A Quiet Place 2

di Alessio Baronci
A-Quiet-Place-II recensione film

Si discute ancora troppo poco dell’importanza teorica di A Quiet Place. Il film di John Krasinski portò infatti all’attenzione del pubblico l’essenza della percezione sensoriale in una società saturata dal digitale. Attraverso un attento lavoro sul sonoro e una precisa costruzione dell’immagine, A Quiet Place si rivelò un solido saggio sul sentire e sul vedere perfettamente inserito nella corrente teorica del “ritorno all’analogico” che coinvolgeva tanto il film di Krasinski quanto i saggi di Damon Krukowski e David Sax. Finora, tuttavia, uno spunto di riflessione del genere, pur nella sua pregnanza, non era ancora riuscito a farsi effettiva pratica artistica. A Quiet Place 2 è dunque il prosieguo di un discorso interrotto, un film in perfetto equilibrio tra il concettuale e il militante, pronto a tracciare la via, a far dialogare quello spunto legato alla percezione sensibile con il sistema del cinema popolare.

Per farlo Krasinski torna all’immagine e allarga il suo raggio d’azione, libera la sostanza dal fotogramma e la lascia libera di agire sul sistema del racconto. E se dunque le immagini di A Quiet Place 2 sono entità ai limiti del biologico, capaci di modificare il contesto in cui proliferano, è emblematico che il film inizi al Day 497 dall’inizio dell’invasione, quasi a voler sottolineare quanto il mondo in cui si ambienta questo sequel sia profondamente cambiato rispetto al primo film, colonizzato, oltre che dagli alieni, anche da quell’essenzialità, da quella concretezza, insite nella messa in scena, che ora hanno eroso tanto i meccanismi del film quanto quelli del cinema commerciale a cui appartiene. L’azione dentro al quadro è dunque il punto di partenza di un processo analitico e riflessivo più profondo e ambizioso, vicino all’approccio pressoché tecno-classico di Michael Bay, il cui cinema da sempre ragiona per immagini pure e riflette sulla fragilità delle strutture della Franchise-Age. È proprio a Bay che Krasinski guarda nel magnifico prologo di questo secondo capitolo, ambientato nel Day One dell’invasione, una sequenza che raccoglie i maggiori input del cinema pop contemporaneo, dalle narrazioni ramificate alla psicologia complessa dei personaggi, passando, ovviamente, per quella gamification ben evidenziata dalla citazione all’opening di The Last Of Us. Si tratta però dell’ultimo barlume non solo di un mondo ma anche di un cinema “canonico”, quasi 500 giorni dopo è tutto finito. Dai detriti emerge un film che, nutrito dal minimalismo sistemico della regia e desideroso di essere il prototipo di un nuovo cinema pop, si sviluppa a partire da una sorta di grado zero di quel cinema: il movimento.
A Quiet Place 2 è dunque un prodotto tanto affascinante quanto schizofrenico, che guarda al futuro ma parla con l’essenzialità del cinema classico, si rivolge alle platee contemporanee ma impietosamente pone in scacco le strutture portanti della Franchise Age. Nei suoi momenti migliori è un pamphlet demistificatorio e straniante che mostra tutti i limiti delle narrazioni serializzate centrali nel cinema contemporaneo: la componente di world building è ingolfata, gli alieni non hanno identità o background, e ciò che si vede è costruito a partire dal recupero di materiali altri, provenienti da un immaginario sci-fi preesistente. Allo stesso tempo la narrazione disinnesca la forza dei sempre più presenti racconti multi strand in una storyline retta da tre essenziali linee, che vedono Regan incamminarsi verso l’ultimo rifugio sicuro dell’umanità insieme al vecchio amico di suo padre Emmett, mentre la madre Evelyn va in cerca di scorte medicinali per curare il figlio Marcus, impegnato a proteggere il fratello neonato e che, ferito, prova a resistere all’agguato di un alieno nel nuovo rifugio della famiglia. Anche il tradizionale topos del viaggio si atrofizza dunque in una narrazione che rende gli spostamenti quasi istantanei e che, paradossalmente, anche nei momenti più dinamici, preferisce rinchiudere i personaggi in spazi anonimi e claustrofobici, piuttosto che lasciarli liberi di agire nei tradizionali ambienti ariosi del cinema post apocalittico.

A contatto con questo sistema, Krasinski diventa una versione sghemba e quasi parodica di un’entità a metà tra lo showrunner e l’executive: gioca costantemente con lo spettatore, si diverte a metterlo a disagio, a costringerlo a seguire le complesse regole di una narrazione all’apparenza respingente, ma al contempo è pronto a violare lo stesso playbook che si è imposto se ciò gli permette di girare una sequenza suggestiva o particolarmente d’impatto. Non deve stupire, dunque, se alla fine, A Quiet Place 2 sia una sorta di film museale, che cattura personaggi in cammino, colti a osservare immagini inerti di un cinema ormai quasi in putrefazione: la strada piena di auto ferme come in The Road, il treno deragliato, addirittura la farmacia già incontrata nel primo film. Per ripartire, forse, bisogna affidarci ad altre immagini, inscindibili dai gesti dei singoli personaggi, come il revolver estratto da Evelyn o il palo conficcato da Regan nella testa del Mostro sul finale. A Quiet Place 2 pur nel suo essere a tratti strabordante, ha in sé l’incoscienza di mostrare il ricorsivo ed impersonale gioco di specchi del cinema popolare. Che Krasinski abbia ragione o meno, è indubbio che le sue siano argomentazioni particolarmente lucide.

Come in un complesso numero di magia, il film riduce la Franchise Age ai minimi termini e spiazza con intelligenza lo spettatore facendolo confrontare con un racconto che è avvincente anche se fondato su un approccio minimale e sulla sola messa in scena più che su una sintassi massimalista. Krasinski non solo dimostra la straordinaria resistenza dei topos del cinema classico ma ricostruisce soprattutto attraverso di essi il rapporto emotivo tra spettatore e personaggio. Se ci sarà un tratto attraverso cui ripensare il cinema commerciale, A Quiet Place 2 punta tutto sull’empatia, sulla condivisione del carico emotivo tra chi osserva la scena e chi agisce in essa. Basta questo per rimanere avvinti dalle immagini, basta entrare in contatto profondo con chi impugna la pistola al di là del quadro, per trasformare quella pistola in una sorta di punctum Barthesiano. In fondo il cinema è tutto lì.

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John Krasinski Emily Blunt Cillian Murphy Millicent Simmonds Noah Jupe 97 minuti
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First Cow

di Leonardo Strano
First Cow - recensione film reichardt

Anche per Kelly Reichardt il western è prima di ogni altra cosa un avventuroso gioco di ripetizione.  Si capisce dalla prima inquadratura di First Cow, la lenta entrata in campo da sinistra di una nave da trasporto sul fiume Columbia: si tratta dell’immagine speculare, la riscrittura, la ripetizione appunto, dell’entrata in campo da destra del lunghissimo e ansimante vagone che apriva il suo film precedente, Certain Woman. Ma è anche la riformulazione della scena di apertura di Meek’s Cutoff, l’altro western della regista, cioè la scena del guado del fiume compiuto dagli sparuti avventurieri protagonisti in cerca di acqua; o, se si vuole cercare una rima più fragile, la ripresa dello sferragliare dei vagoni anonimi all’inizio di Wendy and Lucy. Sempre la stessa immagine, informata in maniera diversa, per dire di lievi slittamenti di un pensiero che rimane fisso – quello della stessa Reichardt, che ha ammesso tempo fa di pensare alle immagini dei suoi film sempre in un modo solo: “I used to think everything was a western”. 

Perché questo gioco di parafrasi visive sia tipico del western (come la stessa regista sembra riconoscere), e perché proprio il western venga considerato una matrice che genera la tensione alla ripetizione Raymond Bellour lo ha spiegato molto bene quando ha scritto del carattere di gioco del genere e della sua funzione di ripetizione rispetto alla storia americana: “Fare un western per un regista è ricominciare daccapo la storia e il cinema americani”. E in effetti per Reichardt il western è questa licenza poetica, sfruttata come presupposto teorico che si staglia sullo sfondo delle storie a giustificare la possibilità di rimettere in scena, “sempre di nuovo”, una parte di Storia d’America. O meglio, a cercare attraverso questa continua riscrittura ossessiva, il problematico punto di ingresso della Storia nella terra americana, a giocare a ritroso per trovare il suo punto di inizio. Ecco quindi perché molti dei film di Reichardt iniziano con delle entrate in campo, momenti di ingresso di un evento inedito. 

First Cow non è indifferente a questo pensiero, anzi, è forse più di altri un film sensibile alla difficoltà di mettere in scena questo ingresso, e infatti il suo inizio è sfalsato rispetto alla storia principale che racconta. La nave che apre il film non è una nave del diciannovesimo secolo e non trasporta né Cookie, il cuoco protagonista impegnato a cercare lavoro, né Lu, un ambizioso entrepreneur di origini cinesi che sta scappando da alcuni inseguitori, né la prima mucca dell’Oregon, che diventerà l’obiettivo di entrambi; è una nave mercantile del ventunesimo secolo, che presto lascia l’orizzonte dell’inquadratura alla presenza di un cane e di una donna (a proposito di riscritture), impegnati a curiosare a bordo del fiume. Sono loro a dissotterrare per caso due scheletri umani che tenendosi per mano sembrano voler contraddire con il mistero della loro tenerezza il peso del destino desolante che li ha costretti alla terra. Un destino che è Storia, la Storia che sono diventati e che un tempo non erano, come dice il pioniere di Meek’s Cutoff (“Abbiamo preso la nostra decisione, presto si tratterà solo di un cattivo ricordo, di una storia da raccontare) quando si rende conto che la vita che vive e le decisioni che prende diventeranno solo un racconto. 

Questo inizio sfalsato, in cui i protagonisti che vedremo vivere sullo schermo sono già scheletri, rimanda allo scarto che separa Storia e vita e racconta del lento assottigliarsi di ogni vita in Storia con il tono dell’apparente inesorabilità propria dello sguardo a posteriori. Questo sguardo per la regista è la prospettiva che il contemporaneo ha non solo sulla Storia ma anche su se stesso: è un punto di vista archeologico, in cui a risaltare è la struttura di apparente inesorabilità per cui la vita, le decisioni, ogni nuovo momento che è avvenuto diventa sempre uno strato della Storia. In questa prospettiva tutto assume il carattere di necessità storica, dal passato al presente, e contestualmente tutto assume legittimità per come è avvenuto e avviene: il contemporaneo letto come ultima prova dell’immodificabilità della Storia non mette in discussione i difettosi connotati che lo caratterizzano perché li legge come naturali. Tuttavia, siccome la Storia è il risultato di una serie di contingenze senza predeterminazione e non di una necessità, il concetto di necessità storica è una falsa prospettiva. 

Reichardt interessa questa falsità, si serve di questa illusione ottica e per questo sfalsa l’inizio rispetto alla storia dei personaggi - nello stesso modo in cui chiudeva Certain Woman con un movimento circolare per raccontare dello stato di apparente immobilità e dell’apparente impossibilità delle protagoniste a modificare la situazione – per dire di un netto contrasto tra due modi di leggere la Storia: uno che la legge come evento necessario, naturalizzandola, e uno che invece all’opposto la distingue dalla Natura, assegnandole il carattere di contingenza. In questo contrasto (che si irradia in tutta la filmografia della regista) il primo modo di leggere la Storia è quello della ragione capitalistica, che trova nella naturalizzazione forzata di se stessa, contingenza storica arbitraria e quindi sostituibile, una giustificazione per sfruttare a piacimento le risorse della terra; siccome per Reichardt la ragione capitalista è la protagonista della Storia americana rimettere in scena la Storia, giocare con la possibilità di una ripetizione, significa aprire una possibilità di riscrittura e di resistenza all’univocità vantata da questa ragione. La regista fa infatti ricominciare il film: non più con il suono del motore della barca, ma con quello sordo e tondo di un fungo staccato dal terreno; non più con la prospettiva a posteriori dall’alto ma con uno sguardo dal basso, per raccontare la storia di Cookie e Lu come inedito ingresso in un territorio naturale inesplorato che sta iniziando a essere sfruttato. Attraverso la loro storia Reichardt smentisce la certezza del contemporaneo inscrivendo nella sua prospettiva il ricordo di un altro tempo, il tempo della natura: l’inscrizione di questo tempo diverso è il lavoro di forma su cui il film si concentra. 

Si tratta di un tempo profondo che sembra marciare sul posto e calcare su se stesso, sui singoli gesti, fino a trasformarli in eventi, in singolarità irripetibili, concrezioni di materia che passa e trapassa nel nulla continuamente e comunque riesce a lasciare una traccia, un segno che resta. Il brivido che generano le immagini di Reichardt è legato al fatto che questo tempo che si fa sempre più impersonale, sempre più raccolto e distante, non si estrinseca dalle singole vicende dei personaggi ma è invece incarnato in loro, è presente in essi: le immagini trasudano tempo perché sembrano in grado di intercettarne l’invisibile passaggio, e di congelarlo per un attimo, ma continuamente, in un effetto di vibrazione prolungata, di oscillazione che è cosciente di una presenza. Questa presenza che è concrezione di tempo può assumere la forma della nuvola di polvere esalata da un tappeto sbattuto, il suono dei ciocchi di legno raccolti per fare brillare un fuoco, il lento mungere notturno che cerca di non farsi scoprire di Cookie e Lu - che devono rubare il latte della mucca del sovraintendente per fare le frittelle su cui basare la propria impresa, in un atto criminale, ma coerente con lo sfruttamento strutturale, che deciderà la loro esistenza. 

In queste singolarità si affaccia quella che una certa filosofia dell’esperienza estetica ha chiamato shiftness, mobilità, dinamismo intrinseco, ferita in cui i modi finiti, rimanendo tali, sono eterni (eterni, ma non immutabili, come i segni del capitale, perché sempre aperti alla possibilità di non essere). Gli oggetti, le cose, i gesti nelle immagini della regista hanno la qualità che David Herbert Lawrence riscontrava nelle mele di Cèzanne, “l’essere proprio quel qualcosa del qualcosa”. In questo approfondimento temporale abissale Cookie e Lu esistono come uomini che compiono scelte vitali, presenti, non già a posteriori, al punto che proprio Lu insiste nel rimarcare che è il presente la dimensione del loro agire imprenditoriale, in cui si deve cogliere l’opportunità quando si presenta - un presente che comunque è fuori dall’Impero e dalla Storia, anche nelle parole del sovraintendente e del capitano per cui “la Storia si muove così velocemente a Parigi che si estingue là, senza  arrivare qui”. Non è ovviamente il presente dell’occasione imprenditoriale che corrisponde al tempo profondo di Reichardt, ma è interessante per la regista che i personaggi in questo caso identifichino la Storia con i costumi umani, non comprendendo che loro stanno comunque scrivendo la Storia su una pagina bianca, introducendo il capitale nell’ecosistema. 

Dove si riscontra però di preciso il tempo riscritto, la possibilità di un inizio differente all’interno della storia di Cookie e Lu, la restituzione alla loro storia di una eccezionalità contingente che la necessità storica sembra voler ignorare? Il suo segno è già nella stretta di mano dei due scheletri, cioè nel segreto che essi si portano oltre la riduzione storica: come enuncia la citazione all’inizio del film di William Blake (“L’uccello ha il nido, il ragno la tela, l’uomo l’amicizia”) è l’amicizia tra i due uomini la ferita che si incide nel tempo per restare. E in effetti l’amicizia travalica, sfugge alla ragione mercantile che non la comprende, per rimanere motivo di un sacrificio (visto che Lu decide di non abbandonare Cookie, che, ferito, non può proseguire nella fuga dal sovraintendente) che testimonia di un’umanità commovente.  Questa umanità che Reichardt riesce a cogliere, nella sua primarietà di gesto singolare, di presente sensibile, ecco questa umanità è talmente forte e talmente colma di tempo che non finisce, che non capitola, ma invece si erge e resiste, spezzando la proiezione del cerchio che vorrebbe vedere tramutare i due corpi distesi mano nella mano negli scheletri del futuro, cioè vorrebbe sigillare la loro esistenza nel dato storico. Invece il film si conclude con una inquadratura speculare a quella dei due scheletri, come a dire di una opposizione: questo leggero dislocamento di senso è ulteriore ripetizione, gioco con la Storia americana, possibilità che qualcosa possa, sempre di nuovo, accadere, anche se tutto è stato scritto.

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Kelly Reichardt John Magaro Orion Lee Toby Jones Ewem Bremner Lily Gladstone 121 minuti
Usa 2019
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Lumina

di Leonardo Gregorio
Lumina recensione Point Blank

Una ragazza nuda su una spiaggia deserta, di un blu elettrico, quando il giorno è ancora da venire oppure è già passato, un punto di blu che pare da notte americana, comunque foriero di smottamenti, deviazioni di senso. La ragazza potrebbe essere la sirena dopo il patto con la strega del mare, le gambe in cambio della voce, dono per dono, prodigi discutibili (presto scopriremo che un dono in effetti le è stato conferito). La ragazza nuda e il rumore del mare, una rete da pesca diventa il suo abito. Potrebbe essere, dunque, una creatura dell’acqua, venire in ogni caso da un altro mondo, da un altro tempo, da altri naufragi. Non è dato saperlo, e in fondo non conta, non è importante. S’incammina con il suo mantello magico. Viandante misteriosa (forse) senza memoria, arriva dall’ignoto e verso l’ignoto si inoltra, seguendo tracce sfuggenti, petrose, cadute, passate, forse immaginarie, di certo sconosciute. Comincia da qui, Lumina di Samuele Sestieri, opera prodotta dallo Studio Ma.Ga. di Pietro Stori e dello stesso Sestieri e che da poco ha iniziato il suo percorso per festival, a cominciare da Rotterdam e Pesaro. Un’altra fiaba, dopo quella di I racconti dell’orso (dove la regia era condivisa con Olmo Amato); una fiaba che si scrive come un documentario intimista, che trova il racconto di formazione tra soglie, passaggi e profondità, toccando il reale e le sue protesi, la luce del giorno e la muta notte di stelle, le paure e gli incubi di una creatura smarrita. La storia del Novecento è custodita nei libri abbandonati in una casa abbandonata di un paese abbandonato, fantasma almeno tanto quanto lo è lei; Mr. Lonely di Bobby Vinton è un’accensione, un presagio, forse un approdo, una rinascita, un miracolo. Una ragazza misteriosa dentro mondi scomparsi in un itinerario tra boschi e macerie, resti di abitato sfinito e oggetti sperduti che sono forme di vita. Il prodigio è che lei dà loro la luce, li riaccende, è la dea Lumina, se possiamo esprimere un qualche potere sul titolo. Così riesce a rianimare un cellulare con tutto l’archivio di vissuto che trattiene, come l’amore (passato?) che lega una giovane coppia, Leonardo e Arianna. Perché sono le vite degli altri, qui, che fanno ritrovare, o forse trovare per la prima volta, il proprio racconto alla protagonista, e, se fosse caduta sulla terra, la forma di relazione tra gli umani che c’erano prima della desolazione che tutto circonda. Ma forse potrebbe anche essere, chissà, il suo sguardo a produrre l’identità, la storia, la verità di quelle esistenze smaterializzate, di quelle immagini immagazzinate in uno smartphone, figure in scorrimento su un display, incantesimi, linguaggi in collisione.
Il cinema del filmmaker romano, classe 1989 (autore anche dei corti Matrioska Danza al tramonto), sembra ancora cercare forme più che strutture, segni più che scritture, presenza più che personaggi, anche se in Lumina (sceneggiato insieme a Pietro Masciullo, mentre montaggio e fotografia sono rispettivamente di Fabio Bobbio e Andrea Sorini, registi anche loro) il raggio si amplia, e la partita tra tempo della narrazione e tempo della visione si articola in modo più ambizioso, più aperto, problematico. I sentieri sono un luogo dell’anima, delle anime. Perché è un film dell’amore Lumina, e forse una traiettoria strana che attraversa il mondo dei vivi e quello dei morti, come un rito di spiriti, cercando le immagini che ricordino, che inventino, che sentano le vite precedenti. Per ritornare infine alle vite che verranno.

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Samuele Sestieri Carlotta Velda Mei, Laura Sinceri, Matteo Cecchi, Vasile Morosan 105 minuti
ITALIA 2021
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: "Rio Lobo"

di Matteo Berardini
Rio Lobo - recensione film hawks wayne

Da tempo Quentin Tarantino lancia il suo avvertimento: dieci film e stop. In cerca del perfetto mic drop, il regista è ossessionato dall’esito altalenante di tanti grandi che lo hanno preceduto, le cui carriere tendono effettivamente spesso a chiudersi con lavori alimentari, girati col pilota automatico e senza particolare verve. Tra questi, in un Q&A del 2010 organizzato dall’American Cinematheque, Tarantino ci mette anche Howard Hawks, tra i suoi registi del cuore (ovviamente) e autore di capolavori che vanno da una parte all’altra dello spettro del genere hollywoodiano. A riguardo l’affermazione è lapidaria: «I don’t want to make Rio Lobo», riferendosi all’ultimo film di Hawks come a un esempio perfetto di opera tardiva, realizzata da un autore in passato magnifico, innovativo e determinante, ma oggi inevitabilmente sorpassato dai tempi. E in effetti Rio Lobo, western in technicolor in cui Hawks ritrova John Wayne e replica, per la seconda volta dopo El Dorado, gli elementi di assedio e tensione morale del capolavoro Un dollaro d’onore, non si può certo dire che sia una chiusura a effetto. Tuttavia, al netto di dichiarazioni tranchant, il film d’addio di Hawks è un racconto solido che abbraccia i temi cari al regista e offre momenti di grande spettacolo, un film realizzato con scioltezza e un pizzico di stanchezza da chi ha già dato tutto ma che, per esperienza e talento, resta comunque in grado di accomiatarsi in modo più che dignitoso.

Realizzato nel 1970, Rio Lobo giunge negli anni in cui il cinema americano sta cercando, e trovando con successo, nuove strade per sfuggire alla crisi industriale e di pubblico che aveva decretato la fine dello studio system. La New Hollywood è ormai cosa fatta e in piena esplosione, i grandi generi classici vengono rivisitati e riscritti all’insegna della nostalgia o di istanze trasformative che rispecchiano le innovazioni socioculturali del ’68, mettendo in discussione miti e narrazioni tradizionali. In questo contesto altamente mutante Hawks è uno degli ultimi grandi in azione, un nome del passato che porta con sé un senso dello spettacolo e del cinema d’altri tempi, una sicurezza nel potere affabulatorio classico del cinema che è anche, oggi, arrivati a questo punto della storia, una sorta di ingenua speranza, una fiducia riposta in un’impalcatura narrativa che ha perso ormai l’ancoraggio al reale e rischia di farsi pura reminiscenza di stili e di forme.
In questo senso Rio Lobo è un film che non risponde alla sfida del tempo ma la schiva, accontentandosi di evitare gli aspetti più scottanti della tradizione western – come il rapporto con gli indiani e la conquista della frontiera (mitologemi decostruiti proprio in quegli anni) – per rifugiarsi piuttosto sui temi cardine del cinema di Hawks, come l’importanza del lavoro di squadra, l’etica del lavoro, il rapporto sodale e fraterno che unisce persone ugualmente solide e fedeli anche se impegnate su barricate opposte del campo di battaglia. Del resto la guerra civile è solo l’innesco narrativo del racconto, mentre il motore drammatico della storia sta nel disprezzo provato dal colonnello nordista interpretato da Wayne nei confronti non degli avversari sudisti ma di quei nordisti che hanno tradito i loro compagni per avidità e codardia, e che dopo la guerra esercitano il loro nuovo potere attraverso la violenza e la prevaricazione. Ancora una volta per Hawks il conflitto si combatte sul piano etico e morale, e riguarda le scelte che ciascuno fa quando viene posto di fronte alle sue responsabilità, per quanto fatali possano essere. In questo senso il film, che inizia come una grande avventura, perde via via il suo spirito più spettacolare per andare a ripercorrere scene e situazioni di Un dollaro d’onore, di cui diventa effettivamente una replica sbiadita priva di particolare vitalità.

Cinema senile e fuori tempo massimo, quindi? In realtà tutt’altro, perché non possiamo dimenticare che la base di partenza per questo modo di intendere l’immagine, il racconto, il rapporto complesso tra i protagonisti, deriva da un senso del cinema di fulgida attualità, una lucidità di pensiero e immaginazione che permette sempre a Hawks e ai suoi film di farsi esperienze cinematografiche pienamente tali, e che qui si manifesta nella solidità del racconto, nell’autoironia sferzante di Wayne, nel ruolo attivo e determinante affidato a una vasta compagine di personaggi femminili che sempre più trovano spazio e permettono, con la loro presenza e la specificità del loro ruolo, di riscrivere, sottotraccia e un passo alla volta, le coordinate del genere.

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Howard Hakws John Wayne Jorge Rivero Jennifer O'Neill Jack Elam 109 minuti
USA 1970
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Luca

di Domenico Saracino
 luca - recensione film Pixar

Ne La Luna, cortometraggio animato candidato agli Oscar con cui Enrico Casarosa ha esordito alla regia nel 2011 – dopo decenni di storyboarding, prima per Blue Sky Studios (Cars Motori ruggenti, L’era glaciale, Robots) e poi per Pixar (Ratatouille, Up) –, un bambino viene portato al largo, in mare, per vivere il suo primo giorno di lavoro con papà e nonno, due figure da cui imparerà immediatamente ad affrancarsi per trovare la sua personalissima strada. Dieci anni dopo, Luca, primo lungometraggio d’animazione diretto da questo poetico storyboard artist ligure trasferitosi negli USA all’inizio degli anni Novanta e prima opera targata Pixar con ambientazione in Italia, racconta di un’altra prima volta; quella di Luca, appunto, e della sua prima esperienza fuori dalle profondità marine in cui, data la sua natura di mostro subacqueo, è nato e cresciuto.

Quella dei “pesci fuor d’acqua” (e quindi delle prime volte) è una situazione narrativa, un tropo, tanto ricorrente (soprattutto in ambito comico) da aver determinato, nel corso del tempo, la formazione di un vero e proprio sottogenere cinetelevisivo. Come molti personaggi passati su piccoli e grandi schermi, sia in carne ed ossa (nelle produzioni live action) che in mesh poligonali e skin (in quelle d’animazione), anche Luca si ritrova infatti fuori dal proprio elemento naturale, fuori posto, e pur se spaesato e inesperto è portato dalla curiosità, dal caso o dalla necessità ad adeguarsi ad un nuovo ambiente, a una nuova vita, in maniera non dissimile da quanto avviene ad esempio a Marty McFly in Ritorno al futuro o ai due musicisti interpretati da Tony Curtis e Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo.

L’unica differenza è che qui il modo di dire è preso alla lettera e inscritto nello story concept: Luca è effettivamente un pesce fuor d’acqua, come già Ariel prima di lui o Ponyo. E come loro anche lui è una creatura a metà tra mare e terra, un po’ come in La forma dell’acqua e, quindi, in Il mostro della laguna nera (che è sicuramente uno dei tanti riferimenti, assieme ai capolavori di Miyazaki, ai classici disneyani e al cinema italiano del secondo dopoguerra, da cui si è lasciato ispirare quest’ultimo film della Pixar).

Allo stesso tempo, come molti protagonisti di film Disney (e non), dalla sirenetta a Nemo, da Pocahontas alla Vaiana di Oceania, e come il bambino de La luna citato in apertura, Luca sfida l’autorità parentale, per vivere l’avventura d’una vita o, magari – invertendo i termini ed estendendo il senso –, una vita d’avventure. Ad un primo, superficiale sguardo, personaggi e azioni potrebbero dunque essere visti come derivativi, poco originali, se non fosse che, a ben vedere, questo meccanismo è in realtà una pietra angolare del metodo di costruzione narrativa di Disney, dei Pixar Animation Studios e, in realtà, di moltissima produzione cinematografica, televisiva e letteraria, sin dall’alba dei tempi di ciascuna di queste forme d’espressione e con radici che affondano in ere ben più remote della storia umana (basti pensare a quanto teorizzato e dimostrato dai lavori dai linguisti e semiologi russi e poi da Campbell e Vogler).

È insomma la narrazione, il modo stesso in cui siamo abituati a favoleggiare e tessere trame, a lavorare da sempre su pochi, condivisi blocchi archetipici, che vengono poi di volta in volta modificati e aggiornati in base alle coordinate spazio-temporali del contesto di creazione e fruizione del racconto, delle culture produttrici e consumatrici. E questa naturalissima operazione, se ben congegnata, non comporta ovviamente alcun tipo di scadimento del prodotto, ma anzi lo rende idealmente più godibile su scala globale e, soprattutto, idoneo a tutto un universo di aspettative e interpretazioni che finiscono per renderlo più ricco e complesso di quanto realmente, costitutivamente, sia.

Eppure questo modo di utilizzare i tropi che potremmo definire semplice o semplificato, privo di significative trasformazioni, è uno dei motivi per cui Luca è considerato da una parte del pubblico e della critica come “già visto”, scontato; banale persino. Del resto il suo lavorare di archetipo in archetipo (il pesce fuor d’acqua che deve adattarsi ad un altro mondo, il diverso trattato con ostilità, l’amicizia che diventa avventura, il genitore castrante, ecc. ecc.) senza le sofisticazioni e stratificazioni ravvisabili in altre produzioni Pixar – soprattutto quelle basate su soggetti e sceneggiature di Pete Docter (Toy Story, Up, Inside Out, Soul) – e il suo essere rivolto ad un pubblico forse meno adulto rispetto a quello chiamato in causa dal film che lo precede nella lista delle produzioni Pixar (Soul), lo mette certamente a rischio di essere percepito come un’opera meno ambiziosa sul piano artistico-intellettuale, meno originale, complessa, articolata o innovativa.

Eppure è proprio questa sua presunta semplicità – che rimane comunque soggettiva e tutta da verificare – a risultare affascinante ed efficace, stabilendo un legame tra Luca e altre produzioni pixariane-disneyane caratterizzata da una certa irresistibile immediatezza. Semplicità che è più che altro una scelta di non cavillare, di non eccedere nel processo di sviluppo, elaborazione e costruzione del racconto, e che nulla toglie alla sua capacità di prestarsi a diversi livelli di lettura, alcuni dei quali fecondamente incastonati nel dibattito contemporaneo (su tutti, la dialettica inclusione/esclusione) e alla forza della riflessione che il film è in grado di innescare su temi fondamentali come la libertà, il coraggio, il valore dell’amicizia o la difficile ricerca della propria identità.

Per non dire di quanto questa elementarità sia chiaramente del tutto esclusa dall’impianto tecnico-visivo (anche se si può notare una certa volontà di stilizzazione), sempre al massimo della forma (come del resto è consuetudine quando si parla di Pixar), in particolare per quanto concerne il sistema di lighting, che in Luca diviene un vero e proprio strumento di meraviglia, in grado di sbalordire lo sguardo per resa cromatica, gamma dinamica e realismo. Il modo in cui la luce, maneggiata con grande espressività sotto la direzione fotografica della veterana Kim White, si riflette sull’acqua della riviera ligure, il tramonto illumina le rocce o fa risaltare i colori delle case e dei vicoli di Portorosso è già, di per sé, mezzo potente di godimento estetico e di immersività. Un motivo in più per rimpiangere il fatto di non poterlo guardare sul grande schermo.

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Enrico Casarosa Jacob Tremblay Jack Dylan Grazer Emma Berman 95 minuti
USA 2021
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Shiva Baby

di Arianna Pagliara
Shiva Baby di Emma Seligman recensione Point Blank

Originale esordio nel lungometraggio della canadese Emma Seligman, Shiva Baby è una commedia graffiante e grottesca che attraverso lo sguardo smarrito dell’adolescente Danielle descrive un microcosmo saturo di ipocrisie e tensioni. Tutto si svolge nell’arco di una giornata durante un funerale ebraico, lo shiva del titolo, al quale la ragazza viene trascinata suo malgrado dalla madre apprensiva e ossessiva che non riesce a smettere per un istante di battibeccare col padre, bonario ma sbadato in modo quasi esasperante.
Al funerale Danielle incontra Maya, l’amica/nemica con cui in passato ha avuto una relazione (“ha sperimentato”, dirà sua madre quasi a ostentare una disinvoltura e un’apertura che forse non le appartengono fino in fondo) e, inaspettatamente, anche Max, l’uomo con cui segretamente va a letto in cambio di denaro e regali costosi. A far precipitare vertiginosamente le cose, in un crescendo ironico quanto ansiogeno, farà la sua comparsa la giovane e bellissima moglie di Max con bambina al seguito (moglie di cui Danielle ignorava l’esistenza), mentre Maya, gelosa e piccata, deciderà di giocare un brutto tiro alla sua ex amante.

La regista mette a nudo impietosamente, con acume e sagace ironia, le storture e gli eccessi di un contesto circoscritto che conosce bene per esperienza personale; la cifra espressiva che predilige, quella del grottesco, tira fuori l’assurdo e il paradossale dal quotidiano rovesciandolo davanti agli occhi dello spettatore, a cui non resta che lasciarsi ipnotizzare dalla spassosa sfilata di personaggi sopra le righe che, con le bocche sempre troppo piene di cibo e parole insincere, si protendono sulla povera, attonita Danielle, interrogandola, opprimendola e soffocandola. Perché lei, a differenza, della “rivale” Maya, non studia legge, anzi è molto indecisa sul proprio futuro, perché non ha un fidanzato, perché è troppo magra…. o più probabilmente perché gli adulti che la circondano – genitori compresi - non resistono alla tentazione di metterla, indifesa, sotto la lente di ingrandimento, ora per esibirla e lodarla, ora per sminuirla e ridicolizzarla. Danielle, dal canto suo, scalpita e si divincola, sempre sul punto di esplodere: i genitori ne temono le battute sarcastiche e la sincerità rabbiosa e dirompente, e Max - prevedibilmente - è semplicemente terrorizzato all’idea di essere scoperto e perdere così non tanto l’amore della moglie, quanto il denaro di lei (lo stesso con cui ha acquistato il costosissimo bracciale che Danielle sfoggia al polso).

Con pochi tratti essenziali Seligman riesce a mettere in piedi un costrutto complesso in cui oltre a una riflessione non banale sull’adolescenza, il bisogno di emanciparsi e l’ambivalenza delle relazioni sentimentali e familiari si intravede la trama più ampia di un discorso sulle contraddizioni del femminismo e sulla sessualità come momento esperienziale di formazione e come possibilità di autoaffermazione.
Sostenuto da un ottimo cast, nel quale brilla l’attrice protagonista Rachel Sennott - già interprete di una serie TV comica – Shiva Baby colpisce per la sua freschezza e per la sua incisiva espressività.

 

 

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Emma Seligman Rachel Sennott, Molly Gordon, Polly Draper, Danny Deferrari, Fred Melamed 71 minuti
USA, 2020
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Musikanten

di Riccardo Bellini
musikanten - recensione film battiato

Uh! Com'è difficile restare calmi e indifferenti
mentre tutti intorno fanno rumore
Bandiera bianca

E scendo dentro un oceano di silenzio sempre in calma
L’oceano di silenzio

Correndo il rischio di risultare profani e profanatori, Musikanten di Franco Battiato potrebbe suggerire a tratti dei punti in comune con il cinema di Marco Bellocchio. Questo per il suo intrecciarsi di piani temporali lontani, scovandone le sottili convergenze sotterranee e le affinità elettive; per la sua coriacea tensione intellettuale e, non ultima, politica; per l’antirealismo e l’onirismo di fondo come propulsore di un percorso interiore che procede tra le pieghe e le piaghe del tempo e dello spazio, nutrito da una schiera di personaggi e situazioni ostentatamente sopra le righe; ma anche, infine, per la capacità di coniugare dramma e grottesco. E dunque per il rifiuto dei codici classici del biopic, respinti, più che elusi, in un’ottica che trascende il singolo e abbraccia invece la singolarità. Un Bellocchio, bene inteso, molto più interessato allo spirito che alla Storia, e fuori dai tortuosi gineprai della psicanalisi. Non è forse un caso che Musikanten venne presentato, nel 2006, proprio all’interno del Bobbio Film Festival. Ma Musikanten è tutt’altro rispetto al lavoro di un maestro consolidato del cinema, bensì un oggetto indefinibile e orgogliosamente refrattario persino alla grammatica cinematografica di base, “divertimento” artistico approcciato dal cantautore con la stessa indole dichiaratamente sperimentale dei dischi degli anni Settanta, l’epoca di Fetus e Pollution.

Dopo l’esordio di Perdutoamor, Battiato, di nuovo con l’inossidabile collaborazione di Manlio Sgalambro alla sceneggiatura, torna alla macchina da presa per raccontare dolori e glorie di Ludwig van Beethoven (Alejandro Jodorowsky). Ma prima di entrare nella Vienna di inizi ‘800, Musikanten sceglie come ponte al mondo del compositore la vita di Marta (Sonia Bergamasco), giovane conduttrice insieme a Nicola (Fabrizio Gifuni) di un programma televisivo dedicato alle tradizioni musicali di diversi paesi e ora alle prese con un nuovo progetto. Quando Marta accetta di sottoporsi a una seduta di regressione ipnotica proposta da uno sciamano, entra nei panni di un principe al seguito del compositore tedesco. Di quest’ultimo viviamo alcuni frammenti degli ultimi anni di vita, segnati dalle frizioni con i critici musicali, dal demonio della sordità e dal rapporto problematico con il nipote Karl. Ma soprattutto dall’ininterrotta ricerca musicale, perseguita con rabbiosa ostinazione e culminata nella composizione della Nona sinfonia. Dopo la processione ai funerali di Beethoven, torniamo al presente di Marta per assistere al surreale e inquietante comunicato televisivo che annuncia il colpo di stato del cosiddetto Partito Democratico Mondiale.

Se in Perdutoamor, tramite l’alterego di Ettore, veniva trasfigurata l’infanzia e la giovinezza di Battiato, in Musikanten non è difficile immaginare una sovrapposizione tra il Battiato della piena maturità, cantore indignato dalla dilagante decadenza umana e artistica, e il musicista tedesco, fiaccato dagli anni ma indomito nelle sue fatiche musicali, contro mode e compromessi. «Quanto al Don Giovanni, l’arte è santa non dovrebbe prostituirsi» afferma il compositore, in polemica con l’asservimento dello stesso Mozart a certe logiche di consumo, quasi riecheggiando al di là dei secoli alcune invettive di Bandiera bianca. Musikanten è così un libero, liberissimo omaggio all’eccezionalità del genio e dell’eccellenza musicale come antidoto alla mediocrità e al cicaleccio mondano (la sordità come dono anziché come condanna), un inno alla ricerca e al potere liberante della musica che trascende le epoche e sopravvive alle brutture umane e politiche di ieri e di oggi. Esperimento libero a partire proprio dalla rinuncia a forme e formule, fuori da qualsiasi canone cinematografico, in un'eversione tanto dei tempi, con un montaggio dissonante che segue regole proprie e una fotografia dagli esiti incostanti, grezza e destabilizzante, quanto della recitazione, svincolata da una concreta regia.

Battiato afferma dunque con decisione la sua poetica, con un gesto tanto più radicale quanto azzardato rispetto all’esordio di Perdutoamor. Una scommessa che il cantautore ha lanciato unicamente a se stesso, evidentemente convinto del valore eversivo di un’opera che è prima di tutto un’incognita per lo stesso autore, un esperimento certamente autentico ma a cui manca la misura. A fronte di un’opera riuscita come Perdutoamor, in cui Battiato dimostra di saper gestire la materia cinematografica al servizio di uno sguardo molto personale, è chiaro come i problemi di Musikanten non siano da imputare tanto alla mancanza di dimestichezza con le regole del cinema, quanto a un convinto ma maldestro tentativo di scardinare queste ultime. Ricco di suggestioni misticheggianti, commistioni tra alto e basso, incursioni nonsense, invettive politiche, momenti di gustosa ironia (quasi una enciclopedia del repertorio dell’autore), Musikanten risulta un oggetto sincero e in buona parte coerente, ma troppo avvoltolato in sé stesso per quanto paradossalmente intriso di un’anima universalistica, la cui vera pecca non è tanto l’estetica talvolta respingente, quanto il rischio, - questo sì difficilmente perdonabile -, di appiattire involontariamente l’immagine del musikanten Beethoven in una cartolina sbiadita e ricamata di cliché, a cui inoltre la recitazione in overacting del regista Jodorowsky non riesce a dare spessore, compromettendo ulteriormente il risultato finale. Resta comunque un’opera onesta, un divertimento, dicevamo, proprio perché concepita come avventura emancipata della macchina da presa vissuta da uno dei più importanti musikanten del ‘900, ostinatamente refrattario, nel bene e nel male, al compromesso.

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Franco Battiato Alejandro Jodorowsky Sonia Bergamasco Fabrizio Gifuni 92 minuti
Italia, 2006
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Army of the Dead

di Alessio Baronci
army-of-the-dead-recensione film

Come in un inesorabile effetto domino, senza il cut integrale della Justice League e senza la tragedia legata alla morte di sua figlia Autumn, Zack Snyder probabilmente avrebbe girato un Army Of The Dead molto diverso da quello giunto poche settimane fa su Netflix.
Tutto nel film potrebbe in fondo partire dal linguaggio e dall’immaginario filmico del regista, esaurito, saturato dopo l’esperienza Justice League, ma, non sarebbe troppo assurdo pensarlo, anche a seguito della perdita della figlia. E allora, forse, a Snyder in questo momento serve soprattutto un appiglio che gli permetta di rimettere insieme i pezzi di un universo di segni mandato in crisi, ingolfato dal suo kolossal. Per farlo si fa aiutare da Netflix, partner produttiva del nuovo lungometraggio e unica realtà che, in questo momento, dà al regista ciò di cui ha bisogno: carta bianca. Non dovrebbe dunque stupire che, una volta stabilite le regole del proprio gioco, Snyder scelga di ripartire dalle origini del suo cinema, con un film che, nel raccontare l’impresa di un commando di rapinatori impegnato a fare irruzione nel caveau di una Las Vegas ormai conquistata dai non-morti, si inserisce nel solco del remake romeriano di Dawn Of The Dead con cui ha esordito. Perché in fondo non c’è luogo più sicuro a cui tornare di casa propria. Army Of The Dead è dunque soprattutto un film che, attraverso il genere, porta efficacemente alla luce la crisi del cinema del suo regista.

Non è probabilmente un caso che il film sia ambientato a Las Vegas, sorta di non luogo cimiteriale in cui intere schegge di immaginario sono riprodotte e riposizionate in forma disordinata e artefatta, né è casuale che una delle prime creature zombificate incontrate dai protagonisti sia una delle tigri bianche dei domatori star Siegfried e Roy, niente più che un altro relitto della cultura di massa, dunque. E da un certo punto di vista Army Of The Dead è in effetti un lucido film di detriti, in cui il solitamente vivace dialogo di Snyder con i segni che danno sostanza al suo cinema pare chiaramente indebolito. Per la prima volta, l’immagine pare effettivamente mancare e il regista non nasconde il suo fallimento nel declinare i tratti di un intero genere attraverso il proprio linguaggio. Tutto si costruisce piuttosto a partire dal recupero di materiali di risulta, anche minimi, che mostrano con evidenza il loro rapporto di filiazione, dal muro della Fuga da New York di Carpenter alla bandana indossata da Vasquez in Aliens, passando per le immancabili doppie pistole di John Woo e i modelli narrativi dell’action muscolare anni ’80. Più curioso, forse, notare come l’unico immaginario stabile a cui attinge il film sia quello di videogame come Days Gone e, soprattutto, Dead Rising, action postapocalittico massivo che è anche rilettura grottesca del genere.

army dead recensione snyder

Facendo riferimento a uno spazio digitale, da un lato Snyder dimostra quanto l’unico immaginario in grado di sostenere il suo film si posizioni lontano dal cinema, dall’altro evidenzia come quello del videogame sia l’insieme di segni ideale per costruire un film a suo modo sovversivo rispetto alla dimensione mediale in cui si inserisce. Army Of The Dead è in effetti un film post-apocalittico in cui la fine della civiltà è rinchiusa nello spazio recintato di un muro, quasi volesse offrire allo spettatore una versione in scala, laboratoriale, di un intero genere, ma è anche uno zombie movie che sfugge con risolutezza a ogni classificazione e che si ibrida con l’heist movie e il western e in cui persino lo sguardo politico di Romero finisce depotenziato da una deriva verso l’assurdo, che riempie la bocca dei personaggi di exploit parossistici, tra teorie del complotto, razzismo endemico e psicosi. Ne viene fuori un film a tratti paradossale, un blockbuster che è parodia di sé stesso e delle sue pratiche. L’ariosità delle riprese panoramiche si scontra con i claustrofobici primissimi piani, il ritmo è rallentato dalla tipica dilatazione Snyderiana, ma soprattutto l’azione del prelievo raggiunge un eccesso tale che anche gli elementi più interessanti del film, dall’ottima gestione dell’ultimo atto al coraggioso world building che vorrebbe riformare la mitologia dello zombie al cinema, sembrano la copia della copia di qualcosa di già visto o sentito (che sia la dinamica regia di George Miller in Fury Road o i Fantasmi da Marte di Carpenter poco importa in realtà).

Alla fine, Army Of The Dead non perimetra altro che un panorama di rovine, in cui anche i minimi dettagli utili a costruire la struttura di quello che chiaramente sarà un franchise a lungo termine sono volutamente lasciati alla rinfusa nello spazio della narrazione, demandando al pubblico il compito di sbrogliare la matassa. L’unico elemento che pare sopravvivere è, non a caso, l’umanissima, complessa, sfaccettata storyline con al centro il personaggio di Bautista e sua figlia, che prende sempre più spazio nel racconto, evidente simulacro traumatico della perdita di Snyder, che il regista affronta con coraggio e lucidità, confezionando forse il suo film più oscuro e pessimista e spingendosi a utilizzare la macchina del cinema per cambiare il suo stesso passato, per conservare, almeno nella finzione del racconto, ciò che non può più avere nella realtà. È forse questo il dettaglio che rappresenta la sovversione completa di un film che è al contempo blockbuster pop e prodotto forse davvero necessario solo a processare il lutto del regista.

Vero e proprio progetto complementare e al contempo contrario rispetto a Justice League, Army Of The Dead è un film dal fortissimo passo concettuale oltreché uno straordinario atto di coraggio di Snyder, che si spoglia forse per la prima volta di tutti i suoi scudi immaginifici per mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità. Al contempo, tuttavia, viene da chiedersi se l’obiettivo del regista non gli si sia rivolto contro, almeno da un certo punto di vista. Il rischio è che l’urgenza con cui Snyder si è avvicinato al progetto ha privato il film della possibilità di parlare davvero a tutti, finendo per piegarsi su sé stesso, come si accennava, mangiato dal suo stesso concept e forse inavvicinabile senza una chiave di lettura adatta, che permetta di schiudere il potenziale di un film altrimenti facilmente considerabile un B Movie fuori tempo massimo.

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Zack Snyder Dave Bautista Ella Purnell Omari Hardwick Ana de la Reguera Theo Rossi 148 minuti
USA 2021
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In the Earth

di Mattia Caruso
In the earth - recensione film Wheatley

C'è qualcosa di profondamente magnetico nel cinema di Ben Wheatley. Qualcosa che acquista maggiore intensità proprio quando viene lasciato a briglia sciolta, meglio ancora se libero di esprimersi in situazioni proibitive (vedi la pandemia da COVID-19) e con un budget irrisorio. È impossibile, del resto, non pensare a un ritorno alle origini guardando In the Earth, l'ultima fatica scritta e diretta dall'autore inglese proprio durante il lockdown e presentata al Sundance Film Festival. Questo non solo per il gradito ritorno al folk horror del regista di Kill List, ma per una ripresa genuina dei temi e delle ossessioni a lui più cari.
Dopo anni passati tra cinema distopico, action puro e commedie amare, Wheatley torna infatti letteralmente alla terra, a quella Natura misteriosa e primordiale che ha da sempre reso perturbante e fuori scala il suo cinema. È da qui, da una terra misteriosa e da ciò che forse custodisce, che parte anche la vicenda di Martin (Joel Fry), scienziato in cerca della collega ed ex fidanzata Olivia (Hayley Squires), sparita nei boschi inglesi mentre lavorava a una ricerca volta a dimostrare l'esistenza di una rete neurale tra le piante.

Sfruttando le ristrettezze del lockdown come pretesto narrativo per delineare un mondo diffidente e distanziato, il cineasta parte così da una sorta di ultimo avamposto dell'umanità per inoltrarsi in un mondo oscuro e terribile, dove l'uomo è al massimo pedina di un gioco incomprensibile e ben più grande di lui. Un gioco che mischia le sue carte, quello in cui finisce Martin, che pare trovare le sue radici in un folklore precristiano fatto di rituali, sacrifici e possessioni. Soluzioni solo apparenti, però, perché forse, questa volta, il mistero va ben più in profondità dell'ennesimo incubo alla The Wicker Man, giù fino alle origini di una realtà intrisa di un orrore panteistico e quasi cosmico.


Tra suggestioni eterogenee, capaci di toccare, ancora una volta, generi differenti (dallo slasher all'horror soprannaturale, passando per la sci-fi) e riferimenti che più alti non si può (la pietra runica come il monolite di 2001: Odissea nello spazio), Wheatley costruisce un film dove scienza e soprannaturale si incontrano e si mescolano tra loro, con risvolti imprevedibili. Citando esplicitamente Arthur C. Clarke e l'adagio secondo cui la tecnologia più avanzata è indistinguibile dalla magia, In the Earth fonde così questi due aspetti, rendendo impossibile capire dove cominci l'uno e finisca l'altro. Una sorta di Il signore del male bucolico e psichedelico (con tanto di sintetizzatore diegetico smaccatamente carpenteriano, qui usato come mezzo per comunicare con l'ignoto), insomma, dove il regista di A Field in England mette in campo tutto il proprio armamentario allucinato, fatto di effetti caleidoscopici, sovrimpressioni, flickering e montaggio sincopato.

A uscirne fuori è un film ipnotico che nella sua unicità sa tenere assieme tecnologia e libri occulti, estetica gore e sequenze sperimentali. Niente di nuovo (soprattutto per Wheatley), certo. Eppure in questa fiaba allucinata nella terra di nessuno, dove la Natura fa prigionieri, li attira per non lasciarli più andare via, c'è l'essenza del cinema del regista inglese. Un cinema grottesco e crudele, che frustra le attese, accumula suggestioni ed esaspera i toni fino alla consueta esplosione finale.
Pura fantascienza, in fin dei conti, dove ci si chiede quale mondo resterà dopo (“La gente si ricorderà di tutto questo?”, si domanda un personaggio riferendosi alla pandemia in corso). E se la prospettiva di una Natura decisa ad assoggettare il genere umano sia, tra le ipotesi in campo, davvero la più terribile.

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Ben Wheatley Joel Fry Reece Shearsmith Hayley Squires Ellora Torchia 107 minuti
Regno Unito, USA, 2021
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Perdutoamor

di Emanuele Di Nicola
Perdutoamor di Franco Battiato

«Il nascere e morire sono i due momenti unicamente reali: il resto è sogno, intervallato da qualche insignificante sprazzo di veglia». La frase di Manlio Sgalambro apre il primo film di Franco Battiato, Perdutoamor del 2003: «un film balletto», lo definiva lo stesso cantautore, e la danza è quella di Ettore, alter ego trasfigurato del regista, che comincia nella Sicilia degli anni Cinquanta. Nella sequenza iniziale le donne stanno imparando a filare, solo dopo la cinepresa arriva al bambino protagonista: sono le donne di Battiato, quelle che si aspettavano alla fine della messa nella Prospettiva Nevski. Sì, perché questo piccolo film di 87 minuti si comporta proprio come una canzone del maestro: coniuga alto e basso, seriosità e ironia, Pascal a Dalida, Bach alla vagina. Ma qui il medium è un altro, non è più (solo) la musica, e la coppia Battiato-Sgalambro generò un oggetto strano, senza etichetta, fuori da tutto il cinema italiano contemporaneo, ancora più dissonante perché ne ripropone alcuni volti (Donatella Finocchiaro, Ninni Bruschetta, Gabriele Ferzetti).

Perdutoamor è un ritratto di artista di giovane, un’autobiografia immaginaria di Franco/Ettore interpretato da Corrado Fortuna che, più che muoversi in Sicilia, la evoca: il racconto non è una descrizione ma una sensazione, un percorso sfrangiato che salta da una parte all’altra, avanza per stralci, si lancia da un punto al successivo. Battiato trattiene nell’occhio le immagini della sua infanzia e le rimette in scena: l’incontro da bambino con l’amato Bach, grazie a un prete, il trasferimento a Milano, la conoscenza di un nobile dotto che gli insegna a leggere il reale (e l’irreale) con occhi “giusti”.

Perdutoamor di Franco Battiato

Nel frattempo le figure si rivolgono in camera in modo mascherato, come fa lo stesso Sgalambro nel finale, mentre Ettore sostiene perfino una video-istruzione di sesso tantrico, anticipando quel sincretismo culturale, religioso ed etnologico che sarà una base dell’artista. Il ballo si sviluppa nella balera fisica e mentale, grazie ai movimenti di macchina di Marco Pontecorvo, scandito dalla colonna sonora curata dallo stesso Battiato, che spazia con blasfemia da Mozart a Malafemmena. Il coming of age del musicante lo porterà a diventare uno scrittore, a dirazzare e insieme iniziare a trovare se stesso. Ettore vivrà lontano dai suoi natali consapevole che si tratta di una fuga a elastico: il monologo finale canta il senso di appartenenza a una terra, stringe il cordone ombelicale, perché alla Sicilia si dovrà sempre tornare.

Racconto intimo scritto per frammenti, che non è uguale a nessun altro, Perdutoamor non va però interpretato come la storia esatta di Battiato, come un'autobiografia letterale. Tutt’altro: “il resto è sogno”, d’altronde, e allora il film è un breve caleidoscopio ruiziano tra ricordo, fantasia e desiderio. Un gesto che forse non appartiene neanche al cinema ma a un’altra dimensione, per questo resta impalpabile, etereo come si addice all’invasione di campo di un gigante. “Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali”: ora che per Battiato è intervenuto il secondo rivediamo i suoi sprazzi di veglia sotto forma di film, che non sono grande cinema, ma la conferma di un artista totale che si muoveva fluidamente tra tutte le arti. Un film ballo, appunto: il ballo del potere dell’immagine.

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Franco Battiato Donatella Finocchiaro Ninni Bruschetta Corrado Fortuna Gabriele Ferzetti 87 minuti
Italia
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