Minari

di Veronica Vituzzi
Minari - recensione film

All’inizio di Minari Jacob Yi spiega al figlio il senso del proprio lavoro: si occupa del riconoscimento rapido del sesso dei pulcini allo scopo di dividere le femmine dai maschi in quanto questi ultimi, non producendo uova, sono considerati “inutili”. In virtù di questo ovvio dato di fatto sono pertanto destinati ad una morte rapida e impietosa, con tanto di ciminiera eruttante il fumo dei loro corpi carbonizzati. Dobbiamo cercare di essere utili conclude il padre, ignaro di aver appena elaborato una metafora molto efficace della politica economica neoliberista adottata dal presidente USA Reagan negli anni Ottanta. Il sogno americano, che prometteva la realizzazione dell’individuo tramite l’impegno profuso dallo stesso singolo cittadino, veniva calato entro un contesto sociale contradditorio: pur centrato sul diritto umano alla felicità era permeato da una sotterranea devozione al profitto senza scrupoli a discapito dei membri della società meno produttivi ed efficienti, benché aventi egualmente diritto sulla carta a un’esistenza dignitosa.

Su questa rete di contraddizioni in dialogo fra loro si fonda il film di Lee Isaac Chung, sviluppando l’idea di patria in una serie di immagini e similitudini che si respingono e si attraggono. Una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti si trasferisce dalla California all’Arkansas nel tentativo di inseguire un miraggio di indipendenza economica. Jacob vuole mettersi in proprio piantando e vendendo ai suoi conterranei esuli i prodotti tipici del loro paese d’origine. La moglie Monica si oppone, rimpiange la città e teme per la salute del suo figlio minore affetto da problemi cardiaci e trapiantato in un paese molto distante dalle strutture ospedaliere necessarie in caso di emergenza. Dopo l’ennesimo litigio si decide di ricorrere alla madre di Monica per avere un aiuto in più in casa, malgrado questa sia inizialmente rifiutata dai nipoti in quanto, come afferma il piccolo David, “puzza di Corea”. La patria originaria negata in favore del paese d’adozione dove si mangiano cereali e pasta, e le nonne fanno i biscotti; non come Soonja che fuma, guarda i combattimenti in tv e gioca a carte.
Questa nozione di patria è traducibile in un senso d’appartenenza e di familiarità che può emergere e attecchire anche in un terreno straniero e si materializza nell’immagine dei campi di ortaggi coreani coltivati da Jacob sul suolo americano, nonché dalla pianta del minari curata dalla nonna. La terra come una madre nutre e rafforza attraverso il cibo che produce, e da questo l’uomo trae anche la propria identità. In presenza di una situazione di duplice appartenenza a due paesi diversi avviene una sorta di contrattazione interiore che prevede l’accettazione o il rifiuto di determinate qualità di una cultura rispetto all’altra. Inizialmente David respinge Soonja e il cibo che ha portato in casa, per dispetto le fa anzi bere la propria urina, negandole ogni possibilità di relazione. A partire da questa prima fase l’evoluzione del rapporto fra nonna e nipote si articola come uno scambio di energie ove la vecchia in seguito ad un infarto vede il proprio cuore indebolirsi rendendole arduo ogni movimento mentre quello del bambino migliora concedendogli finalmente la facoltà di correre. 

Un corpo che trasferisce la propria forza a un altro corpo, la terra straniera che offre quel cibo familiare che è anche una chance per il successo personale: è un movimento narrativo che per tutto il film avvicina e allontana le due coppie protagoniste (Monica & Jacob, David & Soonja) nell’equilibrio precario di un legame perennemente ridiscusso. Come le piante coltivate da David, cresciute fra mille ostacoli, così l’identità della famiglia Yi si forma a tentoni, assorbendo suggestioni mischiate di sapori e linguaggi differenti.

Opera talmente gentile da non poter non risultare apprezzabile, Minari pone troppa fiducia nella propria poeticità fatta di piccoli eventi garbati rimanendo intrappolato in una visione che commuove senza rischiare. Non sono in discussione le qualità peculiari del film di Lee Isaac Chung, dalla recitazione (Yoon Yeo-jeong ha vinto un Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Soonja) allo sviluppo della storia, ma la sensazione di trovarsi di fronte a un racconto cesellato secondo un consapevole modello delle figure narrative di successo (la nonna eccentrica, il nipote malato di cuore) impedisce un totale abbandono alle emozioni che suggerisce. Ciò nonostante Minari non manca il colpo e si afferma come film che attrae nel suo svolgersi, anche se al termine le immagini che lascia nel ricordo rivelano radici meno potenti di ciò che facevano presumere.

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Lee Isaac Chung Steven Yeun Ye-ri Han Yuh Jung Youn Alan S. Kim Noel Cho 115 minuti
USA 2020
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Il favoloso mondo di Amèlie Poulain

di Carmen Albergo
Il favoloso mondo di Amelie Poulain - recensione film Jeunet

 “...Favola moderna, costruito su elementi non certo nuovi ... ma raccontato con una leggerezza e una grazia contagiose, un film che ha saputo intercettare i bisogni (più che le aspettative) del pubblico...”, così chiosato dal Dizionario Mereghetti,  Il favoloso mondo di Amèlie Poulain  di J.P. Jeunet,  torna sul grande schermo vent'anni dopo la prima francese, il 25 Aprile 2001 (in Italia, Gennaio 2002) subito consacrato cult per l’enorme successo di pubblico e botteghino. E se i bisogni dello spettatore cinematografico erano plausibilmente quelli che ancora oggi sono e saranno, ovvero la catarsi, che nella mitopoiesi si sprigiona dalla parabola archetipica del viaggio interiore dell’eroe/eroina, proprio attraverso la capacità tutta umana di intessere nella realtà la fantasia creatrice, senza dubbio molto più concrete e lungimiranti tornano le parole espresse da Fabio Ferzetti sul Il Messaggero del 25 Gennaio 2002: “..   Jeunet questa Parigi la riprende dal vero, come ai tempi della Nouvelle Vague, ma poi corregge tutto al computer, ripulendo i muri dai graffiti e le strade dalle auto in divieto di sosta. Qualcuno lo troverà sacrilego. Ma è il soggetto stesso di 'Amelie'. L'amore ai tempi del computer. L'amore che non si trova ma si inventa, si assembla, si costruisce. Infondo, basta solo un po' di taglia e incolla".

Parole quanto mai profetiche se pensiamo ad oggi, all’amore ai tempi della compulsività dei social, delle fake e deepfake, del revenge porn. Non si osa immaginare le scorciatoie virtuali, le astrazioni e gli escamotage architettati dalla mente ipertrofica di Amèlie Poulain con uno smartphone alla mano e dietro Facebook, Instagram e Tik Tok.Il passo sarebbe stato davvero breve, considerato che già lo schermo televisivo costituiva per Amèlie lo specchio delle brame e delle rivalse, che costellano la trama (colpevolizzata dal vicino di aver causato un incidente stradale, Amèlie-bambina viene assalita da un senso di colpa cosmico, mentre guarda in TV una serie di catastrofi mondiali, della cui falsità si vendicherà contro il vicino stesso; smascherata dall’anziano Dufayel di aver trascorso l’infanzia in totale solitudine, Amèlie-adulta vaneggia un reportage televisivo sulla sua vita da martire consacrata al prossimo, iniziando dal padre; accusata ancora di essere una codarda, Amèlie riflette sotto forma di cinegiornale sovietico sulla ingerenza intollerabile di questo vecchio-mentore che, non a caso attraverso una videoregistrazione clandestina, la incalzerà a scontrarsi con la vita reale).  

In questo Maggio 2021 di stentate riaperture dei luoghi di spettacolo, ancora sottoposte a ferree misure di prevenzione Covid-19, questo ritorno all’irriducibile magia della sala, pur nella società dei piccoli schermi e streaming per necessità virtù, attraverso una icona della “ favola” sur-reale, per quanto calata in riferimenti geo-temporali precisi, si investe di un immenso valore simbolico, una sorta di  “e quindi uscimmo a riveder le stelle”... a sognare in grande. Per questo non è semplice eludere la tentazione di farne una celebrazione incondizionata, trattandosi di un’opera-personaggia che ha segnato indiscutibilmente l’immaginario collettivo (che la si ami o la si odi, non è possibile liberarsene né ignorarla). Tanto più inutile perché, se su un testo filmico è sempre possibile col senno di poi operare un’analisi lucida o una operazione di riattualizzazione, non è certo possibile spiegare il persistere dell’alchimia tra l‘opera ed ogni suo fruitore-amante nell’estrema soggettività e irrazionalità di un simile meccanismo emozionale e selettivo. L’innamoramento non si spiega.

Ad Amèlie Poulain, nel corso degli anni sono state dedicate tesi di laurea tanto di studi cinematografici, quanto di psicologia. Amèlie Poulain è per stessa ammissione di Jeunet, l’antropomorfizzazione  di tutto il suo immaginario creativo, così come secondo alcune interpretazioni del film, tutti i comprimari di Amèlie non sarebbero altro che le personificazioni delle sue ombre interiori da affrontare e riconciliare (la perdita della madre, l’infantilismo, la presunta a-sessualità ecc...) per potersi finalmente dare Una nel gioco di Alter Ego che è l’amore di coppia. Possiamo dire lo stesso di altre "personagge" cinematografiche, altrettanto epocali per la storia del cinema e icone generazionali contraddittorie, ma intramontabili ( tipo Rossella O’Hara, Holly Golightly) da cui Amèlie senz’altro discende, quanto alla presunzione d’essere demiurga del caso e con cui condivide la montagna di fandonie, sotto cui giace un'apparente incolmabile vuoto relazionale, nonché il conclusivo pianto liberatorio? Ma questi sono altri anniversari.

Lungo preambolo obbligato a parte, dunque, ecco l’occasione di recuperare e puntualizzare alcune delle coordinate fondamentali che dopo vent'anni ancora sorreggono la validità narrativa e linguistica del film più noto di Jean-Pierre Jeunet. Nel Marzo 2002, sul n. 412 della rivista Cineforum, Matteo Bittanti argomentava in modo a dir poco esaustivo come quest'ultimo universo extra-diegetico messo appunto da Jeunet, rappresentasse in modo esemplare lo stato del processo di “rimediazione dei media”, che a quel tempo andava inaugurando il cosidetto “digitale magico”, facendo ponte con un altro kolossal immaginifico, Moulin rouge di Baz Luhrmann dello stesso 2001. Con buona probabilità, proprio esposizioni d’approfondimento di tale portata hanno contribuito a  tracciare anche il solco pedagogico in cui Il favoloso mondo di Amèlie è stato inserito sin dalle scuole superiori di secondo grado. A solo titolo d’esempio e restando in Italia, si pensi al lavoro didattico del Liceo Artistico Toschi di Parma tradotto nel 2012 in un prodotto editoriale (libro + due DVD) Le nuove mappe del cinema. l favoloso mondo di Amélie e i media vecchi e nuovi, dove la scansione episodica della trama accompagna gli studenti nella contaminazione multidisciplinare dei mezzi d’espressione figurativa, audiovisiva e virtuale. Volendo dislocare il discorso e arrivare sino ad oggi, non si può evitare di citare uno dei più noti manuali di studio in uso tra  ristampe e sito web, "Corso di linguaggio  e audiovisivo multimediale” (M. Corsi – Hoepli Editore) che tra gli esercizi di verifica di abilità e competenze del capitolo sul montaggio, propone la seguente traccia: “...descrivi quel che ti piace e quel che non ti piace, con lo stile in cui Il favoloso mondo di Amèlie descrive i genitori. Dunque tono ironico, montaggio vivace. Ad ogni affermazione dovrebbe corrispondere una inquadratura. Registra la voce fuori campo con un testo in terza persona”. Chiusa la digressione pedagogica, ciò che più risalta alla mente è che oggi nel 2021, non occorre affatto essere uno studente di indirizzo cinematografico, per rincrociare, ancora, anche casualmente questo esercizio stilistico coniato da Jeunet, ma basta beccare in TV l’ultima campagna pubblicitaria del Mulino Bianco, firmata da Gabriele Mainetti, che in una sorta di scatola cinese di citazioni cinefile, sulle note della celebre My favourite things,  ricalca la formula della galleria di persone comuni, di cui si elenca in terza persona il "piace/non piace" (annoverando, senza filtro, i piccoli piaceri di dare una forma alle nuvole, di affondare la mano in un sacco di legumi e via dicendo, pescando dal mondo-Poulain...).  

Il favoloso mondo di Amèlie Poulain e le sue celebri note, dunque, il successo planetario di Yann Tiersen.  Anche l’omonima colonna musicale del film (stra-abusata soprattutto come accompagnamento di servizi televisivi dai disparati contenuti di genere info-tainment) è entrata solo di recente nell’icastica rielaborazione degli spot. Lo spot Citroen C3 Aircross, infatti, recupera la composizione Valse d’Amèlie e pur mettendo in scena il contrasto tra la vita quotidiana e la forza dei sogni, ribalta il plot narrativo originale del legame anaffettivo tra padre e figlia, regalando immediatamente allo spettatore il sollievo di quell’abbraccio tanto agognato e temuto dall’ Amèlie-bambina. Va detto dunque, che se l’impatto nell’immaginario collettivo può affievolirsi nel dato generazionale (qualcuno della cosiddetta Generazione Z ha mai fatto l’ispezione delle mattonelle scomposte di una vecchia casa in affitto, nell’ipotesi di rinvenirvi il tesoro nascosto di una infanzia dimenticata?)  si deve ancora dar atto che l’eredità estetica e stilistica del film vada ben oltre l’essere un caposaldo di citazionismo meta-cinematografico e post moderno, e perpetui il merito di aver coniato e trasmesso topoi narrativi ancora tutti da giocare nella produzione audiovisiva contemporanea.

 

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Jean Pierre Junet Audrey Tautou Mathieu Kassovitz Jamel Debbouze Dominique Pinon 122 minuti
Francia, Germania, 2001
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ventesimo secolo

di Alessio Baronci
Ventesimo secolo - recensione film Hakws

Rileggere oggi un film come Ventesimo secolo può essere l’occasione per porre il seminale film del 1934 di Howard Hawks in una prospettiva tale da amplificare la sua portata simbolica, tematica e linguistica. Non ci si può infatti limitare a vedere in esso solo il prototipo di quella che sarà la screwball comedy, né si può considerare il, pur centratissimo, discorso parodico sul teatro popolare che compie la pellicola come il suo unico nucleo tematico. Da un certo punto di vista, Ventesimo secolo, è anche un film dal passo ambiziosamente teorico, che studia il dialogo tra cinema e teatro a partire da un’inconsapevole teoria dei media che interroga i maggiori statuti comunicativi del suo tempo. È evidente quanto il trauma della crisi del 1929 avesse messo in scacco il modo in cui l’arte aveva processato fino a quel momento la realtà circostante. La crescente, drammatica, complessità della società non poteva più essere contenuta sul palco di uno spettacolo di Broadway, e il cinema, medium giovane caratterizzato da straordinarie potenzialità comunicative, sembrava lo strumento più adatto per leggere il reale in tutte le sue sfumature. Ventesimo secolo, in filigrana alla storia dell’impresario Oscar Jaffe e dei suoi tentativi di ingaggiare l’ex moglie, affermata star del cinema, per tornare al successo, sviluppa dunque un lucido confronto di due sistemi spettacolari colti in divenire.

Così le immagini di Hawks catturano le crepe nel disegno generale del teatro di Broadway, prefigurandone la necessità di un restauro semantico, e si confrontano con il cinema negli attimi in cui esso acquisisce una consapevolezza del proprio potenziale; un clash talmente urgente, questo, che finisce per esondare nel piano del profilmico: non è in effetti casuale che il ruolo di Jaffe sia affidato al divo decaduto del teatro John Barrymore e che Lily Garland sia interpretata da Carol Lombard, forse l’attrice del futuro per il modo in cui assocerà il suo nome proprio alle screwball comedy.
Ma la dimensione del confronto è soprattutto linguistica. Da questo punto di vista, non è difficile ritrovare nella velocità, nell’aggressività giocosa della screwball, elementi sintattici vicini alla violenza visiva e al sensazionalismo del cinema delle origini, che la regia ricostruisce e riordina per riflettere sulla stessa sintassi cinematografica. Perché con Ventesimo secolo Hawks porta avanti la sua ricerca sullo specifico cinematografico, un insieme di tratti che decretano l’unicità e la superiorità del cinema rispetto al teatro e che in particolare, per il regista, fanno probabilmente capo al dinamismo che caratterizza i segni su cui si struttura il film e al loro movimento continuo, concreto e simbolico, sulla scena.

Lo scontro tra linguaggi viene posto al centro di una movimentazione già nelle prime sequenze del film. La pellicola inizia infatti in un’atmosfera da melò, confermando la cornice teatrale della rappresentazione ma al contempo minandone le fondamenta attraverso la velocità dei dialoghi, una struttura sovversiva rispetto alla chiarezza di lettura e comprensione del teatro tradizionale. Lentamente, il sistema si apre su sempre più evidenti voragini di non senso, indicazioni evidenti della necessità di un ripensamento delle sue coordinate essenziali; lo stesso personaggio di John Barrymore, se da un lato rafforza la natura istrionica dell’attore, cede più volte alla parodia, e non è casuale che proprio a Oscar Jaffe sia demandata la simbolica distruzione del teatro che chiude il primo atto.

hawks ventesimo secolo rece

In questo senso il treno preso da Jaffe per sfuggire ai suoi creditori (chiamato appunto Ventesimo secolo) è una perfetta eterotopia foucultiana, uno spazio in continuo movimento, attraverso cui Hawks può studiare e spingere all’eccesso il dinamismo dello specifico cinematografico. Il racconto assume dunque un passo carnevalesco, costruendosi attorno a uno stato d’eccezione in cui le convenzioni sceniche si ribaltano, portando tutti gli elementi in gioco a esorbitare dal quadro.
Sul treno il nucleo narrativo si sviluppa fino ad attraversare, come una scheggia impazzita, tutte le sfumature del teatro popolare, dal melò alla farsa, organizzando una narrazione che è al contempo trionfo del travestitismo e occasione perfetta per portare gli attori a esondare dai loro ruoli, a modificare la loro voce, a lanciarsi in coraggiosi scarti tonali in un continuo overacting. Al contempo, l’azione a bordo moltiplica esponenzialmente le quinte teatrali, e il linguaggio filmico opta, tra primissimi piani e scavalcamenti di campo, per soluzioni possibili forse solo grazie agli strumenti legati alla dimensione cinematografica.

Lo stesso “a parte” si frammenta e si trasforma in un continuo gioco di riferimenti con lo spettatore, grazie a personaggi che citano altri film, altre opere, coscienti di trovarsi in un flusso di segni in costante movimento. Del teatro popolare, sul Ventesimo secolo, rimangono solo i detriti, come quel «I’m going into action» pronunciato da Oscar prima di irrompere nello scompartimento della sua ex, o l’iper-tradizionalista Passion Play che il protagonista è convinto possa essere l’opera che lo rilancerà nell’empireo dello show business.

Hawks recensione ventesimo secolo 3

Con il tempo i personaggi si ritrovano in un mondo cambiato, un contesto che li porta ad ammettere a loro stessi che non sono altro che litographs, che il teatro non ha insegnato loro in alcun modo a leggere la realtà. Colpisce, a questo proposito, quanto il film si concluda con la proposta di un progetto teorico, una sorta di teatro cinetico, sintesi perfetta tra due linguaggi agli antipodi che si coagulano nel tentativo di aggiornare un intero sistema di segni. Non a caso, il racconto della Passion Play che Lily fa a Oscar è amplificato dalle immagini mentali create e raccontate dalla donna, in una performance paradossalmente tutta fuori-scena e proprio per questo profondamente antiscenica se letta dal punto di vista teatrale.

Nelle ultime sequenze, come in una Ringkomposition, tutto sembra tornare apparentemente come prima e, nel mondo reale, Hawks migrerà verso altri generi, verso altro cinema, prima di tornare alla screwball, eppure Ventesimo secolo è rimasto come una sorta di pietra miliare non solo di un intero genere ma anche di uno dei primi dialoghi concreti tra autorialità e approccio concettuale al medium, un progetto attraverso cui Hawks ha provato a utilizzare il suo stile per interrogare per la prima volta il cinema su limiti e potenzialità della rappresentazione.

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Howard Hakws John Barrymore Carole Lombard Roscoe Karns Walter Connolly 91 minuti
USA 1934
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EROTIC THRILLS - Sex Crimes, giochi pericolosi

di Matteo Berardini
sex crimes - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Secondo Renato Venturelli il noir è stato «fin dall’inizio un cavallo di Troia del modernismo nel cuore dello spettacolo hollywoodiano»; un genere dalla natura ibrida quindi, dentro e fuori le logiche dello studio system, refrattario a una storicizzazione oggettiva. La natura sfuggente di questo immaginario si riflette in un lungo dibattito critico riguardo i temi, i tempi, le modalità canoniche di stile e narrazione, e tra le tante letture resta celebre quella di Paul Schrader. Nel 1972 infatti il regista e sceneggiatore americano pubblica sul magazine Film Comment le sue Notes on film Noir, uno studio breve, estremamente denso e documentato, in cui si sottolineano i legami psichici e culturali del noir con l’esperienza della seconda guerra mondiale, la rivoluzione freudiana e l’espressionismo tedesco, e si pongono a chiusa del fenomeno due film, Un bacio e una pistola e L’infernale Quinlan, che sul finire degli anni Cinquanta deflagrano il genere e le sue coordinate. Per certi versi lo stesso accade con Sex Crimes – Giochi pericolosi di John McNaughton, che nel 1998 chiude estremizzandolo un certo modo di intendere il neo-noir, quel revival della femme fatale che accompagna dagli inizi di Brivido caldo l’affermazione eighties del genere e che raggiunge il punto di saturazione con questo film, dopo il quale resteranno soltanto schegge di un immaginario politicamente eversivo, sessualmente scomodo, dentro un orizzonte neo-puritano di «immagini prevalentemente de-eroticizzate, in debito d’ossigeno e improntate ormai a un educato perfezionismo tecnologico» (Bocchi 2019, p. 28).

A reggere il gioco c’è McNaughton, che è regista particolare e mezzo sprecato del cinema americano; un dissidente che esplode presto con uno dei film più angoscianti e malsani degli anni Ottanta, Henry pioggia di sangue, e che da lì prosegue tra piccolo e grande schermo, commedia e poliziesco, azzeccando davvero solo Crocevia dell’inferno. Fino a che non gli arriva tra le mani lo script di Stephen Peters, un neo-noir forzatissimo, improbabile e al confine col trash (lo ammette lo stesso Kevin Bacon, protagonista e produttore), che McNaughton abbraccia consapevolmente entrando nel terreno di Verhoeven e De Palma, dove il reale si appiattisce sui riflessi sagomati dell’immagine e dietro ogni inquadratura ce n’è sempre un’altra segreta, nella quale una verità più profonda scompagina gli equilibri di potere e ribalta le aspettative spettatoriali. Basta stare al gioco, catturati nella rete bollente di un erotismo fuori dal comune per il filone mainstream, che inanella sequenze threesome e duetti saffici tra studentesse fatali e professori dal fascino suadente (senza risparmiarsi un nudo ambiguo e full frontal di Bacon stesso). Del resto il cast raccoglie volti e corpi iconici della Hollywood anni Novanta, tra Matt Dillon, Denise Richards e Neve Campbell, la Sidney Prescott di Scream, che pur tutelando la sua immagine con un contratto che esclude ogni nudo incarna l’ultima vera femme fatale del decennio, finta vittima predestinata e invece regista dell’intrigo e carnefice a sua volta, spinta da un desiderio di vendetta personale e rivalsa classista.

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Fedele alla riscrittura neo-noir degli spazi, geografici e ambientali, Sex Crimes è un film che rifugge l’oscurità metropolitana per aprirsi alle paludi en plein air delle Everglades floridiane, dove famiglie white trash attorniate da alligatori orbitano dalla distanza attorno agli yatch e alle magioni sudiste della borghesissima Blue Bay. A completare il quadro troviamo il sax e la voce languida dei Morphine, per un perfetto softcore teen ad ambientazione liceale, ma tutti questi elementi, portati all’eccesso, esibiti e urlati fino al limite della parodia, innescano nello spettatore un meccanismo libidico che il film manipola e rovescia in inganno. Dove lo sguardo maschile, che apparentemente controlla e dirige il gioco, è la vera vittima, e il corpo femminile, che si concede a personaggi e spettatori titillando fantasie assai poco segrete, ribalta gli equilibri di potere per usare quello stesso desiderio contro di noi. Perché per la femme fatale farsi oggetto scopico dello sguardo altrui significa in realtà detenere il controllo segreto della situazione. Il tutto dal dentro di un gioco al rialzo che sfrutta ogni consapevolezza precedente e aspettativa spettatoriale per spingere al massimo quei corpi e quegli schemi narrativi, saturando ogni possibilità ulteriore di proseguire su quella strada che non sia sforare apertamente nell’ironia decostruttiva.

Sex Crimes è il film sul crinale, quello che porta a compimento una stagione erotica di femme fatale e seduzioni pericolose fermandosi un millimetro prima del salto dello squalo, affinché tutto regga, magnificamente, e il film diventi una grande casa degli specchi che gioca con le nostre aspettative impiegando un immaginario rarefatto, puramente virtuale, posticcio, eppur capace ancora di dire qualcosa di vero sul mondo e sul desiderio. Siamo dentro l’ultima vampata dell’incendio prima che termini l’ossigeno e si spengano le fiamme, il film che fa dell’eccesso la sua chiave di volta e del rilancio costante la sua cifra stilistica. Dopo, il deserto. Dei corpi sudati, dei suoni umidi, delle voci ovattate.

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John McNaughton Matt Dillon Neve Campbell Kevin Bacon Denise Richards Bill Murray 108 minuti
USA 1998
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EROTIC THRILLS - Jade

di Giacomo Calzoni
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Già nel suo formidabile 52 gioca o muori (1986) John Frankenheimer indicava una via, una risposta all’inesorabile discesa delle trame neo-noir dentro i territori del torbido: lo faceva dando vita a uno stile mai così elegante e ricercato, fatto di carrellate, dolly e steadycam, per rimarcare l’abisso (visivo, quindi etico) tra le immagini, tra il film e i videotape pornografici (quando non addirittura snuff) che costituivano l’arma del ricatto nei confronti del protagonista Roy Scheider. Neanche dieci anni più tardi Friedkin sembra ripartire proprio da lì sin dalla sequenza dei titoli di testa, con la macchina da presa che indaga sinuosamente le stanze e i corridoi, i feticci e le fotografie, mentre le urla strazianti della vittima ci raccontano un fuori campo di torture sadiche e uccisioni truculente, fino a quando in cima alle scale non compare lei: la maschera (sulle note di The Mystic’s Dream di Loreena McKennitt, dall’album The Mask and Mirror, appunto), vera protagonista del film, più degli sbirri, dell’indagine e della sensuale Linda Fiorentino, quest’ultima già eletta a femme fatale dell’immaginario neo-noir del decennio grazie al precedente L’ultima seduzione. Le apparenze ingannano…

La maschera e il doppio. Tutto Jade è attraversato da una costante tensione nervosa tra la verità e la menzogna, realtà e finzione, il campo e il fuori campo, l’immagine videoregistrata e quella filmata. La violenza raggiunge vette di sadismo ai limiti del sostenibile, ma di essa vediamo soltanto le conseguenze che sfociano nel gore (i resti del cadavere del miliardario ucciso all’inizio, la testa spappolata del testimone oculare), mai il gesto in sé. Così pure del sesso estremo, il vero motore narrativo del plot, rimangono soltanto alcuni frame estrapolati dai filmati delle videocamere nascoste, mentre l’unica sequenza sul punto di sfociare nell’hard finisce di fatto per soffocare qualsiasi facile istinto voyeuristico.

Come per Frankenheimer, anche per Friedkin il cinema è la risposta. Lo strumento privilegiato per scalfire la superficie delle cose, come l'inquadratura a plongée sulla lacrima che riga il viso di Linda Fiorentino durante il triste (e breve) amplesso con il marito Chazz Palmintieri. È la reazione del regista all’anonimato televisivo degli anni Novanta, dal quale non a caso preleva di peso il protagonista David Caruso (fino a quel momento star della serie NYPD – New York Police Department) per rincorrere e aggirare le aspettative dello spettatore, costantemente chiamato a interrogarsi su cosa stia guardando: soltanto l’autore di Vivere e morire a Los Angeles e Il braccio violento della legge può infatti permettersi un cortocircuito visivo finissimo dirigendo l’ennesimo, straordinario car chase all’altezza del suo nome; con la differenza, però, che stavolta l’inseguimento finisce strozzato e depotenziato nella calca impenetrabile del quartiere cinese. Perché nulla è come sembra.

E in un film dove tutti mentono e hanno una vita segreta, e in cui persino la dark lady alla fine tanto tale non è, si finisce quasi per disinteressarsi agli sviluppi di una trama gialla che sfocia in una soluzione doppia, in barba a qualsiasi principio di verosimiglianza. Quello che interessa a Friedkin (e a noi), come si suol dire, è ben altro. È anche la vivisezione di un mondo alto-borghese, certo, quello agiato e dichiaratamente repubblicano, almeno a giudicare dalle frequentazioni dei personaggi e dalle fotografie che essi espongono in casa (il che è ancora più sorprendente, considerato il regista), lo stesso che fa dell’apparenza perbenista il proprio credo salvo poi abbandonarsi alle nefandezze più inconfessabili. In fin dei conti si parla sempre di sesso, soldi e politica: facile ritrovare in tutto questo molte delle ossessioni che da sempre animano le sceneggiature di Joe Eszterhas, nonostante le numerose modifiche apportate da Friedkin gli abbiano fatto disconoscere il risultato finale (al punto da chiedere di rimuovere il proprio nome dai titoli, inutilmente); ma il cuore di Jade è palesemente e soprattutto nello scarto tra la scrittura e l’immagine, tra quello che viene raccontato e ciò che viene effettivamente messo in scena, nel contrasto tra i desideri morbosi dei personaggi e la fredda nudità senza veli di un cadavere steso sul tavolo dell’obitorio, come sarà poi anche in Eyes Wide Shut (con tutte le differenze del caso, naturalmente). Nell'ideogramma cinese ("giada") inciso su una piccola scatola contenente peli pubici che sta a indicare, appunto, un corpo e una persona; in quella maschera che all’inizio ci guarda priva di espressione, e in noi che guardiamo attraverso essa.

La prossima volta che facciamo l’amore presentami a Jade...

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William Friedkin David Caruso Linda Fiorentino Chazz Palmintieri Richard Crenna Michael Biehn Angie Everhart 100 minuti
USA 1995
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The Falcon And The Winter Soldier

di Alessio Baronci
the-falcon-and-the-winter-soldier- recensione serie marvel disney

Seconda serie supereroistica offerta da Disney+, The Falcon and The Winter Soldier conferma quanto Disney e Marvel Studios concepiscano la serialità come laboratorio di riflessione sui segni essenziali del franchise post Endgame, ma è soprattutto il maggior indice di quanto l’MCU abbia un rapporto del tutto particolare con il concetto di pop, che influenza il suo dialogo con l’attualità e il suo target.

La serie di Malcolm Spellman è, in questo senso, un progetto imprescindibile dal tempo presente che intende raccontare, a tal punto che, in origine, sarebbe dovuta uscire al posto di Wandavision, nell’America di George Floyd e della fine della presidenza Trump. A contatto con una realtà priva di guida, il progetto di Spellman non può che porre al suo centro un eroe senza poteri e osservare il racconto ad altezza uomo, concentrandosi sullo spazio fuori scena del cinecomic e sulle impreviste, catastrofiche conseguenze dell’atto salvifico degli Avengers, similmente a quanto avvenuto con Civil War. Riletto dal punto di vista di The Falcon And The Winter Soldier, dunque, lo schiocco di Thanos, oltre a rompere un intero immaginario, ne ha svelati la grana concreta e i lati oscuri, puntando l’attenzione su tutti coloro che sono rimasti indietro e che hanno faticato a trovare posto nella realtà ricostruita dopo Endgame.

E dunque, nella realtà che non sa di essere (ancora) a pezzi della serie, tra fanatici in grado di ricreare il siero del supersoldato, Avengers costretti a fare i conti con l’eredità di Captain America e soldati incaricati dal governo di imbracciarne lo scudo, l’eroe prima di essere considerato una minaccia è soprattutto un privilegiato, qualcuno che non comprende, forse, i danni che ha causato nel tentativo di salvare il mondo e che possiede qualcosa che altri credono di meritare di più. La serie organizza dunque una narrazione lucidamente politicizzata, che attraversa gran parte dei lati oscuri dell’America recente, raccontandone il populismo dilagante, le insicurezze, l’estremismo ideologico, il razzismo latente, spingendosi fino a riflettere criticamente sul terrorismo e a rileggere il supereroe da una prospettiva suprematista.
L
’arco di trasformazione che porta il giovane Sam Falcon Wilson a diventare l’unico erede di Steve Rogers nasconde in piena vista un evidente desiderio di ricostruzione, che parte dalla dimensione socioculturale americana ma che finisce per coinvolgere anche l’immaginario di riferimento. La Marvel infatti pone al centro della serie un racconto che ha smarrito le sue coordinate essenziali finendo per perdersi in un flusso invaso da schegge che rientrano in gioco in maniera distorta, anche solo citando altri film del franchise. Da qui, lentamente, la serie ricostruisce un’architettura simbolica che possa guidare i singoli input a partire dalla struttura tipica degli action americani anni ’80 e ’90, i cui elementi essenziali vengono via via riprocessati nel corso del racconto.

Si tratta, a ben vedere, di una scelta non casuale. In quel modo di intendere il cinema action c’è infatti il germe di un machismo che è stato (anche, ma non solo) alla base della narrativa della presidenza Trump, un’escrescenza traumatica che chiede di essere processata e rilanciata. Alla diegesi non rimane dunque che attraversare (cambiandoli di segno) certi elementi di quell’immaginario nel tentativo di ritrovare una via per ripartire. Ora è Falcon, icona black progressista, umile, giusta, ma soprattutto rappresentante di una mascolinità non aggressiva né prevaricante, esattamente agli antipodi del modello estremista rappresentato da John Walker, a essere al centro del racconto; è lui il protagonista dell’iconico training montage, residuo evidente di quel cinema, che sancisce la sua piena maturazione e che di fatto apre ad uno scontro finale dal sapore McTiernano.

cap

The Falcon And The Winter Soldier riannoda con lungimiranza la sua struttura simbolica ritrovandola nel costante dialogo tra passato e presente di un intero genere anche grazie all’esperienza maturata da Spellman nella writer’s room di John Wick (grande riformatore di quel tipo di action, tra l’altro) ma probabilmente non si rende conto che l’opera ricostruttiva si spinge troppo oltre e a tratti eccede in soluzioni narrative incoerenti. Pensiamo, ad esempio, all’arco di John Walker, che nell’ultimo atto rinsavisce improvvisamente e si allea con gli eroi contro i Flag Smashers in un finale che, nel riprendere forse il topos del villain convertito alla base di franchise muscolari come Fast And Furious, risulta troppo frettoloso. Proprio il superficiale epilogo di Falcon And The Winter Soldier è il perfetto sintomo di quanto il pop sia una dimensione ancora di difficile approccio, malgrado le apparenze, per la Marvel cinematografica. Straordinaria creatrice di mondi cinematografici, la Casa delle Idee non riesce tuttavia ancora a utilizzare le storie ambientate in quei mondi come vettori di riflessioni davvero d’impatto nel contesto socioculturale e da questo punto di vista l’ambiziosa e affascinante lettura politica dell’America contemporanea insita nella serie non fa certamente eccezione. È un po’ come se si temesse che la forma blockbuster non possa essere anche, a suo modo, militante, perché nel farlo si correrebbe il rischio di alienare gran parte del pubblico. Per questo, nel momento in cui si sposta a ragionare sul suo tessuto tematico, la serie sceglie una serie di argomentazioni a grana grossa, che annacquano ottimi spunti in una forma artefatta, preferendo rifugiarsi in metafore urlate o in monologhi a tratti didascalici, piuttosto che nel tessuto vivo del racconto, forse troppo insicura nel demandare l’intero spettro della riflessione ai corpi e ai gesti di John Walker e Isaiah Bradley, di per sé entità politiche raccontate con ammirevole cura.

The Falcon And The Winter Soldier è dunque una serie paradossale, straordinariamente coerente sul piano tematico ma al contempo strabordante, fuori fuoco e di gran lunga meno incisiva nella sua dimensione ideologica di quanto avrebbe potuto essere. La serie di Spellman ha il coraggio di ripensare da zero un intero immaginario, ma è anche la prova di quanto la Marvel possa parlare al presente forse solo mitigando le sue riflessioni a partire da una simbolica struttura-filtro. Ritorna dunque il paradosso del pur ottimo Black Panther, un blockbuster diventato simbolo della comunità afroamericana ma incapace, forse, di indirizzare a dovere i suoi numerosissimi spunti militanti in un discorso coeso proprio perché troppo chiusi nelle sue riflessioni teoriche sull’afrofuturismo.

Categoria
Kari Skogland Malcolm Spellman Anthony Mackie Sebastian Stan Wyatt Russell Daniel Brühl Emily VanCamp Miniserie da 6 episodi
USA 2021
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Nomadland

di Arianna Pagliara
Nomadland recensione Point Blank

Nata a Pechino e formatasi negli USA, la regista Chloé Zhao ha realizzato finora tre lungometraggi estremamente coerenti come prospettiva di sguardo e campo di indagine, che vogliono offrire il ritratto di un’America autenticamente rurale e al contempo marginale e dolente. È qui che da un lato si sedimenta ciò che resta del mito del West e della frontiera - dal confronto spietato e serrato uomo/natura al senso di solitudine come elemento intrinseco e costitutivo dell’(anti)eroe – e dall’altro si infrangono le illusioni e i sogni di grandiosità e successo radicati in un certo immaginario, e tuttavia minati alla base proprio da quel sistema socioeconomico che ha voluto porli in essere.
La Zhao, forte di un sentire che in virtù delle sue origini è insieme dentro e fuori la materia trattata, pone l’obiettivo della macchina da presa esattamente all’incrocio tra mito e realtà, e mette in scena il cortocircuito che si genera a partire da questo incontro/scontro.

L’opera prima della regista, Songs My Brother Taught Me (2015), è un racconto intimo e delicato su due giovani fratelli della riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota. Se i movimenti di macchina e lo sguardo sul paesaggio hanno un debito con il cinema di Malick, l’intento ultimo del film è quello di restituire un ritratto veritiero dei personaggi e della loro difficile quotidianità, senza però sfaldare troppo la narrazione, ma portando avanti un discorso coeso e limpido sul rapporto uomo/natura, dove però la natura è essenzialmente casa, patria, heimat. Uno dei personaggi secondari di questo primo film, attore non professionista e cowboy da rodeo, diverrà poi protagonista del secondo, intitolato The Rider - Il sogno di un cowboy (2019). A suo modo un western, il secondo film della Zhao, come avviene anche nel cinema di Roberto Minervini - che per geografie e sentire non è distante, sebbene più ruvido e meno addomesticato – è, più che racconto, vita vissuta, perché il protagonista Brady Jandreau interpreta se stesso.

Una presenza attoriale forte come quella di Frances McDormand in Nomadland è dunque una cesura, uno strappo in un certo senso, ma tuttavia non così profondo, perché la dimensione qui esplorata – umana ed emotiva, ma anche geografica e paesaggistica – resta in linea con i due film precedenti. Il punto di partenza è l’omonimo libro inchiesta della giornalista Jessica Bruder, che racconta del moderno nomadismo a cui tanti americani non più giovani sono costretti in seguito alla recente, rovinosa recessione economica. La protagonista del film, Fern, è una di loro: ha perso il marito e in seguito la fabbrica dove lui lavorava ha chiuso; gli alloggi per i lavoratori si sono trasformati in una città fantasma e lei, che non ha più una casa, gira l’America in un van in cerca di lavori stagionali. La durezza delle sue giornate è mitigata dalla solidarietà che riceve – e soprattutto offre – ai molti che condividono la sua stessa scelta di vita, incrociati, persi e ritrovati lungo un cammino senza fine, attraverso distese di neve e deserti, parcheggi notturni e fast-food.

Leone d’Oro a Venezia 77, due Golden Globe e tre premi Oscar, Nomadland sa coniugare le esigenze del cinema di fiction con quelle di un approccio che punta al documentarismo, parlare il linguaggio dell’emotività senza perdere aderenza al vero, insistere sulla drammaticità evitando il compiacimento, complice la presenza magnetica di Francis McDormand, intensa nella sua empatica asciuttezza.
Nomadland è infatti un film che sembra cucito addosso all’attrice protagonista, un film che si nutre della sua eccezionale interpretazione, ma anche un racconto intriso di malinconia e tenerezza, capace di rivelare tutto uno stato di cose a partire dai più piccoli dettagli. Un piatto che si rompe, una gomma a terra, lo sporco onnipresente che le mani stanche di Fern cercano di lavare via sempre e comunque. C’è poi l’America dei non luoghi: ancora tavole calde, campeggi, gruppi sparuti di case abbarbicate addosso a immense strade anonime, dove, come in certi dipinti di Edward Hopper o come in un autentico western, la vastità silente dello spazio basta da sola a minacciare l’uomo (che qui è sempre, e ancora, un pioniere) e il suo sogno di urbanizzazione, il suo bisogno di controllo, di ridurre l’ignoto a noto.
C’è poi, ancora, la natura maestosa e matrigna, specchio – come vuole, di nuovo, il western – della solitudine umana, margine di confronto della sua forza, della sua capacità di resistenza.
Nomadland è però anche un film che tiene in piedi solidamente un discorso politico prima ancora che esistenziale, sebbene l’afflato poetico resti alla base dell’approccio espressivo della regista.

Impossibile, per gli argomenti trattati, non pensare al bel documentario di Gianfranco Rosi Below Sea Level – Sotto il livello del mare (2008), girato in una comunità di homeless del deserto californiano: uomini e donne dalle vite spezzate, il presente che spaventa come una voragine aperta, il futuro che è qualcosa di impossibile, ormai, anche solo da immaginare. Ma la Zhao, sebbene fortemente ancorata al reale, vuole restare dentro il cinema, inteso anche come fabulazione: la necessità di costruzione del racconto si fa allora evoluzione del personaggio, che man mano sarà in grado di liberarsi dalle catene interiori del ricordo e di riprendere la strada, infine, con una libertà non solo fisica ma finalmente anche emotiva.

 

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Chloé Zhao Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, Derrick Janis 108 minuti
USA, 2020
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La donna dello scrittore

di Leonardo Gregorio
transit-recensione-film-petzold

Tra Il segreto del suo volto e Undine – Un amore per sempre: è l’anello di congiunzione tra le due opere, tra le cadenze della Storia e del Mito, tra il possibile e l’inverosimile, tra la memoria del passato e del futuro. Un nuovo (ri)corso, un nuovo ritorno. Un transito. Una fuga impossibile come lo è l’amore. È il primo film di Christian Petzold in assenza del maestro, e spesso collaboratore, Harun Farocki; è il primo film – dopo tanti – senza la musa Nina Hoss, con Paula Beer (e Franz Rogowski, insieme con lei anche in Undine) a disegnare altre traiettorie sentimentali, a contenere altre implosioni esistenziali, a inventare altri corpi e spettri, figure del racconto che transitano incerte come il senso, condannate a un falso movimento dalle rovine della Storia e inchiodate all’indeterminatezza dello stato dell’essere.

La Francia odierna è sotto il progressivo scacco delle truppe naziste. Georg (Rogowski) e Marie (Beer); un uomo, una donna, i loro destini. Transit (La donna dello scrittore) – alla fonte c’è il romanzo Visto di transito di Anna Seghers (1944), pubblicato in Italia quasi dieci anni dopo – viaggia tra il mélo e il noir, dentro un buco temporale, in una sospensione quasi sensoriale, dentro un’apocrifa Jetée a colori, in un mondo che assomiglia al nostro ma che non lo è, in un tempo che potrebbe essere il nostro ma che non lo è.  E Petzold ama i suoi personaggi irreali, proprio perché troppo reali. Del resto, secondo lui, «lo spazio cinematografico è questo: uno spazio tra persone». E sono proprio queste «persone» l’espressione più pura del sentimento confuso, inintelligibile, del tempo; come se questo fosse una loro proiezione, come se la loro soggettività fosse una realtà fattuale. Petzold rende possibile l’impossibile, senza fantascienza, come in un paradossale documentario di finzione, in una distopia realista, in una messa in scena di soglie vere e presunte. Nel Segreto del suo volto solo Johnny, marito di Nelly, non riconosce la moglie sopravvissuta ad Auschwitz. Qui, nella Donna dello scrittore, il Novecento si ripete senza mostrarsi.

Georg è un tedesco che ha lasciato la Germania, si è rifugiato in Francia, ma ben presto i nazisti arriveranno. Lascia Parigi, ormai spacciata, per riparare a Marsiglia. Nella città marina, per una serie di circostanze, verrà scambiato dalle autorità diplomatiche per lo scrittore Franz Weidel, intellettuale dissidente che in realtà si è suicidato in una stanza d’albergo, come sa molto bene Georg, in possesso di importanti documenti e lettere dell’uomo. Questa nuova identità potrebbe garantirgli la partenza via nave per il Messico, prima che i tedeschi giungano a occupare e rastrellare la città, ma tutto diventa più difficile quando conosce Marie, la moglie di Weidel, in cerca del marito scomparso. 

È un’opera straniata e sdoppiata, La donna dello scrittore: le immagini del suo autore sono questione politica, quesito estetico, figure di una complessità problematicamente nitida, una relazione tra i suoi protagonisti e il mondo; le immagini che i personaggi  vedono, vivono, sondano, sono immagini che si ricordano di altre: inaccessibili, inesatte, indecifrabili, forse mai esistite. Il rapporto che si instaura tra Georg e Driss, orfano del padre, sembra essere quasi il lacerto di un altro racconto nascente, una scheggia, un altro oggetto narrativo. Così come gli altri personaggi che l’uomo incontra: sono quasi immagini-limite, rivelazioni parziali, tracce di significati inarrivabili, di una verità introvabile. L’amore tra Georg e Marie è il lampante mistero del film, la sua identità imperscrutabile, la sua essenza ultima. La voce narrante, così lontana così vicina, non addensa, piuttosto ricama i fili sottili tra teoria dello sguardo d’autore e atlante emozionale dei suoi personaggi. I corpi sono incerti, i luoghi li raccontano, li dissimulano, li disperdono, li perdono. E nello iato tra la forma di Transit e quella del pensiero dei suoi protagonisti, del loro agire, nel vuoto tra questo cinema e i suoi abitanti, Petzold – come un subacqueo, come il Christoph di Undine –  si immerge, cerca un indizio, forse un inizio, una verità finalmente possibile.

Categoria
Christian Petzold Franz Rogowski Paula Beer 101 minuti
Francia, Germania, 2018
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Un altro giro

di Emanuele Di Nicola
Un altro giro di Thomas Vinterberg

Fin dall’inizio dei tempi l’uomo si ritrova davanti a un bicchiere. Chi siamo noi per contraddirlo? La letteratura canta le lodi dell’alcool dall’antichità: partendo dai greci e latini, e ancora prima, per arrivare all’età moderna, al vino poetizzato da Baudelaire, sfociando nel contemporaneo con gli eccessi della Beat e non solo. Charles Bukowski, in un racconto di Storie di ordinaria follia, osserva un’anziana signora irreprensibile e si chiede: «Come avran fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa?». Poi naturalmente c’è il cinema. Che l’alcool lo ha sempre inscenato implicitamente, con il whisky impugnato da Humphrey Bogart (come nella vita, d’altronde), e in modo esplicito nelle opere frontali sull’alcolismo: basti pensare a Giorni perduti di Billy Wilder (The Lost Weekend, 1945), che nella Hollywood classica raccontava la parabola di un alcolizzato, ovvero lo scrittore "perduto" incarnato da Ray Milland. Di alcool è imbevuta la cine-letteratura del Novecento, incluso il fumetto, con Tiziano Sclavi che negli anni Ottanta assegnava a Dylan Dog il tratto distintivo di ex alcolista come l’autore, generando da esso grandi storie (Il fantasma di Anna Never, 1987). E da poco abbiamo visto il Churchill di Gary Oldman, ne L’ora più buia di Joe Wright, che non si arrende ai nazisti con discorsi radiofonici impastati dall’alcool. Ed Herzog incontra Gorbaciov, col cineasta che dice del leader sovietico: «Si capiva subito che era diverso dagli altri: non beveva». E soprattutto la manovra spericolata del pilota Whip di Denzel Washington, in Flight di Robert Zemeckis, film sull’alcolismo e sul dubbio, sulla necessità di mettersi in dubbio per combatterlo (ma quella manovra, forse, non era poi così sbagliata).

Proprio nell’era del Covid e delle bevute casalinghe, in modo preterintenzionale, si innesta Druk di Thomas Vinterberg (Ubriacarsi), in italiano Un altro giro, titolo nato nei festival d’emergenza (bollinato da Cannes, proiettato alla Festa di Roma), cresciuto grazie anche alla presenza di Mads Mikkelsen e infine portato in trionfo: Oscar 2021 come migliore film straniero nella storica edizione di ripartenza dell’Academy.
Il regista danese mette in scena l’esperimento di quattro docenti di scuola superiore, ormai in declino e piegati dalla routine, guidati dal Martin di Mikkelsen: ingerire una determinata quantità di alcool e mantenere un livello costante tutto il giorno, senza mai esagerare, per migliorare le condizioni di vita e lavoro. Ma, prima di tutto, un indizio lo fornisce la citazione di Kierkegaard posta in esergo: «Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto di un sogno». Giovinezza e amore sono quindi le premesse che disegnano le quattro figure: la prima è svanita, la seconda è una chimera da rincorrere, come dimostra Martin e il suo rapporto sfilacciato con la moglie. Il “sogno” è l’utopia del benessere, il tentativo disperato di stare bene dopo i 50 anni. Così i quattro amici iniziano a bere nella quantità stabilita.

Un altro giro di Thomas Vinterberg

L’esperimento è scientifico, condotto con perizia chirurgica, ma l’alcool può sfuggire di mano. In tal senso il racconto, nel suo graduale progredire, mostra i possibili effetti sui diversi caratteri: se Martin sembra recuperare il legame con la compagna, la sostanza dell’insegnamento e insomma le redini della vita, il maestro di ginnastica Tommy (Thomas Bo Larsen, non inferiore a Mikkelsen) imbocca invece una china fatale. Nel frattempo il bicchiere può davvero sciogliere il proprio granito interiore, come dimostra, genialmente, la sequenza dello studente che dopo un goccetto - su consiglio del professore - passa brillantemente l’esame. Vinterberg, regista sottovalutato e stroncato da molta critica, sbrigativamente legato all’antico Festen, fruga ancora nella memoria personale, esattamente come per La comune: «Mi ricordo quando, a sedici anni, ero nel giardino della comune dove vivevo, nel pieno della primavera, un po’ brillo dopo avere appena baciato la mia ragazza: un momento di felicità assoluta che non tornerà. Il film si lega a questo desiderio, a tornare a provare quella stessa leggerezza». Lo sceneggia col sodale Tobias Lindholm, un altro sottovalutato (peggio: misconosciuto), che ha appena mostrato la sua profondità di scrittura nella miniserie The Investigation, un giallo che non mostra mai la vittima né il sospettato: così come Druk è un film sull’alcool che non mostra mai la morale.

Come porsi dinanzi a questi personaggi, alle loro evoluzioni? È qui che il racconto schiera tutta la sua potenza: oscillando verso la descrizione degli eccessi alcolici, con gli effetti devastanti sulle vite, a un certo punto sembra sfiorare una posizione moralistica. Ma lo fa solo per smentirla, spiazzando doppiamente: quando l’esperimento viene archiviato, quando i personaggi subiscono un lutto e tornano nei ranghi, lontano dall’alcool e nel limbo della sobrietà, ecco il colpo di scena. La svolta si materializza sotto forma della danza dionisiaca di Mads Mikkelsen, splendidamente girata da Vinterbeg che lo segue con la cinepresa come lo pedinava ne Il sospetto, avvolgendolo nel dubbio della pedofilia: solo che qui è una certezza, il baccante Martin balla per se stesso, riafferma la propria libertà etica ed etilica, dunque umana. Eccolo il sogno di Kierkegaard: un sogno ebbro di felicità che si può sempre afferrare per un attimo alzando il bicchiere. A qualsiasi età. Così la parabola incubale di Wilder, le sue inquadrature mostruose del whisky e lo spettro della bottiglia, diventano qui giorni ritrovati. Vinterberg prende il moralismo e lo scioglie in un baccanale dionisiaco: bibo ergo sum.

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Thomas Vinterberg Mads Mikkelsen Thomas Bo Larsen Magnus Millang Lars Ranthe Maria Bonnevie 117 minuti
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Anything for Jackson

di Nicolò Comencini
anything for jackson recensione film

Dai tempi in cui Lynch e Frost provarono che la barriera divisoria tra il mondo cinematografico e quello televisivo era più permeabile di quanto si credesse, le due sfere hanno portato avanti un dialogo costante, una circolazione ininterrotta, in entrambe le direzioni, di idee e talenti. Molti sono ad esempio i grandi registi che negli ultimi anni si sono dedicati all’esercizio seriale, mentre alcuni produttori e creatori di contenuti pensati per il piccolo schermo (per quanto possa ancora aver senso parlare di piccoli e grandi schermi nel coronacene — sigh!) si sono cimentati nella settima arte.
In questa dinamica, dopo anni di formazione trascorsi per lo più sui set canadesi di film tv natalizi per la televisione canadese, Justin G. Dyck è riuscito a concretizzare il sogno di realizzare un lungometraggio horror indipendente: Anything for Jackson rende omaggio ai classici appartenenti al filone della possessione demoniaca (come Il presagio di Richard Donner) ma porta al contempo una ventata di aria fresca in un genere che ha il terribile vizio di ripetersi nella forma e nei contenuti.

Lo spunto iniziale richiama la trama di Rosemary’s Babe: una giovane donna incinta diventa la sfortunata preda di un’anziana coppia che si balocca con l’occulto. In questo caso non è però il terrore della futura madre a occupare il centro della scena, bensì le peripezie dei rapitori, una coppia cordiale, pacata e benestante che si rivela capace di premeditare e mettere in atto un crimine atroce. Tuttavia, contrariamente ai diabolici inquilini del gotico Bramford, i due (interpretati in modo efficace da Julian Richings e Sheila McCarthy) non sono mossi da una mera devozione satanica ma dal dolore dovuto alla perdita dell’amato nipotino. Sprovvista di mezzi per far fronte al trauma in una vita che sembra, almeno fino al dramma scatenante, averle riservato tutti i privilegi immaginabili, la coppia si abbandona all’infantile e disperata ricerca di una via di fuga che le permetta di sottrarsi al lutto, costi quel che costi. Avvicinatisi a un gruppo di satanisti amatoriali che si riunisce nel locale centro ricreativo, i coniugi decidono così di ricorrere a un esorcismo inverso, o, secondo la definizione del sociologo Luc de Heusch, a un “adorcismo”, ovvero l’insediamento forzato di una forza benefica in un luogo, in un oggetto o in un essere vivente. In altre parole, intendono infondere lo spirito di Jackson nel corpo di un nascituro.

film

La scelta di costruire la narrazione attorno a una coppia anziana, in controtendenza nell’ambito di un genere incline a privilegiare corpi giovani, si rivela una risorsa che il regista riesce a sfruttare a pieno, cogliendone le potenzialità comiche in grado di fare da contrappeso alla drammaticità della vicenda e di attribuire un tono e un ritmo singolari a una pellicola che avrebbe altrimenti faticato a distinguersi. I coniugi Walsh risultano essere impacciati col crimine e l’occulto quanto lo sono con la tecnologia, al punto che neanche la precisione millimetrica nel calcolare le proprie azioni impedisce loro di incappare in continui errori. Nel susseguirsi degli eventi, scoprono a loro spese di aver effettuato solo la prima parte del rituale, aprendo un portale che funge da calamita per tutte le entità soprannaturali intenzionate ad accedere al mondo dei vivi. L’accogliente dimora della coppia diventa così una casa degli orrori popolata da spiriti terrificanti. L’attenzione che Dyck presta ai dettagli è particolarmente apprezzabile in questo frangente: i fantasmi che infestano la casa sono incarnazioni ben precise delle fobie dei personaggi, ispirate all’interpretazione psicoanalitica dei sogni. Il Dott. Walsh viene ad esempio perseguitato dallo spettro di una donna che si passa compulsivamente il filo tra i denti fino a farli cadere, incarnazione di un incubo tipico che la psicanalisi interpreta come paura inconscia di perdere il controllo sulla propria esistenza.

Rifiutando inoltre un modello che tende per natura alla dicotomia tra buoni o cattivi, Anything for Jackson presenta una cerchia di personaggi tridimensionali e terribilmente verosimili nella loro incapacità di far fronte al dolore della perdita, alla paura e all’emarginazione. I protagonisti del film si muovono a tentoni in una realtà che si svincola continuamente dal loro volere, e l’umano impulso di correggere un destino infausto, anche a costo di rinunciare ai propri limiti etici, funge da catalizzatore per il climax tragico.

In un’intervista rilasciata al Substream Magazine, Dyck ha annunciato la sua intenzione di portare avanti in futuro una ricerca nel genere horror. Visto l’apprezzabile frutto di questa prima escursione, non ci rimane che attendere impazientemente di vedere cosa ci riserberà in futuro.

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Justin G. Dyck Sheila McCarthy Julian Richings Konstantina Mantelos Josh Cruddas 97 minuti
Canada 2020
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