Torino 2020 / Antidisturbios (ep. 1 e 2)

di Matteo Berardini
Antidisturbios - Rodrigo Sorogoyen

Immaginate un Don Siegel ai tempi del cinema digitale, dotato di macchina da presa agile, lo sguardo che oltre il rigore del classicismo precipita tra i corpi, gli scudi, i manganelli e le visiere, impatta sui volti, tra gli sputi e il sudore, gli oggetti lanciati che volano da una parte all’altra della barricata. Immaginate il cinema urbano, stradale, affamato di un Friedkin anni 70, quell’ambiguità che rompe gli schemi e le organizzazioni manichee dell’orizzonte morale lasciando che i fluidi si mescolino, che la prospettiva si complichi, si ispessisca di contraddizioni e passioni che rendono difficile il giudizio, chiamando a raccolta la scelta, l’idea. La necessità di riflettere sul reale, sul corpo sociale e i suoi interstizi, le sue antinomie. Immaginate che un canale pay-tv spagnolo, Moviestar+, eserciti la volontà illuminata di lasciare mano libera a Rodrigo Sorogoyen e Isabel Peña, rispettivamente regista e sceneggiatrice di razza, dal talento vero, e che da questa libertà nasca una miniserie che è distillato di genere purissimo, iniezione di adrenalina, calamita per lo sguardo. Ecco, se riuscite a tenere a mente tutte queste cose siete vicini a immaginare la sensazione suscitata dai primi due episodi di Antidisturbios, la serie presentata nella caleidoscopica sezione di genere del Torino Film Festival, Le Stanze di Rol. Com’è noto l’attuale emergenza sanitaria ci obbliga a una fruizione atomizzata, casalinga di queste immagini. Durante la visione, e ancora adesso a occhi e mente fredda, si fa fatica a immaginare l’emozione che avrebbe suscitato l’esperienza su grande schermo.

Suddivisa in sei episodi, la serie racconta di un disgraziato tentativo di sfratto e delle sue conseguenze sul corpo di polizia di Madrid. Il focus è una squadra di antidisturbios, sei agenti dell’antisommossa madrilena chiamati a sgomberare una famiglia con difficoltà economiche. Lo stabile è semi abbandonato, eppure molto presto la situazione degenera, l’adrenalina pompa nelle vene, corpi e muscoli si gonfiano, impattano. Tra grida, minacce ed esplosioni di violenza ci scappa il morto. Di chi è la colpa?

Disgraziatamente abbiamo avuto modo di vedere solo i primi due episodi di questo poliziesco urbano, un progetto curato da uno dei nomi più promettenti del nuovo cinema europeo, lo spagnolo Rodrigo Sorogoyen, che scrive assieme alla collega Peña e dirige tutte le puntate. E come le dirige. Perché Antidisturbios non è soltanto un esempio brillante di architettura seriale, in cui ogni episodio attira il focus su un agente mentre dispiega le fila narrative in un movimento espansivo che abbraccia i vari personaggi, costruisce le relazioni e gli interessi in campo e poi, inevitabilmente, converge. Antidisturbios infatti è anzitutto immagine, è il corpo dell’immagine che prende peso e scende in strada, tra altri corpi e geometrie spezzate, è la macchina da presa usata come oggetto contundente per colpire ancora e ancora e ancora la superficie del reale, fino a che da quelle incrinature e crepe non emerge qualcosa del vero. Scomodo sicuramente, ma vero. Valorizzando la scelta del grandangolo su insistiti primi piani, Sorogoyen dispiega una galleria di volti deformati, schiacciati davanti allo spettatore, figure che incombono e riempiono l’immagine dettando in ogni momento e situazione, anche una partita di Trivial in famiglia apparentemente innocua, una temperatura emotiva da thriller psicologico. Non lascia respiro Antidisturbios, con le sue immagini così dense e immanenti che riflettono un orizzonte narrativo in cui non ci sono soluzioni facili o scorciatoie dalla complessità del reale. Non vediamo l’ora di mettere mani e occhi sul resto degli episodi, ma già questo è sufficiente a indicare l’ultima fatica di Sorogoyen  come uno dei grandi progetti seriali del 2020.

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Rodrigo Sorogoyen Vicky Luengo Raúl Arévalo Álex García Hovik Keuchkerian 1 stagione da sei episodi
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I May Destroy You

di Irene De Togni
I May Destroy You - rcensione serie tv hbo bbc

Coprodotta da BBC One e HBO, I May Destroy You si pone in continuità con un certo modello di prodotto televisivo marcato da una fortissima presenza autoriale femminile che trova nei lavori di Lena Dunham degli anni Dieci il proprio prototipo e in quelli di Phoebe Waller-Bridge, Tig Notaro o Rachel Bloom, per citare, forse, le autrici più famose, il proprio seguito. Si tratta di serie spesso figlie di una scrittura più vicina allo spettacolo teatrale o al monologo comico e dalle forti venature autobiografiche, dove l’autrice ricopre la stragrande maggioranza delle parti del processo creativo, dalla sceneggiatura, alla regia passando per il controllo creativo e l’interpretazione. Il protagonismo quasi assoluto intorno a cui ruota questo tipo di narrazioni fa sì che la figura principale armonizzi e renda coerenti le diverse sfaccettature e le dinamicità da pastiche di generi del racconto spesso rivolto verso il dramedy e la satira sociale. Satira che diventa volentieri commento critico, ironico e autoironico, di esperienze tipicamente femminili o minoritarie e del modo in cui vengono rappresentate in televisione e interpretate dal pubblico, dove il personaggio di finzione interagisce in un gioco di rimandi e sovrapposizioni con la persona reale dell’autrice.

Dopo la serie di debutto Chewing Gum per l’emittente britannica E4, distribuita su Netflix dal 2015 al 2017, una cringe comedy sul quotidiano di una ragazza di colore nella periferia urbana londinese (adattamento televisivo della sceneggiatura teatrale della stessa autrice Chewing Gum Dreams), Michaela Coel dà alla luce I May Destroy You, un progetto più complesso e maturo che fa convergere ed evolvere i diversi aspetti dell’identità dell’autrice: l’essere donna, millennial, le specificità di una felice fusione fra blackness e britishness.
È perfettamente logico, visto il particolare processo creativo che sta alla base di questo tipo di racconti, che sulla serie si riversi una buona parte dell’esperienza del vissuto personale dell’autrice, a cui la serie è legata a doppio filo. In diverse interviste la Coel parla degli abusi subiti sul set di Chewing Gum, facendone il motore della scrittura e dell’azione di I May Destroy You.

La serie pone al centro l’auto-narrazione come tentativo di metabolizzare la violenza subita, per superare o perlomeno affrontare l'esperienza dello stupro subito, in un racconto che assume coerentemente e contemporaneamente i tratti della detective story e del romanzo di formazione dai toni dramedy, consoni all’oscillazione tra il dramma della situazione concreta che è difficile da edulcorare e l’autoironia e la forza comica come connotato caratteriale dell’autrice e della protagonista.
L’intreccio si costruisce come una crime story: lo spettatore viene messo al corrente di una parte degli eventi e coinvolto nell’indagine sulle circostanze, le cause ed i colpevoli, domande che perdono progressivamente d’importanza per farne guadagnare alla convalescenza della protagonista, alla presa di coscienza delle colpe sistemiche, delle violenze strutturali. L’indagine sullo stupro, in questo modo, si allarga, si frastaglia in una rimessa in discussione di tutto ciò che potrebbe aver a che fare con lo stupro nella società contemporanea, di tutto ciò che può (e deve) essere definito e compreso come uno stupro, di tutto ciò che la violenza e la violazione possono fare alle proprie vittime. La Coel trasforma abilmente un genere in cui compaiono spesso le donne come vittime di violenza (si pensi al tropo ancora molto diffuso della dead girl nel crime) in uno strumento di analisi delle condizioni e dei presupposti di questa stessa violenza misogina, della cultura dello stupro. Si frastaglia, così, anche l’esperienza stessa dello stupro (e la sua rappresentazione) nelle diverse storie dei coprotagonisti, quasi a voler rendere operativo in questo senso uno schema di indagine che fa fuoriuscire esperienze assopite, non riconosciute prima di venir interrogate, quasi a voler mostrare fino a che punto la cultura dello stupro sia una realtà presente nella stragrande maggioranza delle vite di tutti, chi carnefice, chi promotore più o meno conscio, chi vittima.

Con questa sorta di crime sociologico-culturale si intreccia, quindi, grazie anche alla concentrazione costante sul punto di vista della vittima, il romanzo di formazione che prende le forme della reinterpretazione artistica del vissuto, sempre presente e tematizzata nella serie stessa (come accadeva anche in Girls, dove la vita di Hannah è continuamente elaborata e rielaborata attraverso la sua pratica di scrittura) grazie ad un affascinante mise en abyme che fa passare l’elaborazione del trauma subito attraverso una doppia catarsi artistica: l’attività di scrittura che, nel finale, aiuta la protagonista Arabella a potersi emancipare dall’esperienza traumatica, e la scrittura della stessa I May Destroy You da parte della Coel, della quale traspare il sentimento di liberazione e riconquista della propria narrazione dai toni che la serie stessa assume nel finale.

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Michaela Coel Sam Miller Michaela Coel Weruche Opia Paapa Essiedu 1 stagione da 12 episodi
UK, USA 2020
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Torino 2020 / The Dark and The Wicked

di Mattia Caruso
The Dark and The Wicked - recensione film bertino

Forse ci voleva proprio un film come The Dark and The Wicked per rendere finalmente giustizia a uno dei registi di genere più sottovalutati dell'ultimo decennio (e oltre). Perché se è vero che con l'esordio di The Strangers Bryan Bertino era riuscito a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto nel circuito dell'horror indipendente, troppo spesso i suoi film sono stati liquidati come semplici esercizi di stile o come trite riproposizioni di situazioni ormai note. Critiche condivisibili, d'altronde, se si guarda superficialmente anche a questa sua ultima fatica, presentata nella sezione Le stanze di Rol all'ultimo Torino Film Festival: un compendio di tutto l'armamentario del genere all'interno di una storia che più convenzionale non si potrebbe immaginare.

C'è un'entità malvagia, infatti, che aleggia sulla fattoria dei vecchi genitori dei due fratelli Louise e Michael (Marin Ireland e Michael Abbott Jr.). Un Male invisibile e senza nome che, forse, è la causa diretta della malattia terminale del padre e che sta facendo lentamente impazzire anche la madre. Niente di nuovo, certo. Eppure nelle mani di Bertino persino gli spunti più abusati sembrano vivere di nuova vita. Era stato così per l'home invasion nel cult The Strangers, per il mockumentary nel sottovalutato Mockingbird, persino per il più immediato ed elementare The Monster, ed è lo stesso ora per questo horror rurale, dove il Male si annida, ancora una volta, tra le mura domestiche, nascosto tra i legami famigliari, tra il non detto di rapporti logorati o perduti per sempre.

Innestandosi in quel filone parentale alla Ari Aster (ma anche Mike Flanagan), Bertino, con la consueta regia abile e salda che non si perde in vezzi stilistici o trovate dozzinali, confeziona così una piccola riflessione teorica che trasuda amore autentico e genuino per il genere. Un incubo mano a mano sempre più angosciante dove è ancora una volta l'immagine, la sua veridicità, la sua affidabilità, tra una realtà sempre più labile e le sue inevitabili allucinazioni, il centro di tutto. Una riflessione che non appesantisce la vicenda, ma che al contrario si amalgama perfettamente con un sottotesto come sempre ben chiaro e definito, che parla delle responsabilità dell'amore filiale, della paura della perdita, del terrore suscitato dal lutto e dall'ignoto.

Dosando sapientemente tutti i trucchi del mestiere (i jump scares, sempre efficaci e poco scontati, si contano sulle dita di una mano), forte di un comparto sonoro suggestivo e di uno script solido nella sua essenzialità, Bertino resta ben saldo all'interno dei confini dell'horror più tradizionale apportandovi però il peso di uno sguardo tutt'altro che innocuo e passivo, anche e soprattutto quando si nasconde dietro l'immediatezza e la semplicità dell'ennesima storia di presenze e possessioni. Riuscendo, nel frattempo, a fare anche quello che dovrebbe fare ogni horror: paura.

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Bryan Bertino Marin Ireland Michael Abbott Jr. Xander Berkeley 93 minuti
USA 2020
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La regina degli scacchi

di Veronica Vituzzi
regina scacchi netflix

A quasi un mese dall’uscita su Netflix della miniserie La regina degli scacchi, la domanda più interessante sembra essere, “ma perché è piaciuta così tanto?” La prima risposta è innanzitutto Anja Taylor-Joy: una recitazione espressiva impeccabile coniugata a un volto elfico, quasi sovrannaturale, originario di un mondo alieno, con grandi occhi e capelli rossi corti a onde, movenze delicate ed eleganti (Taylor-Joy ha studiato danza classica fin da bambina) e abiti e maquillage, entro una rigorosa scenografia, che esprimono il più fine garbo stilistico degli anni Sessanta, periodo in cui è ambientata la storia tratta dal romanzo di Walter Tevis. C’è poi il fascino immortale di una storia di formazione che attrae e conquista grazie al topos narrativo sempre vincente di un personaggio che parte da niente – orfano, povero, invisibile – e grazie a un talento incredibile trova la sua rivalsa sociale e personale, lottando sia contro il destino che contro i demoni del proprio passato.

Ma soprattutto, gli scacchi.  Il loro mistero, l’enigma insito nell’enorme numero di mosse potenziali sulla scacchiera che si affacciano nella mente di chi gioca. La difficoltà maggiore de La regina degli scacchi era proprio quella di raccontare sul piccolo schermo un gioco cerebrale basato su ragionamenti complessi; la soluzione trovata dal regista Scott Frank sviluppa per immagini il concetto proposto da Walter Tevis nel libro, ovvero l’idea di vedere le mosse dentro la propria testa. Beth Harmon inizia a giocare a nove anni col custode dell’orfanotrofio dove è stata mandata dopo la morte della madre, e dopo la prima sconfitta ogni notte rigioca le partite nella propria mente, il che, visivamente, si trasforma in una grande scacchiera proiettata sul soffitto. Ciò, unito al progressivo e massiccio studio degli scacchi (le strategie più comuni e quelle più difficili, le mosse delle partite giocate dai Grandi Maestri) le permette di affinare un talento straordinario nel vedere anche quello che i suoi avversari non riescono a intuire, prevedendo le mosse future proprie e altrui, e immaginando continuamente partite alla ricerca della combinazione vincente. Lo spettatore poco esperto non capisce molto di ciò che accade sulla scacchiera, ma può comunque afferrare il concetto su cui si basano le partite di Beth, mentre anche l’appassionato più ferrato non rimarrà deluso, grazie al prezioso aiuto di consulenza da parte di Garry Kasparov, il Grande Maestro russo considerato uno dei migliori scacchisti di tutti i tempi.

Vedere ciò che gli altri non vedono, immaginare qualcosa che ancora non è accaduto: come le viene fatto notare in un’intervista quando inizia a diventare celebre e vincere tutti i tornei, per Beth il confine tra creatività e follia è sottile. Più che la follia però, il suo è un problema di dipendenza dai tranquillanti e dall’alcool sviluppato da giovane per l’incuria degli adulti la circondavano, quasi che l’intenso lavorio del suo cervello pretendesse una controparte di oblio e istupidimento. In questo senso forse sta la parte più debole della storia, una sorta di ostacolo narrativo necessario giusto per non arrivare troppo frettolosamente a un finale che, senza venir qui anticipato, è comunque facilmente immaginabile. D’altra parte, come negli scacchi, questo tipo di racconto ha sempre due soli possibili conclusioni: o il trionfo, o la tragedia.

L’ambizione finale di Beth è riuscire a giocare in Russia, che, Guerra Fredda permettendo, rimane la patria dei migliori giocatori del mondo, il paese dove il gioco degli scacchi è assurto a sport nazionale: il suo rivale, il temutissimo Borgov, ex bambino prodigio, colui che l’ha sconfitta vedendo ciò che a lei sfuggiva, è la sua ossessione e il suo mito. Solo vincendolo al gioco potrà concedersi il riconoscimento necessario per dare definitiva dignità alla sua esistenza, dato che, come molti ex bambini ignorati e abbandonati, Beth ha la smania della vittoria a tutti i costi. Questa rivincita finale, che noi spettatori intuiamo dovrà avvenire a un certo punto della storia, è forse l’elemento più vincente di tutto il racconto, sia per gli ovvi rimandi a Rocky IV o alla storia vera di Bobby Fischer, unico campione del mondo americano, sia che per il fatto che Borgov, lungi dall’essere un nemico, è quasi una sorta di modello paterno temuto e ammirato da Beth, cresciuta senza padre da una madre altrettanto geniale e sregolata. Vincerlo, divenire sua pari, significa trovare finalmente un posto per sé nel mondo.

Alla luce di tutto questo ci vien da pensare, che La regina degli scacchi in fondo non poteva che piacere a tutti visto il suo mix perfetto di recitazione, cast e protagonista perfetti, la musica e le ambientazioni curate nei minimi dettagli, e una storia che già in forma di romanzo si era rivelata irresistibile, toccando tutti i tasti giusti nel cuore dello spettatore: caduta e rinascita, genio e fallimento, e il tocco di classe degli scacchi come coprotagonisti della serie. Il successo della serie è stato tale da spingere molti nuovi adepti verso questo sport considerato di nicchia: poiché mettere alla prova il cervello non fa mai male, non possiamo che esserne felici.

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Scott Frank Anja Taylor-Joy Marielle Heller Thomas Brodie Sangster Bill Camp 1 stagione da 7 episodi
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Le streghe

di Andrea Fontana
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L’incipit del nuovo lavoro di Robert Zemeckis nasconde alcune verità. Una riguarda il significato intrinseco del film, l’altra ricollega quest’ultimo, imprevisto lungometraggio alla complessa opera zemeckisiana, divenendone espressione e conferma.
Un proiettore si accende. Una voce fuori campo parla a una classe di bambini che, diligenti, guardano, osservano, ascoltano. Come al cinema. Subito dopo, l’inizio del racconto vede un bambino all’interno di una macchina. Fuori nevica ma, incredibilmente, i fiocchi di neve fanno un percorso inverso, sembra che risalgano. Un movimento della macchina da presa in rotazione ci rivela che il bambino è all’interno di una vettura rovesciata, un incidente in cui hanno appena perso la vita i suoi genitori.

In questi due incipit, quindi, c’è un concetto che Zemeckis intende ribadire: la necessità dell’esperienza cinematografica come momento di condivisione, creazione, fruizione del racconto. Elemento stordente, dato che Le streghe è stato distribuito direttamente in digitale, a causa dell’emergenza per la pandemia. Ma, soprattutto, c’è quello che nel mio volume (che mi permetto di citare) dedicato al regista di Chicago che scrissi diversi anni fa definii “Lo sguardo insufficiente”. Lo sguardo, per Zemeckis, è un atto assoluto ma insufficiente a racchiudere la complessità di ciò che sta riproducendo. E, di conseguenza, il cinema stesso, attraverso lo sguardo del regista, diventa strumento di falsificazione, morte e rinascita dell’oggetto ripreso, che assume significati diversi a seconda delle intenzioni dell’autore. Lo spettatore stesso è in balia del regista demiurgo che gioca con i sensi, le prospettive, i punti di vista. Zemeckis è, in questo senso, un autore sublime nel modellare a suo piacimento la materia cinematografica, raccontando tra le righe gli Stati Uniti e le loro idiosincrasie.

Nella sequenza ribaltata c’è un inganno che nasconde il vuoto generato dalla morte: il binomio bambino-neve, solitamente associato a un momento di felicità, di liberazione, di serenità, si trasforma nel momento tragico che innesca il motore della storia e, con esso, il senso politico di un film come Le streghe, tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl. E questo senso sta nelle piccole modifiche che, astutamente, Zemeckis apporta al film: dall’Inghilterra agli Stati Uniti, e in particolare l’Alabama, dagli anni Ottanta al 1968. L’inevitabile guerra fra i bambini e le streghe è una guerra sociale. Le streghe trasfigura nell’atto favolistico le frizioni infinite che ribollono sotto il tessuto sociale degli Stati Uniti e che, alla luce di ciò che è successo con la morte di George Floyd e la ribalta del movimento Black Live Matters (che esisteva già dal 2013), diventa urgenza da far conoscere a tutti, a partire dai bambini stessi. C’è dunque la questione razziale, ma anche economica: pare evidente che Le streghe sia una parabola sul capitalismo e sulle guerre intestine che, in nome del denaro, generano al proprio interno. Pensateci bene (SPOILER): i bambini trasformati in topi usano le stesse armi delle streghe contro di loro. La pozione prima ma, successivamente, la montagna di soldi con cui finanziare la guerra alle streghe. E i primi dollari presi alle streghe finiscono proprio in mano ai valletti afroamericani che lavorano nell’hotel di lusso dedicato ai benestanti WASP.

Le streghe, su un piano differente, è anche un perfetto meccanismo d’intrattenimento: la maestria di Zemeckis nel gestire i tempi, il ritmo, la suspense risiede nel suo incrollabile desiderio di sperimentare, ancora, sullo sguardo. E così la mdp cessa di essere uno strumento di riproduzione, con i suoi limiti fisici, quanto piuttosto l’occasione per far propria l’immagine e andare oltre il limite della bidimensionalità. Abbandonata la performance capture che rendeva la trilogia Polar Express, La leggenda di Bewoulf e A Christmas Carol pura teoria cinematografica, con Le streghe (ma anche con Benvenuti a Marwen) quello sguardo insufficiente di cui si parlava all’inizio diventa paradigma di un cinema altro, un cinema del possibile.
E a chi imputa a Zemeckis un impoverimento in quello che sicuramente è un film minore, andrebbe ricordato che in tutto il suo mastodontico percorso filmico, Zemeckis ha lavorato sempre sull’intersezione fra sguardo e metafora, storia e Storia, micro e macro. In pratica sul quel labile spazio che esiste fra l’occhio e l’immagine. Tale è anche Le streghe: un viaggio per ragazzi che può essere anche teoria cinematografica e sperimentazione narrativa.

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Robert Zemeckis Anne Hathaway Octavia Spencer Jahzir Kadeem Bruno Stanley Tucci Charles Edwards 106 minuti
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Rebecca

di Nicolò Comencini
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Attratto da una struttura narrativa che definisce una «matrioska di diversi generi racchiusi gli uni negli altri», Ben Wheatley ci offre la propria rilettura di Rebecca, la più celebre opera della scrittrice inglese Daphne du Maurier. Fatta eccezione per l’epilogo e alcuni dettagli che tratteremo in seguito, Wheatley sceglie di rimanere fedele al romanzo, ristabilendo anche l’intenzionalità del crimine di Mr de Winter, contrariamente a quanto accade nella pluripremiata versione di Hitchcock in cui l’omicidio di Rebecca, al fine di rispettare il codice Hays, viene spostato dalla sfera del dolo a quella della colpa.

Non estraneo all’ibridazione di generi narrativi, il regista di Kill List opta in questa pellicola per un’estetica espressionista, esaltando, talvolta al limite della credibilità, la dimensione emotiva degli eventi narrati. Dall’atmosfera irriverentemente glamour delle scene ambientate a Monte Carlo ai climax di tensione delle parentesi oniriche, fino all’intensificazione quasi smodata del pathos nell’ultima scena drammatica in cui Ms. Danvers (interpretata da una magistrale Kristin Scott Thomas), dopo aver messo a fuoco la tenuta di Manderley, si getta in mare per ricongiungersi metaforicamente a Rebecca, Wheatley realizza un pastiche stilistico senza rinunciare alla coerenza narrativa di fondo.
Sebbene la storia firmata da Du Maurier non possa essere catalogata sotto un’unica etichetta, è tuttavia innegabile la preponderanza della componente gotica, che si concretizza non solo attraverso il ricorso a una certo numero di tòpoi del genere, ma soprattutto grazie all’utilizzo di una serie di codici volti a trattare tematiche tabù. Rebecca possiede una forte dimensione autobiografica, e le sue pagine sono impregnate di understatement e sottotesti. In particolare, vengono a più riprese suggeriti interessi più che amicali tra alcuni personaggi femminili, riflesso di quello che l’autrice definiva le proprie «Venetian tendencies». Il film non manca di evocare queste allusioni, ma non coglie l’occasione per ripensarle e ampliarne la portata.

In entrambi i casi, la defunta Ms. de Winter, inizialmente presentata con la maschera della moglie perfetta secondo i canoni degli anni ‘30, è in realtà una donna libera e, in quanto tale, sovversiva. La sua forte identità queer rappresenta una forma di male puro agli occhi di Mr. de Winter, che Rebecca riesce però a tenere in scacco. A lei si contrappone l’anonima protagonista, pronta a tutto pur di riuscire a incarnare ciò che lo sguardo maschile desidera. Non v’è dubbio su quale delle due figure prevalga: Manderley, che, come suggerisce il nome, incarna un bastione del potere patriarcale, trasmesso di padre in figlio generazione dopo generazione, finisce in pasto alle fiamme, e il nome di Rebecca permea come fumo tutti gli spazi narrativi, mentre la nuova Ms. de Winter si rifugia in una romance illusoria, costruita su un crimine atroce.
Se però Du Maurier riesce a trarci abilmente in inganno, spingendoci, anche attraverso l’uso della narrazione in prima persona, a identificarci con l’ingenua eroina e a parteggiare per la realizzazione del suo sogno romantico, Wheatley fatica a ottenere lo stesso effetto. La protagonista della pellicola oscilla tra la naïveté e l’intraprendenza, ma il suo ruolo attivo nel mascherare il crimine del marito la priva di fatto della connivenza del pubblico. La scena conclusiva, carica di erotismo, in cui il personaggio interpretato da Lily James fissa dritto in camera con l’intento di mettere lo spettatore di fronte alla propria complicità, prima che il nome di Rebecca, accompagnato dal rumore del mare, riconquisti lo schermo, fallisce così il suo intento epifanico.

Con Rebecca, Du Maurier si serve abilmente dell’apparato gotico per costruire un sottotesto politico che fa luce sull’ipocrisia morale di una società più propensa a condannare una moglie libertina che un marito uxoricida. Wheatley sembra però più interessato all’eterogeneità della narrazione e alle sue potenzialità estetiche, e non riesce a sviluppare ulteriormente le risorse offerte dalla trama. Anche a causa della mancanza di ambizione nel ripensare una storia fortemente ancorata alla realtà sociale degli anni 30, il film risulta nel complesso abbastanza tiepido. L’impressione conclusiva è di essere di fronte a un prodotto che si inserisce coerentemente all’interno dell’offerta Netflix, ma che non spicca di certo nella filmografia del regista britannico. Per quanto non privo di pregi, quest’ultimo adattamento rischia purtroppo di deludere chi ha già visitato Manderley in passato, e di non coinvolgere chi ne oltrepassa i cancelli per la prima volta.

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Ben Wheatley Lily James Armie Hammer Kristin Scott Thomas 121 minuti
Uk 2020
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"Cult" e "100 serie tv in pillole" - guide di pop culture

di Matteo Berardini
testi movieplayer

«Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi», ancora e ancora. La citazione la conosciamo, è tra le più quotate di David Foster Wallace, ma certe verità sono talmente semplici, lineari, che possiamo ripeterle senza sciuparle, senza snobismi, sono troppo esatte per farsi sporcare. Perché parlare d’amore è parlare di fantasmi e viceversa, e quindi costruire un catalogo di ricordi, di fotogrammi e immagini cult, seriali, virali, è come tessere una costellazione di spettri, un tracciamento di affinità elettive. È questo carattere affettivo l’elemento che più di tutto accomuna Cult – I film che ti hanno cambiato la vita e 100 serie tv in pillole – Stagione 2, due testi editi da Multiplayer.it che in modi diversi raccontano e condividono la passione per le immagini, cinematografiche o seriali che siano. Al centro dei due libri, scritti in concerto dai curatori del sito Movieplayer Luca Liguori, Antonio Cuomo e Giuseppe Grossi, c’è quindi una grande affezione per l’audiovisivo ma soprattutto un profondo rispetto per la cultura pop e le sue possibilità comunicative e mitopoietiche. Per l’appunto, affettive.

Il primo dei due testi ruota attorno al concetto di cult, un’idea di film che differisce dalla classicità applicata alla storia del cinema. Come molti classici il film cult può subire una ricezione sghemba e sfocata al tempo della sua uscita, per rifarsi poi negli anni a venire, ma rispetto alle pietre miliari il cult è quel che film su cui, volente o nolente, si cuce una dimensione emotiva e culturale tale da renderlo oggetto di culto. Secondo gli autori, cult è quel film che «traccia un solco importante nella cultura popolare e quindi, di riflesso, nella vita di tutti noi», un oggetto che attraverso immagini, frasi, personaggi, diventa patrimonio di un immaginario condiviso. Questo senso feticistico di possesso è ben rappresentato dalla vignetta della fumettista Lorenza Di Sepio che apre il volume: una coppia di spettatori su un divano in cui la ragazza sfoglia il volume come un album di figurine, cantilenando «ce l’ho, ce l’ho, mi manca!».
All’interno del testo sono presenti 135 schede che presentano e analizzano i film selezionati attraverso un’introduzione critica e tre piccole rubriche (Cosa ci rimane, Scena cult, Backstage); la curiosità storica si alterna così alla rievocazione mnemonica, mentre collegamenti ipertestuali non scontati ricostruiscono alcune delle tante filiazioni interne all’industria culturale (come il legame diretto che c’è tra Snake Plissken e il Solid Snake del videoludico Metal Gear Solid di Hideo Kojima, o l’influenza del concept di Battle Royale sulle modalità di gioco multiplayer diffuse in tutto il mondo). Non mancano poi letture critiche ricercate (come quella dedicata alla Before trilogy di Richard Linklater) in una raccolta che attraversa continenti, generi e tecniche diverse, dall’animazione nipponica del capolavoro Akira all’umorismo caustico del nostro Amici miei, dall’ultraviolenza autoriale di Arancia meccanica all’immortale bromance poliziesca di Arma letale. Il tutto attraverso una veste grafica squisitamente pop davvero accattivante, capace di valorizzare gli elementi più iconici di ogni film rilanciando quell’affetto per le immagini che evidentemente soggiace a tutta l’operazione.

Sulla scia del precedente, anche la seconda stagione di 100 serie tv in pillole (seguito di un primo testo analogo) si presenta come almanacco collezionistico e guida a titoli da scoprire, riscoprire, ricordare. A comporre la selezione sono show celebri (più o meno vicini a noi, alcuni a tutti gli effetti già cult) ma anche serie meno fortunate, ingiustamente passate sottotraccia e a cui il testo dà la visibilità e lo spazio meritati. Anche qui l’alternanza e la varietà dei gusti è garantita, si passa da anime a serie network generaliste, da miniserie figlie della miglior quality tv a show prodotti e distribuiti dai colossi VOD. Come i più recenti The Mandalorian, The Boys o The Last Dance, tutti analizzati con piglio storico e critico attraverso schede e rubriche ludiche ma efficaci (Episodio memorabile, Effetti collaterali e altre), valorizzate anche qui da una veste grafica brillante, creativa e curata nel minimo dettaglio.

In conclusione, nell’affollato panorama di dizionari dedicati a cinema e tv, i due testi targati Movieplayer trovano un loro spazio in modo intelligente e non banale, configurandosi sì come strumenti utili ma anche come prodotti consapevoli del valore della cultura pop, e dell’importanza di parlarne in modo intelligente, appassionato, attento e comunque colloquiale.

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CINEMA E TEMPO - Terminator

di Saverio Felici
Terminator recensione film Cameron

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Per essere l'archetipica incarnazione action del film sul viaggio nel tempo, Terminator resta una riflessione sul tema a dir poco ambigua. Una cosa su cui lo stesso James Cameron sembra aver perso il focus, almeno a giudicare dalle modalità di produzione dei sequel, è proprio la peculiarità della sua intuizione primigenia; figlia di un sogno avuto dopo lettura di Ranxerox durante le riprese di Piranha II a Roma (come racconta la leggenda, e come è convintissimo Tamburini), la sanguinosa lotta di Sarah Connor non è infatti la reazione al disgregarsi della temporalità, né il contrattacco alle manovre battagliere del net inumano e postatomico. L'epica sci-fi è a suo modo una sovrastruttura; il drive di Terminator è quello di una persona indifesa (ragazze, bambini) di fronte all'avanzare di una minaccia inorganica inarrestabile. Frontale per definizione, dunque lineare - nulla da spartire con le manovre a tenaglia e i gorghi teorici di Tenet, nuovo grande polo action nella narrativa del time travel.

Stravolgere il passato arginandone gli effetti sul presente; il "paradosso del nonno" citato dal regista britannico ha fatto negli anni da base alle declinazioni più famose del filone. Le trovate filmiche per raccontare la contorsione del nastro di Moebius temporale sono tante, dai sempiterni universi paralleli che tutto risolvono, alla più diretta e visuale causa-effetto (era una delle trovate del sottovalutato Looper); ma nel primo Terminator, il dilemma è escluso dalla questione. Per Cameron, nonostante un fugace riferimento ai "futuri possibili" (scenario che la saga lascerà presto da parte in favore di un mesto e nichilista fatalismo), opporsi alla minaccia presente tramite l'intervento sul passato è illusorio: tutto esiste come già scritto, il Destino si ripresenta dopo essere stato investito, incendiato, fatto esplodere. In un certo senso, Terminator è quindi la negazione del Viaggio nel Tempo stesso – un tempo millenarista e non circolare, inscalfibile ai tentativi di deragliamento operati dal Cyborg, piegato a una volontà suprema semidivina (del regista, la storia, lo script) che provvidenzialmente azzera gli intenti del povero T-800.

Nel racconto di Cameron, i buoni diventano i guardiani di questa provvidenzialità, in missione per preservare la sequenza storica degli eventi. Una missione conservativa, a difesa dell'essere, contrapposta all'intervento riparatorio dal futuro solitamente trope del genere (fatto suo anche da Nolan). Sarah Connor e Kyle Reese non cercano di opporsi a una Apocalisse riconosciuta come inevitabile (nichilismo), ma sono anzi chiamati a tutelare lo svolgimento scritto di questa (fatalismo); in un certo senso, John Connor è l'Andrei Sator di James Cameron, personaggi cristologici la cui opposta lettura evidenza tutta la differenza tra i due autori.

Il punto in cui Tenet e Terminator si intersecano a sorpresa è altrove; sta nel mutuo racconto di una resistenza comunitaria, familiare, sentimentale, nei confronti dell'aggressione dello status quo perpetrata da una tecnologia avversa. Un cuore umano e umanista che, se da sempre è proprio di Cameron, stordisce ritrovare nell'inumano e anti-umanista Nolan. Questo Orologiaio mooriano solitamente legato ai propri personaggi come un biologo ai suoi scarabei sotto vetro, nel suo film più caldo si riscopre difensore dell'amicizia, della solidarietà, persino dell'amore (ovviamente frigido e asessuato, come suo standard); così, la disperata corsa temporale a ritroso diventa soprattutto una storia di cameratismo, sacrificio personale per la salvezza di una comunità in rovina. La preservazione di una essenza umana minacciata dalle manovre dell'inorganico: un tema parallelo a quello di Terminator, con un collegamento evidente nel chiasmo di protagonisti Hamilton-Biehn/Washington-Pattinson. Un cambio di passo bizzarro in un sottogenere per natura votato al cinismo, alla distruzione delle individualità (basti il paragone con Marker/Gilliam).

Ma se in Nolan la meraviglia dello sci-fi rappresenta l'ultima spiaggia dell'umanità a un passo dall'estinzione, nella poetica del primo Cameron (da sempre quella dello scontro a perdere tra le persone e la Macchina – sociale, scientifica, metafisica) il piegarsi a essa resta una mortale prova di hybris; è il motore dell'Apocalisse, che appartiene ai mostri, e di cui i protagonisti devono farsi custodi.

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James Cameron Arnold Schwarzenegger Linda Hamilton Michael Biehn 107 minuti
USA 1984
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We Are Who We Are

di Leonardo Strano
We Are Who We Are - recensione serie tv hbo guadagnino

Luca Guadagnino interessa sciogliere l’inquadratura per assolvere quest’ultima dalla ricaduta definitoria che può contraddistinguerla. Gli interessa cioè scrivere un dire per immagini, non un discorso, che rompa con le definizioni, un dire e non un detto che lasci libera, appunto sciolta, assolta, l’interpretazione, cioè la posizione rispetto all’oggetto interpretato – il mondo, il corpo, il segno in questione - assunta dalla camera da presa, dal suo occhio, dalla sua mano. Questa inquadratura sciolta, che è anche il farsi materia della scrittura in punta di piedi, sospesa, sempre allusiva, degli sceneggiatori Paolo Giordano e Francesca Manieri, è il punto di arrivo del linguaggio di una carriera, l’incrocio tra il presupposto ermeneutico del progetto estetico del regista - la dimensione critica dell’immagine, o, come ha scritto Roberto Silvestri, la sua natura «critofilmica»- e il tentativo fenomenologico di avvicinamento alla cosa stessa che Guadagnino insegue a ogni progetto da zero – frutto di una ricerca originale, di un modo proprio di misurarsi nello spazio delle cose, uno stare-tra-le-cose, infra, sempre in progressione oltre i discorsi definitori. È un risultato che, come conviene ai punti di rottura, ai punti in cui l’immaginario, il finzionale, si piega e si squaderna per dire del reale, è paradossale: grammaticale, perché pensato a fondo in termini di messa in scena, ma pregrammaticale perché appartenente a una naturalezza che sta all’opposto dell’artificio – il che potrebbe fare pensare a un altro paradosso, quello della diatriba Bazin-Godard sulla grammatica e il senso (siccome il cinema è cattura del tempo, l’espressione cinematografica fondamentale è il montaggio o il piano sequenza?). 

Un risultato che comunque proprio in virtù di questa pregrammaticalità apre l’immagine, la libera, e la unisce al mondo indefinito e indefinibile, al naturale che sta al di fuori, cioè la apre al negativo del fuori campo, ribaltando quest’ultimo, prima limite definitorio (positivo), nello spazio negativo verso cui l’immaginazione suggerita dall’immagine si protende. A che pro però, e pensando alla critica di che cosa? Come arriva Guadagnino a scegliere - perché alla fine è una faccenda di scelta - una posizione che annulla le definizioni dell’inquadratura e del suo limite, del suo contorno, come arriva, in fondo, ad annullare l’inquadratura? Il regista parte dal presupposto già citato, quello di una tensione ermeneutico-critica in atto diretta verso un oggetto: nel caso di We Are Who We Are l’oggetto sembra essere un’interpretazione cinematografica della ricerca identitaria, in particolare l’interpretazione che Maurice Pialat propone dell’identità ne Ai nostri amori, come si evince dal rebus dislocato tra le immagini (su tutti il nome della base americana dove la narrazione si svolge, M. Pialati). Guadagnino non pensa a Pialat come oggetto critico per attualizzarlo, per spiegarlo o tantomeno per scopiazzarlo, ma per confessare un legame genetico con la sua misura, cioè con la scelta della distanza da cui osservare l’evento identità, la decisione su come realizzare la finzione della messa in scena, e per trovarsi nella misura di un altro.

Ai nostri amori (Maurice Pialat)

Pialat in quel film raccontava gli squilibri identitari di una ragazza, la scoperta dell’eccedenza del suo desiderio rispetto alle definizioni del linguaggio della propria famiglia, attraverso una sensibilità in grado di «limitarsi a constatare», «tra partecipazione e distanza», «nell’intensità esistenziale delle scene, così naturali e così rigorose (il disordine vitale dentro strutture di fondo) e unite da sottili, veri legami» (Gianni Volpi). Guadagnino fa sua questa misura, fa suo questo discorso, soprattutto per quanto riguarda l’ordine naturalizzato, ma non lo copia, piuttosto si pone in continuità con esso e lo interpreta, lo legge e lo riaggiusta, lo modifica un poco, crea un disallineamento, un leggero strabismo. Procede in interventi con cui piano piano esce dalla misura di Pialat, cioè dal discorso che  quest’ultimo fa sull’identità, attraverso la misura stessa, come prevede il modello interpretativo, che genera un nuovo corpo dal corpo interpretato: lo si vede nell’uso del fermo immagine inceppato, che ne Ai nostri amori era la soluzione grammaticale conclusiva, e invece in We Are Who We Are è un elemento minimo ricorrente, un importante indicatore di reale («la realtà è dove si inceppa» per Lacan); lo si vede nel rapporto capovolto tra momenti vuoti di quiete delle nature morte e momenti pieni di azione e corpi, dove i primi raccontano il senso dei secondi; lo si vede nella comparsa dei primissimi piani che sfondano il controllo della distanza in momenti anticlimatici. Lo sforzo ermeneutico sulla misura di un’altra immagine produce così una nuova immagine, un nuovo ragionamento sull’identità, e questa è la controparte fenomenologica dell’inquadratura sciolta. Uscito dal discorso concettuale (grammaticale) su Pialat attraverso Pialat, Guadagnino è libero e incontra ora la “cosa stessa” avvicinandosi a essa: forte di una misura acquisita geneticamente e incarnata criticamente avvicina il mistero dell’identità. 

Come si posiziona il suo dire però? Come supera e concreta in una posizione il discorso sull’eccedenza del desiderio de Ai nostri amori? Proprio perché si avvicina alla “cosa stessa”, proprio in quanto libera, l’immagine di Guadagnino non pensa che al fondamentale, all’originario, alla libertà: cerca cioè senza sosta il cominciamento del proprio discorso, il punto di inizio, la prima parola, la prima immagine per cominciare, e per questo è un dire continuo e mai un già detto. In nome di questa ricerca dell’originario, la riflessione sul mistero del corpo e dell’identità si materializza in una messa in discussione del segno “soggetto” a favore dell’originaria coppia Io e Tu (Fraser e Caitlin, i ragazzi protagonisti): il primo è una costruzione arbitraria, mentre i secondi sono contestuali all’origine del mondo umano. La delegittimazione del primato del segno “soggetto” (che, almeno in sede di scrittura, rimanda alle teorie di Judith Butler) è un primo movimento negativo di avvicinamento al mistero dell’identità che consiste nel continuo sfumare di prospettiva tra i personaggi, nello scarto del punto di vista egologico sul mondo. È messo in gioco un diorama di attrazioni e tensioni gravitazionali che si rigira in un ballo di corpi desideranti, corpi sempre al limite tra il riconoscimento e la negazione, corpi che si strattonano per avere più potere, più dominio. L’incrocio tra le prospettive e l’assenza di un lato dominante scalza l’asse delle direzioni narrative obbligate e decide per la messa in opera di un’ambiente, di un contesto, nel senso di un luogo in cui si è, in cui i personaggi sono e vivono. Se si vuole si può leggere in questo indefinito intelletto agente distaccato dai corpi, etereo, una lettura dell’identità americana, idea disincarnata dal proprio territorio natio, software applicabile.

Questo momento negativo si ribalta in positivo quando si conferma un passaggio che i due protagonisti attraversano, quel passaggio che è l’Altro da sé. Fraser e Caitlin, che vivono gli stessi eventi da due punti diversi (i primi due episodi sono un grassetto di questo concetto), attraversano il mondo - Fraser nella propria epilessia vitalistica, Caitlin nel proprio dubbio iperbolico -, frantumano la loro soggettività abbandonandosi al contesto, trascinati dal desiderio di scoprirsi nel mondo (con un passaggio fondamentale nel quarto episodio), e poi ritornano a un sé. Un sé che però è aperto e pieno del mondo attraversato e si dispiega in un Io e in un Tu. Il sé non è il sé, io non sono io, noi non siamo noi, perché l’identità non è un palindromo perfetto: nel finale fuori dalla base-inquadratura, fuori dalla definizione, Guadagnino spezza i discorsi palindromici, monologici, di un soggetto che vede solo se stesso; il regista riconosce nella frattura di un sé che trova se stesso solo fuori di sé la prima parola, la prima immagine, che poi è idealmente anche l’ultima, per un discorso sull’identità. L’immagine di un sé che è nell’altro, e che acquisita questa consapevolezza anche gridando, oltre le affermazioni egocentriche, ad alta voce “io non esisto”, “noi non esistiamo”. È lì che sporge il corpo, l’identità, in un non-detto che è un ancora-da-dire, in un fuori campo che è una possibilità: di fronte al nulla del non esserci, è lì nella sporgenza eccedente che l’identità mostra una risorgenza. 

Così Guadagnino ha il coraggio di mettere in scena un esserci che ha conosciuto la contrazione del non-esserci, come si vede nelle ultime scene in cui si sofferma sugli spazi vuoti lasciati dai corpi che cambiano posizione. È così commovente la corsa di Fraser e Caitlin per Bologna, scandita dal John Adams di Two Fanfares for Orchestra: Short Ride in a Fast Machine, il loro capirsi finalmente, responsabili ognuno del segreto dell’altro, fuori tempo, in inquadrature che ormai non tengono più il peso del reale e si sciolgono in un sentimento, in una lenta gravitazione. È così commovente sentire, nel semplice vuoto delle colonne tra cui i due stanno sospesi, nella Storia, il suono del mondo che si schiude, la terra che si apre, la possibilità di un esistere plurale che si afferma senza negare niente. Nell’inquadratura sciolta in cui l’ermeneutica e la fenomenologia si guardano negli occhi la messa in forma scoppia di reale e il reale è reincarnato dalla messa in forma: l’estetico respira il fisico, il fisico l’estetico.

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Luca Guadagnino Jack Dylan Grazer Jordan Kristine Seamón: Chloë Sevigny Alice Braga Scott Mescudi 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
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CINEMA E TEMPO - Palm Springs

di Matteo Berardini
palm springs - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

«L’atteggiamento realista richiesto dal capitalismo dominante è fondamentalmente depressivo, […] ci attendiamo pochissimo dal futuro: non succederà mai niente di nuovo. Poi iniziamo a pensare che forse le cose che sono successe in passato non erano in realtà così importanti. E alla fine accettiamo che non è mai successo niente, né potrà mai succedere. Più la depressione si normalizza, più diventa difficile identificarla. Aspettative radicalmente ridimensionate si trasformano in normalità. Il tempo si livella».
Mark Fisher, In questo momento il nostro desiderio è senza nome

Premi play, stop, rewind. E di nuovo play. E ancora. E ancora. E ancora. Fino a quando?
Quello del giorno della Marmotta è un meccanismo temporale con cui tutti, più o meno consapevolmente, abbiamo a che fare. E non tanto per come, dal film di Harold Ramis in poi,  venga applicato con successo a diversi tipi di storia, che sia commedia romantica, fantascienza spaziale o indagine esistenziale. Il loop del giorno-che-si-ripete-e-ricomincia-all’infinito è infatti un falso movimento che ben fotografa la stasi routinària fatta di casa-lavoro-casa su cui è basata la nostra società, alveare di unità impegnate nel loro ciclo produttivo che si reitera sempre uguale a sé stesso. Questo valeva soprattutto al tempo dell’economia fordista, quella per intenderci delle grandi masse popolari assegnate a una certa fabbrica e a un certo ruolo da qui al resto della loro vita, intrappolate in prassi chapliniane disumanizzanti e sempre uguali a loro stesse. Era il regno della noia perpetua, dell’eterno ritorno dell’identico, e su quel terreno di alienazione e stordimento ha avuto gioco facile il tardo capitalismo che oggi, semplificando, definiamo neoliberale, un orizzonte di lavoro digitalizzato, delocalizzato, frammentato, le cui lusinghe promettevano libertà, emozione, maggior responsabilità e autonomia ma che di fatto hanno sostituito a un sistema statico e asfittico un movimento virtuale in cui tutto ciò che è solido svanisce nell’aria (Marshall Berman). Ad accusare la riscrittura di questi processi produttivi (e di qui sociali, culturali, collettivi) è la famigerata generazione Y, i millennials, i thirtysomething di oggi per i quali le aspettative e i desideri suscitati  e assorbiti dai modelli famigliari precedenti si schiantano solidamente contro i nuovi dettami del contemporaneo, che pretende da loro (da noi) flessibilità, adattabilità, impermanenza e performance costante. Il tutto, chiaro, col sorriso e l’entusiasmo sul volto. Ed è in quest’orizzonte di «aspettative radicalmente ridimensionate» che la metafora del loop temporale cambia segno sostituendo alla noia del certo l’ansia del virtuale: così arriviamo a Palm Springs, film Amazon che segna l’esordio di Max Barbakow ma che è soprattutto figlio di Andy Samberg, star televisiva del Saturday Night Live che lavora da anni sull’incertezza ontologica della generazione Y.

palm recensione

Perché è di incertezza e impossibilità di costruzione e realizzazione che parla Palm Springs, il cui loop temporale ben riflette quel senso di inconsistenza e sfiducia che attanaglia i trentenni di oggi, involontari protagonisti di un sistema neoliberista che scientemente risponde alle crisi del sistema disgregando certezze e prospettive. È l’eterno presente bellezza, un mondo in cui siamo circondati di impulsi digitali e confort tecnologici, informazioni compulsive e percezioni frammentate, in cui il tempo si livella normalizzando la narcotizzazione del desiderio e la depressione che soffoca ogni aspettativa di cambiamento. Perché sarà pure una rom-com dai toni brillanti e dalla narrazione sbrigativa, Palm Springs, un film che ruota su uno spunto estremamente valido ma che poi comunque ritorna con una certa pigrizia nelle maglie del genere, ma resta il fatto che nella sua narrazione a colori acidi e tempi (e volti) da sitcom televisiva traspare un ritratto accurato di una condizione esistenziale che è il risultato di un’incertezza sistemica. Non poter costruire nulla di solido diventa vivere l’esperienza di un giorno che si ripete sempre uguale a sé stesso, una giostra a cui il Nyles di Samberg reagisce disinnescando ogni aspettativa, ogni  desiderio profondo, adagiandosi su quell’orizzonte di piacere fatto di nichilismo a buon mercato e finto distacco per cui se nulla è reale che tutto sia lecito, tanto da qui non c’è salvezza, non c’è via d’uscita. I due protagonisti di Palm Springs vivono così una vita sterile che giornalmente resetta ogni cosa, appiattisce ogni sforzo, disgrega ogni conquista, lasciando posto a un edonismo fine a sé stesso in cui il consumo rischia di diventare l’unica azione capace di dare ancora un’identità permanente. Ma oltre questo, nella paura che ha Nyles di interrompere il loop nel momento in cui gliene viene data la possibilità, Palm Springs diventa anche il primo vero film di genere sul Lockdown; perché anche delle sbarre e dei limiti ci si può innamorare, devianza di una sindrome di Stoccolma che ci porta a desiderare che il nostro isolamento forzato perduri perché in questo modo restiamo a riparo dal mondo e dalla friabilità di quel che ci attende là fuori, dove costruire per farsi distruggere sembra diventare una legge di mercato.

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Max Barbakow Andy Samberg Cristin Milioti J.K. Simmons Peter Gallagher 90 minuti
USA 2020
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