarla a compiere atti di autolesionismo): la morte del padre e gli abusi subiti in passato dalla madre, ora gravemente malata e bisognosa di medicine costose. Lo stato di salute mentale precario della donna precipita definitivamente nel momento in cui entra in contatto con il misterioso fotografo, che nel mentre ha spostato il suo interesse verso il corpo di Myabi: probabilmente sotto ipnosi (non viene mai esplicitato), Akari inizia a compiere numerosi attentati, provocando decine di morti e feriti, per poi darsi sempre alla fuga. Impossibile non pensare al personaggio di Sumida di Himizu (Sion Sono) durante la scena in cui la giovane si aggira con occhi spenti per le strade illuminate della città, armata di cutter e alla disperata ricerca di vittime: entrambe persone che dal Sol Levante hanno smesso di ricevere luce, cedendo all’oscurità che le abita. Semplificando ai minimi termini, è di questo che parla New Religion.

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Destino simile a quello di Akari toccherà a Myabi: forse ipnotizzata, con il fantasma della figlia ormai presenza fissa nella sua mente, strangolerà a morte il fidanzato e attaccherà una scuola a bordo di un’auto riempita con gas esplosivo per poi darsi alla macchia. E così i traumi di due individui ormai vuoti, facilmente influenzabili e alla ricerca di una nuova fede che possa sostenerli nella vita di tutti i giorni, riaprono le ferite di un paese intero. Che in Giappone ci sia ancora spazio per l’insorgere di un nuovo movimento religioso (ricordiamo il titolo internazionale) come quello di Aum Shinrikyō?

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Keishi Kondo Daiki Nunami Satoshi Oka Saionji Ryuseigun 100 minuti
Giappone 2022
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Inside the Yellow Cocoon Shell

di Andrea Vassalle
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"Le cadre est une cache", scriveva André Bazin. L'inquadratura è una benda, un nascondiglio, che stabilisce ciò che è visibile e ciò che invece rimane fuori campo, invisibile, ai limiti della percezione. Due elementi che nel cinema instaurano un costante dialogo, compenetrandosi nello spazio centrifugo dello schermo. È proprio il fuori campo che spesso assume il ruolo più importante, delineando e ampliando, nella sua imminenza, quello che si mostra allo sguardo. Phạm Thiên Ân sin dai primi cortometraggi si è dimostrato particolarmente affascinato dal rapporto tra campo e fuori campo, tra ciò che prende forma nell'immagine e ciò che succede subito al di fuori o che non risulta in un primo momento visibile. Il giovane regista vietnamita, in Inside the Yellow Cocoon Shell, ripensa questa relazione e la ridefinisce con un'approssimazione tra cornice e schermo, che diventa qui centripeto. Le immagini perdono qualsiasi confine e al loro interno i margini si piegano allo sguardo e alla sua persistenza. Guardando in profondità e a lungo, oltre la durata consentita, vincendone la resistenza, l'immagine si apre a nuovi spazi e attrae il fuori campo, disvelandolo. È quello che cerca di fare Thien, il protagonista, nel tentativo di trovare la fede e di riconnettersi con la propria anima. Di aprirsi, quindi, a una nuova percezione, a una nuova dimensione di sè, che avverte in un primo momento come un qualcosa di sfuggente, situato al di là della vista.

Inside the Yellow Cocoon Shell inizia con un piano sequenza che rappresenta un'estensione del precedente cortometraggio di Phạm Thiên Ân, Stay Awake, Be Ready. Un'unica inquadratura che si affaccia come una finestra su una piazza di Saigon e che si apre alla sua brulicante e frenetica vita. Da una partita di calcio - vista attraverso una rete, il primo dei tanti filtri che schermano le immagini del film - si passa, attraverso il movimento di una mascotte seguita dalla macchina da presa, a tre giovani ragazzi che discutono di fede e degli scopi dell'esistenza, mentre attorno a loro decine di persone cenano e si spostano, in un incrocio di vite e di traiettorie. "Vorrei credere, ma non posso", dice Thien. È la mente a trattenerlo, a frenarlo, a precludergli la fede. Tutto sembra partire da qui, da queste parole pronunciate fugacemente e distrattamente, che sono un prodromo del conflitto e del viaggio interiori che avranno luogo di lì a poco. L'incidente che toglie la vita alla cognata segna l'esistenza di Thien, riconducendolo nei luoghi in cui è cresciuto per prendere parte ai funerali e per accudire il piccolo nipote, e riconnetterlo così con tradizioni e culture da cui ormai si era allontanato. Sono ombre che sembrano richiamarlo dal passato e da un altrove, in attesa di una risposta, com'è in attesa il cellulare di Thien che squilla incessantemente, da lui ignorato. "È Dio che sta chiamando", e forse è davvero così.

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Dal caos di Saigon Thien si ritrova nelle antitetiche valli del Vietnam centrale, ammantate da una nebbia misterica, che risuona nell'immagine, e abitate dalla minoritaria popolazione cristiana. Lo sguardo di Phạm Thiên Ân si fa quasi antropologico nell'osservare uno dei volti meno noti del paese asiatico, riprendendone i rituali funebri, i canti, le processioni e i simboli religiosi. Affiorano nelle inquadrature come la statuina di Cristo che vediamo spuntare dall'alveo di un fiume, o come la scena di San Tommaso rievocata quando un anziano mostra e fa toccare a Thien la ferita di guerra sul costato. Il viaggio del protagonista assume un valore profondamente spirituale, allontanandolo progressivamente dalla civiltà e dai suoi punti di riferimento, attraverso l'astrazione dei luoghi e la diluizione del tempo, ed esponendolo a un confronto onirico con l'ignoto. Spazio e tempo perdono quindi la propria definizione, mentre presente, passato e sogno si confondono - e sembrano persino sovrapporsi, nella scena d'amore e di commiato tra Thien e la ragazza nell'edificio abbandonato di tarkovskijana memoria - sino a culminare nel momento in cui si immerge nelle acque di un fiume, in una raffigurazione battesimale che lo avvia a una nuova vita e a una nuova visione.

La ricerca intrapresa nella seconda parte del film, nel tentative di Thien di rintracciare il fratello scomparso anni prima, è in realtà una ricerca interiore, che Phạm Thiên Ân esprime e racchiude nelle immagini, sondandone la durata e l'intensità. La camera fissa, i piani sequenza interminabili e i movimenti di macchina sinuosi richiamano il cinema di Bi Gan, Apichatpong Weerasethakul e Tsai Ming-liang, ma è soprattutto alla comune matrice antononiana che il regista vietnamita sembra guardare, non solo per il tema della scomparsa, ma in particolare per l'alienazione di Thien ("Hai forse abbandonato la tua anima?"), per il rapporto spirituale tra personaggio e paesaggio e per la pulsione del fuori campo. Ogni piano sequenza del film, ben lungi dall'essere uno sfoggio tecnico gratuito, è un atto di osservazione, un momento di puro sguardo che vince ogni resistenza e che valica le finestre, le grate e i vetri che spesso schermano le inquadrature. Uno sguardo che si condensa nel gesto di Thien di passare una mano sul vetro di una doccia, per diradare l'appannamento e poter vedere meglio, o negli splendidi piani sequenza che fissano la penombra e il buio fino a che l’occhio si abitua e svela ciò che nascondono tra le loro pieghe.

Inside the Yellow Cocoon Shell si rivela un'espressione della spiritualità nell'immagine, oltrepassando i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla e donando non solo a Thien, ma anche allo spettatore una percezione diversa e nuova, a suo modo sconvolgente e intima.

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Phạm Thiên Ân Lê Phong Vũ Nguyễn Thị Trúc Quỳnh Nguyễn Thịnh Vũ Ngọc Mạnh 182 minuti
Francia, Singapore, Spagna, Vietnam
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