Decalogo - Uno

di Paolo Di Marcelli
Decalogo 1 - Point Blank

È un Dio punitivo, spietato e vendicativo quello del primo episodio del Decalogo, la celebre e monumentale serie antologica che Krzysztof Kieślowski scrisse (insieme a Krzysztof Piesiewicz) e diresse per la tv polacca tra il 1988 e il 1989. Talmente punitivo, spietato e vendicativo che forse neanche esiste: le macerie che lascia dietro di sé, il dolore e soprattutto la più odiosa tra tutte le morti, sarebbero allora da imputare a un mix di paradosso e hybris greca, un destino beffardo che colpisce duro su ciò che la vittima designata ama di più, ovvero l’affetto più caro (l’unico figlio) e la propria ragione di vita (la tecnica, qui nelle vesti della matematica e dell’informatica).

Krzysztof è un fisico e professore, fervente sostenitore delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale. Nonostante quest’ultima, a fine anni Ottanta, poteva essere soltanto teorizzata, almeno nella forma e nella sostanza in cui la intendiamo oggi, il maestro polacco la concretizza con un improvviso e sorprendente guizzo profetico nelle parole (e nei desideri) del protagonista, attraverso uno scorcio di lezione universitaria: rivolto ai suoi studenti, fra cui si nasconde il figlioletto Pawel che pende dalle sue labbra, l’uomo arriva a immaginare che in futuro si possano inventare calcolatori talmente potenti e capienti da offrire traduzioni simultanee. La lingua universale con l’aiuto delle macchine, quindi, e non grazie alla fratellanza divina. Una delle tante blasfemie di Krzysztof, che ha insegnato a Pawel, curioso e geniale quanto il padre, a utilizzare a meraviglia entrambi i computer di casa, con cui si divertono a risolvere problemi matematici che contemplano misure come tempo, peso, temperature e velocità.

Uno dei motivi per cui Kieślowski vantava come estimatori entusiasti altrettanti maestri come Stanley Kubrick (che adorò il Decalogo, data la «rarissima capacità di drammatizzare le sue idee piuttosto che raccontarle solamente») era la capacità di porre enormi questioni filosofico-esistenziali (in questo caso, ovviamente, anche teologiche) con disarmante disinvoltura. Come le domande tanto ingenue quanto cariche di senso che Pawel rivolge al padre, appena tornato a casa, dopo essersi imbattuto nel cadavere di un cane (la vicenda è ambientata durante il rigido inverno di Varsavia, con temperature fino a meno venti gradi sotto lo zero). Perché si muore? Cos’è la morte, e cosa avviene dopo? Ma soprattutto, cosa rimane? E l’anima, cos’è? Cosa mai potrà rispondere un uomo di scienza?

decalogo1 recensione


Di tutt'altro avviso sua zia, la sorella di Krzysztof, cattolica osservante, che invece lo esorta a credere e fidarsi di Dio. «Io e tuo padre abbiamo ricevuto la stessa educazione religiosa, poi lui crescendo ha cambiato idea». Un vero e proprio tradimento, dunque, che il Signore non potrà perdonare. Se alle prese con i dubbi di Pawel i modi di suo padre sono evasivi e impacciati, quelli della zia tendono a permeare il sacro di un amore più che terreno - «Dio sta anche in un piccolo grande gesto come l’abbraccio».
Ma se Dio è infallibile, la tecnica dell’uomo no. Pawel morirà. Proprio per colpa dei calcoli errati del padre. O nonostante quei calcoli fossero esatti. Laddove la Bibbia, un attimo prima che Abramo sacrifichi suo figlio Isacco, racconta l’intervento divino che scongiura l’infanticidio perché la fedeltà a Dio è ormai del tutto cieca, il Dio di Kieślowski – ovvero Kieślowski stesso – esige al contrario la più dolorosa e tragica delle devozioni. Con l’aiuto del computer, l’uomo aveva misurato esattamente lo strato di ghiaccio che sovrastava il fiume Vistola, per poi regalare al figlio un paio di pattini fiammanti.

Furia divina o beffa? Imponderabilità o disegno soprannaturale? In questo primo episodio terreno e ultraterreno si confondono. Se al piano strettamente narrativo sembra affidata la visione rigorosa e religiosamente severa della storia, quello puramente visivo sembra consegnarci un approccio più umano. Fin dall’inizio, in cui la croce altissima, inquadrata dal basso - o un insieme di croci una sopra l’altra, proprio a significare una moltitudine di figli di Dio – altro non è che lo scheletro di cemento che sorregge il condominio teatro di questo e di altri mediometraggi della serie. Così come i piccioni, e non le colombe - ma che si librano in aria proprio come quest’ultime –, risalgono questa grande pseudo croce fino alla finestra dell’appartamento dei protagonisti. E, sempre all’inizio, lo sguardo di un clochard dalle fattezze cristologiche indirizzato, non a caso, verso lo strato di ghiaccio che non sopporterà il peso del bambino. Una presenza costante i cui occhi pare suggeriscano una saggezza premonitrice.

Ed è, forse, proprio allontanandoci dall’interpretazione letterale che possiamo recuperare il fuoco sacro, sì, ma disperatamente laico del cineasta polacco. Un fuoco che ci ricorda di non rassegnarci mai, se per rassegnazione si intende il comfort di valori, certezze e abitudini docilmente forniti dalla quotidianità, dai successi raggiunti, dalle illusioni e da ciò che conosciamo di più. Se la prima delle dieci parti del capolavoro di Kieślowski ci illumina sul senso della vita declinato nel rapporto padre-figlio/Dio-Uomo, scienza e fede, tecnica contro forza divina, possiamo probabilmente annoverare anche un manifesto programmatico nei confronti dell’Arte e quindi del Cinema stesso, unico vero credo dell’autore e di noi cinefili, che ci ricorda ogni giorno come lo stupore nei confronti dell’inimmaginabile filmico, spesso angosciante e irriducibile, sia alla base di una continua e necessaria ricerca in bilico tra introspezione e altro da sé.

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Krzysztof Kieślowski 55 minuti
Polonia, 1988
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"Il silenzio" di Don DeLillo

di Emanuele Di Nicola
Il silenzio di Don DeLillo

Le cose semplici, descrittive: che fine avevano fatto?

Dopo il rumore bianco, il silenzio senza colore. Don DeLillo, a 84 anni, nel suo nuovo piccolo romanzo immagina lo spegnimento improvviso di tutta la tecnologia digitale: schermi, TV, computer, smartphone, e-mail. Il silenzio, appunto. Lo stesso titolo de Il silenzio di Ingmar Bergman, quello di due sorelle agli antipodi costrette in una città sconosciuta. E lo stesso de Il grande silenzio di Philip Gröning, documentario sui monaci certosini che hanno fatto il voto di non parlare. Silenzi diversi, tutto sommato affini, che dialogano tra loro. Ma il silenzio di DeLillo non è quello dell’uomo, bensì del mondo intorno da lui costruito, e non significa non parlare, anzi.

Al centro de Il silenzio (Einaudi, pagine 112, euro 14) troviamo cinque personaggi: Jim e Tessa, una coppia in viaggio su un volo per New York, Max e Diane, un’altra coppia, che li aspetta in casa in compagnia di Martin, studente di fisica ex allievo di lei, per vedere il Super Bowl. La storia è ambientata nel 2022: è stata scritta prima della pandemia di cui contiene un cenno, DeLillo non chiama la COVID-19 per nome, non ne ha bisogno. C’è solo questo: «Abbiamo ancora freschi nella nostra mente i ricordi del virus, della peste, delle code infinite nei terminal degli aeroporti, delle mascherine, delle vie cittadine completamente vuote». Perché il punto è un altro: arriva il blackout senza motivo. L’aereo è costretto a un atterraggio d’emergenza e il gruppo riunito per vedere la partita si ritrova davanti a uno schermo nero.

A quel punto lo scrittore americano allestisce un kammerspiel con brevi esterni, imperniato su due ambienti (l’aereo - la casa), passando fluidamente dal pensiero dell’una all’altra delle sue figure. E dal dialogo, che è il contrario del silenzio: Martin comincia a citare il manoscritto di Albert Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale, sua ossessione, sottolineandone la componente materica, la grana della carta e l’inchiostro delle lettere, riportando quindi alla sostanza tangibile dello “scritto a mano”, non a macchina né al computer. E lo stesso Einstein fu autore della famosa profezia sulla quarta guerra mondiale che, dopo la terza, verrà combattuta con pietre e bastoni. Il racconto omette l’esterno: quando Max azzarda l’uscita evita di riportare lo stato delle strade, possiamo immaginare un’apocalisse zombie della tecnologia, oppure una peste alla Edgar Allan Poe (d’altronde Diane chiama “peste” la SARS-CoV-2), ma senza la maschera della morte rossa, nessuno entrerà nella casa che, ecco il vero orrore, resta abbandonata a sé stessa. Al contrario dell’abitacolo della limousine di Cosmopolis, che per il miliardario Eric diventa oblò verso l’esterno, qui non si vede nulla, non abbiamo dati, restano occulti per noi e per i personaggi.

Cosmopolis di David Cronenberg

La chiave de Il silenzio infatti non è la catastrofe, ma la reazione dell’uomo alla catastrofe: prima di conoscere il virus, DeLillo già immagina che non sarà questo l’evento definitivo ma il successivo, la fine della tecnologia che quotidianamente ci governa, da cui ci facciamo dominare. Se le persone non possono più camminare per strada guardando il cellulare, però, non sapranno più cosa guardare. Ecco che lo spiazzamento dei personaggi trova il simbolo in una breve notazione mentale: «Le cose semplici, descrittive, che fine avevano fatto?». Già, dove sono finite? È possibile vivere senza? Nell’incipit Jim legge in automatico le scritte che scorrono sul display dell’aereo, anche in francese, perché non importa la lingua, conta solo la meccanica dello scroll. Poi Max improvvisa una telecronaca privata del Super Bowl che non vede, un racconto immaginario in grado di cambiare voce e tono, perfino di enunciare la pubblicità. Il silenzio costringe alla parola: perché l’uomo, privato del suo aspetto compilativo che oggi ricopre tutto, deve affrontare la vera tragedia, il confronto con se stesso. La fine delle macchine. Tornare a pensare. Pur di non farlo, si rifugia nella robotica degli schermi ormai dissolti e prova a continuare quel mondo.

Nel racconto Modulazione, l’autore premio Pulitzer Richard Powers evoca un virus che si diffonde attraverso la musica, un brano inascoltabile infetta tutti i dispositivi, cuffie e cuffiette: «Entro quarantotto ore molte, molte persone sarebbero andate in giro con i loro auricolari senza filo nelle orecchie, i loro dispositivi multimediali da miliardi di dollari, bloccati. La musica personalizzata non sarebbe mai più stata sicura. Le persone avrebbero ricominciato a cantarsi le canzoni a vicenda». Se in Powers con la fine della musica digitale le persone ricominciano a cantare, in DeLillo il concetto viene perfino esteso: devono ricominciare a pensare e parlare. Ma questo è ormai impossibile.

Modulazione di Richard Powers

Il silenzio si avvita così in una deriva paranoica che mette in dubbio ogni cosa, qualsiasi superficie che rifletta l’immagine. Perfino uno specchio: «– Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti, – diceva Martin. – La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione?».
L’oscuro scrutare di DeLillo, Philip Dick del contemporaneo, è in grado di guardare oltre il presente e rivolgersi al prossimo futuro: uno schermo nero senza più immagine sarà la fine del mondo. Fosse un film, potrebbe girarlo Abel Ferrara, quello di 4:44 Last Day on Earth. Fosse reale, al tempo delle piattaforme sarebbe anche la fine del cinema. Non potreste leggere nemmeno questo articolo.

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Notizie dal mondo

di Matteo Marescalco
News of the world - Recensione film Greengrass

L’ultimo progetto diretto da Paul Greengrass sancisce un netto cambiamento nella costruzione delle immagini da parte di un regista solitamente noto per lavorare sul linguaggio solido e collaudato del reportage documentaristico – shaky camera, montaggio serrato e adesione ferina e tattile al reale che si vuole mediare e ricostruire. In Notizie dal mondo (distribuito da Netflix), Greengrass abbraccia un percorso molto più lineare e, per certi versi, circolare del solito. A rappresentare due stili di vita opposti sono l’ex capitano dell’esercito confederato Jefferson Kyle Kidd, che viaggia di città in città per leggere ad alta voce le ultime notizie dal mondo pubblicate sui giornali, e Johanna, orfana di una famiglia colonica sterminata dagli indiani Kiowa e poi adottata dalla tribù. Deciso ad accompagnare la bambina presso alcuni suoi zii nella zona nord del Paese, Kidd partirà in un lungo viaggio e attraverserà un territorio selvaggio, pericoloso e ferito nel corpo e nell’animo.

Non è un caso che, in occasione di una sequenza particolarmente placida in cui Kidd e Johanna provano a dare vita a un vocabolario comune che riesca a sintetizzare le loro sensazioni basilari, i due si trovino a riflettere sui concetti di linearità e circolarità. Notizie dal mondo è un film incentrato sulle panoramiche e sulla progressione storica: sono i sentimenti veicolati dalla linea retta e dalla forma del cerchio a esprimere meglio il bagaglio culturale su cui è costruito questo ultimo film di Greengrass in cui, per andare avanti e curare le loro ferite collettive e individuali, gli esseri umani devono aprirsi al mondo e accogliere gli altri.

Questa prima incursione nelle atmosfere western da parte del regista di Bourne può contare sul volto empatico di Tom Hanks, che incarna con credibilità un personaggio dai principi morali saldi, portatore silente di un dolore incancellabile provocato dalla guerra e, soprattutto, dalla perdita della moglie. Per un cinema così umanista, il volto di un interprete del genere è imprescindibile e rappresenta la garanzia dell’efficacia di un racconto incentrato sul processo democratico statunitense che ha condotto all’integrazione degli Stati del Sud. Se è inevitabile rimandare a Sentieri selvaggi, altrettanto è il richiamo all’America ignorante, becera e violenta di oggi al suono di «Texas first!». Oltre a seguire la parabola umana individuale di Johanna e Kyle Kidd, il percorso di Notizie dal mondo assurge a simbolo di una guarigione collettiva: è il potere dello storytelling a curare le ferite di un corpo (sociale) oltraggiato al cui interno prosperano i germi dell’estremismo nazionalista.

Risiede in una volontà taumaturgica e lenitiva la necessità di un ritorno sentito e autentico a una comunità umana e al tessuto familiare, legami che, però, da soli non bastano. La forza per cambiare e per capovolgere il populismo contemporaneo non può che derivare dalla consapevolezza del carattere eterogeneo di ciò che ci circonda e dalla conoscenza delle esperienze altrui. Soltanto rifiutando di chiudersi nel circolo vizioso di un’alienazione sociale ostinata e abbracciando un punto di vista panoramico è possibile intraprendere il rettilineo del progresso storico e sociale.

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Paul Greengrass Tom Hanks Helena Zengel Elizabeth Marvel 106 minuti
USA 2020
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Terrore alla 13ª ora

di Alessio Baronci
Terrore alla 13° ora - dementia 13 coppola recensione film

Nel 1962 Roger Corman si ritrova per le mani ventimila dollari avanzati dalla lavorazione de I diavoli del Grand Prix. Vorrebbe usarli per girare un progetto in proprio ma poi decide di investirli per sostenere l’esordio del suo giovane assistente, l’allora ventiquattrenne Francis Ford Coppola. Terrore alla 13ª ora (in originale Dementia 13) nasce qui, nutrito, certo, dal tipico senso dell’avventura di Corman ma anche da un inusuale intuito imprenditoriale, forse fuori posto nel suo cinema di confine, che porta lui e Coppola a inseguire il successo di Psycho con uno script che coinvolge una misteriosa famiglia aristocratica, il fantasma di una bambina morta annegata, un feroce assassino e i tentativi della giovane Louise di mettere le mani su una cospicua eredità. Il risultato è un’opera prima che si muove in una zona contraddittoria, tra i prodromi anarchici della New Hollywood e un’osservanza quasi maniacale delle regole di quello studio system che Corman pareva contrastare; un perimetro su cui sarà bene fermarsi a riflettere un momento, per meglio cogliere la natura chiaroscurale dell’opera e del periodo.

Se è indubbio il ruolo storico e innovativo della Corman factory, lo scarto sintattico che i suoi film offrono nei confronti del cinema classico, è altrettanto vero che il Sistema Corman, dal punto di vista produttivo, mostri diversi spazi opachi. All’inizio degli anni ’60 il cinema di Corman è infatti diventato un brand, un insieme di prodotti accomunati da approcci, scelte, spunti, idee ricorrenti che gli spettatori amano ritrovare in ogni sua pellicola. Roger Corman agisce dunque, nel caso di Terrore alla 13ª ora, come un executive, un’entità che plasma i progetti sostenuti all’insegna di un’estetica riconoscibile, capace di garantirgli continuità e fidelizzazione da parte degli spettatori. Da questo punto di vista, tra l’approccio di Corman e quello di un responsabile di uno Studio di quegli anni, non ci sono troppe differenze. L’esordio di Coppola rientra pienamente in questo meccanismo e risulta quindi un film di Corman per procura; non stupisce che il produttore sarà insoddisfatto del girato finale e incaricherà il giovane Jack Hill di alcuni reshoots.

Fin dal primo giorno di riprese il futuro regista de Il Padrino si ritrova dunque a contatto con una griglia definita di spunti e strutture in cui muoversi, ma decide coraggiosamente di lavorare tra le maglie della sceneggiatura di ferro alla ricerca di un suo stile. Ne risulta un film che declina in maniera personale il gotico cormaniano attraverso un inedito filtro di desolazione, optando ad esempio per una sequenza iniziale straordinariamente moderna, giocata sul silenzio e sull’indifferenza della natura verso le faccende terrene. Nel momento in cui si ritrova costretto a giocare con i cliché del genere, come il brand Corman gli impone, tratta poi l’orrore come un’entità tangibile, concreta, legata alla sfera psicoanalitica, e in questo senso colpisce quanto il film sia, almeno nella sua prima parte, uno straordinario esperimento di metatestualità, pronto a svelare l’artificiosità dei meccanismi del genere e a mostrare le conseguenze delle loro suggestioni sul pubblico. Non solo. Il giovane esordiente, a tratti, riesce addirittura a evadere dalla gabbia di Corman. Nella sequenza subacquea che coinvolge Louise, ad esempio, Coppola mutua l’approccio alla messa in scena e la gestione dei tempi dai corti di sexploitation con cui si è fatto le ossa, ignorando le “buone pratiche” del suo produttore. Al contempo, nel momento in cui dialoga con la tradizione, il regista spesso ignora Corman e opta piuttosto per dei riferimenti più personali, spostandosi tra il Dracula di Bram Stoker (in anticipo di trent’anni rispetto all’incontro “ufficiale” con il vampiro) e il cinema di Mario Bava, a cui Coppola forse guarda quando spazializza le sequenze degli omicidi, alla ricerca di un’atmosfera contemplativa.

Terrore alla 13ª ora colpisce dunque per la grana contemporanea che lo anima, tanto linguistica quanto produttiva. Coppola, all’esordio, pare costantemente al di là e al di qua di una linea, tra il regista operaio dello studio system e il prototipo dell’auteur ribelle dallo stile riconoscibile della New Hollywood, risolvendo la dicotomia tra i due ruoli con una sintesi consapevole e autonoma che anticipa la figura dell’autore ingaggiato, oggi, da major come Warner e DC per rinverdire i propri franchise; il tutto mentre Corman inaugura una certa accezione di executive che resiste, invariata, a più di sessant’anni di distanza. Il film dimostra, in sostanza, quanto il cinema esterno agli studios e quello ortodosso condividano in realtà uno spazio comune più ampio di quanto sembri, una dimensione che, a margine, perdura, rinnovata, nel cinema degli ultimi vent’anni, come si è già intravisto e come dimostrano realtà commerciali come la Blumhouse. L’archiettura è sempre la stessa, a cambiare sono le nicchie di mercato più o meno ampie o i target a cui ogni prodotto fa riferimento.

Il primo, promettente lungometraggio di Coppola invita a una ripensamento del nostro dialogo con il prodotto filmico, e conferma che la vera rivoluzione della dimensione cinematografia avviene quando una mente aperta prova a ripensare da zero una grammatica di riferimento e guarda con curiosità alle sue scoperte, al di là dei finanziamenti, delle ingerenze, del volere degli spettatori.

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Francis Ford Coppola William Campbell Bart Patton Luana Anders 75 minuti
USA 1963
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Una donna promettente

di Nicolò Comencini
Promising Young Woman - recensione film

Una donna promettente (Promising Young Woman), primo lungometraggio dell’attrice e sceneggiatrice britannica Emerald Fennel (Killing Eve, The Crown), è finalmente approdato nei cinema e sulle piattaforme on demand statunitensi dopo una lunga attesa, mentre l’uscita nelle sale italiane è attualmente prevista per l’11 marzo. La pellicola riscrive le regole del sottogenere thriller rape & revenge, infrangendone i postulati e sviluppando, dietro un’estetica sfrontatamente pop, un discorso complesso e articolato su vittime, stupratori e complici.

Il film racconta la parabola inversa di Cassie (Carey Mulligan), una giovane donna che abbandona la promettente carriera medica in seguito alla morte dell’amica Nina, suicidatasi dopo essere stata violentata da un compagno di corso (in rottura con i precetti del genere, Fennel si affida alle statistiche, secondo le quali in otto casi su dieci gli stupri vengono perpetrati da conoscenti della vittima). La sete di giustizia della protagonista si traduce inizialmente in un gioco perverso volto a smascherare i predatori sessuali nei locali notturni, tuttavia la sua rivalsa non si basa, come spesso accade, sulla legge del contrappasso, ma su una dinamica che fa leva sul rovesciamento del ruolo della vittima, che passa all'accusa esponendo il colpevole alla miseria delle sue stesse azioni.

Travestendosi a tratti da commedia romantica, condita da slanci comici e post-ironici, Promising Young Woman inganna lo spettatore e lo acquieta avvolgendolo in un mondo rassicurante, fatto di arredamenti kitch, brani pop e smalti colorati — una post-adolescenza indie e spensierata, riflesso di una società che si crogiola in vanità estetiche mentre nasconde lo sporco sotto il tappeto. Col procedere del racconto però il film si rivela un cadeau empoissonné, e dagli sfondi pastello emerge poco a poco una realtà ben più cruda e drammatica che solo Cassie — al pari dell’omonima figura mitologica — sembra in grado di (pre)vedere. Sola di fronte a una collettività che sminuisce, nega o si disinteressa all'accaduto, Cassie si trova ad essere l'unica che possa vestire i panni dell’angelo vendicatore, procedendo a un regolamento di conti sistematico con le persone implicate nello stupro di Nina.

Il rifiuto di mostrare lo stupro sullo schermo è il secondo principio cardine del genere infranto da Fennel; nel rape & revenge infatti è tipica una rappresentazione grafica della violenza, scelta che, dietro la presunta necessità di catalizzare l'empatia spettatoriale legittimando la sete di vendetta dell'eroina, ha spesso assecondato e soddisfatto il desiderio voyeristico del pubblico. Scegliendo di non filmare la violenza, Fennel rivela quindi come le nuove attenzioni attivistiche e modalità discorsive affermatesi negli ultimi anni stiano modificando nel profondo la sensibilità di quello stesso pubblico rispetto alle tematiche della rappresentazione e della violenza di genere. In quest'orizzonte di silenzio infranto avviene quindi un cambio culturale, per il quale lo stupro non è più solo trauma individuale ma anche ferita collettiva; in questo senso Cassie diviene un archetipo in cui possono riconoscersi tutte le vittime, dirette o collaterali, della rape culture e dei suoi principi di omertà e di solidarietà distorta.

Tuttavia, per mettere fine a questa spirale di odio e intraprendere un percorso di guarigione che possa essere sia individuale che collettivo, è essenziale che i colpevoli si riconoscano come tali e il crimine venga pronunciato con il suo nome. Non è un caso quindi che, nelle quasi due ore di film, la parola "stupro" non venga mai pronunciata, e di fronte al rifiuto da parte dei responsabili le vittimi si trovino impossibilitate a riassemblare il proprio sé frammentato. Davanti a questo muro di omertà e assenza di empatia un ulteriore sviluppo drammatico, per quanto scioccante, diventa inevitabile; Cassie riesce sì ad avere giustizia - affidandosi paradossalmente allo stesso sistema giuridico e poliziesco di cui il film sembra precedentemente denunciare l’inazione e la corruzione - ma il prezzo pagato è troppo alto perché si possa continuare ad accettarlo.

Lontano dall’essere dogmatico o dal voler fornire risposte definitive, Promising Young Woman è un film volutamente ingannevole, provocante e destabilizzante, che riesce nel suo intento di interrogare la coscienza collettiva, alimentando il dibattito attuale, doloroso e necessario, sulla cultura dello stupro, le sue violente manifestazioni e drammatiche conseguenze.

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Emerald Fennel Carey Mulligan Bo Burnham Alison Brie Clancy Brown Jennifer Coolidge 113 minuti
USA 2020
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Malcolm & Marie

di Matteo Berardini
Malcolm e Marie - recensione film Levinson netflix

Durerà pochi giorni – giusto il tempo che ci vuole prima che la prossima uscita streaming catalizzi la sua quota settimanale di attenzione mediatica, dentro quel ciclo ipertrofico e surriscaldato che in tempi di on demand ed emergenza sanitaria sta diventando la visione e il dibattito collettivo riguardo film/serie tv – ma intanto è tutto un Malcolm & Marie. Un susseguirsi di plausi, rigetti, nervosismi e innamoramenti per un film che ci ricorda come il cinema possa ancora fare rumore, alimentando letture divergenti, schieramenti, controversie, nonostante la visione a confinamento salottiero da smart tv oled 55 pollici e divano.
Del resto nel suo piccolo Malcolm & Marie fa già la storia, in quanto primo film hollywoodiano ad essere ideato, scritto e girato in piena pandemia. Interrotte giocoforza le riprese della seconda stagione di Euphoria, Sam Levinson lavora solo con due attori e una location, set in quarantena e isolamento della crew, tra controlli quotidiani della temperatura e costumi e trucco affidati direttamente ai due protagonisti, John David Washington e Zendaya, anche produttori. Sembrerebbero le condizioni ideali per un film cassavetesiano, analisi della vita di coppia in andamento teatrale nata da un ambiente di lavoro condiviso e isolato, ma le scorciatoie critiche hanno le gambe corte perché Malcolm & Marie è un film che rispetto a quel magistero umanista e realista va da tutt’altra parte, saturando l’immagine e lo sguardo di costruzione autoriale, estetizzante, per riflettere anzitutto sull’ego e sulla sua forza centripeta, magnetica, che sempre si infiltra nelle relazioni e negli affetti, nel vedere e fare cinema, e lo scrivere. Critica compresa.

Malcolm & Marie lavora sull’interpolazione reciproca di più livelli – relazione/lavoro, affetto/dipendenza, amore/tossicità, io/l’altro – ma soprattutto intreccia la crisi di coppia al dibattito culturale inerente l’industria cinematografica e la sua interpretazione critica. In entrambi i casi l’ispirazione è autobiografica – Levinson parte dal ricordo in cui, alla premiere del suo Assassination Nation, si scordò di ringraziare la moglie, profondamente coinvolta nel processo creativo, e lo stesso film suscitò su L.A. Times le stroncature che, reinterpretate, sono alla base delle sfuriate di Malcolm – e l’intrecciarsi delle due dimensioni è certamente cerebrale, artefatto, come se tutto il film divenisse un grande laboratorio d’analisi in cui il l’autore si diverte a mettere in scena sé stesso, esasperando difetti e attitudini sul crinale tra autocritica e indulgenza. Ma limitare il film a questo sarebbe accontentarsi di interagire con il cosa viene mostrato piuttosto che con il come, perché Levinson è parecchio chiaro riguardo il modo in cui intende il rapporto tra autenticità e finzione, e Malcolm & Marie è tutto giocato sull’inspessimento del filtro, della costruzione estetica, sul peso specifico dello sguardo che nel prosieguo del racconto si decostruisce, si posa, allentando la presa barocca sull’immagine affinché traspaia via via un maggior grado di verità. Levinson, convinto che proprio attraverso un processo di costruzione stilizzata dell’immagine e suo progressivo svelamento si possa arrivare, oggi, all’autenticità, a quei rapidi momenti mercuriali in cui qualcosa di universale viene creato e messo in scena, affinché possa riverberare, familiare, nell’occhio di chi guarda, si muove certo su un terreno rischioso – e tra discorsi critici e relazionali si getta anche felice, e provocatoriamente, nelle faglie più instabili del contemporaneo – ma non si può negare che nel corso del processo riesca magnificamente a catturare l’oscillamento ondulatorio del conflitto amoroso, il fatto che due persone scisse tra contrasto e attrazione, costrette nel lockdown psichico e fisico di una casa che è prigione di vetro dispersa nel nulla, creino un campo magnetico di intensità emotiva così spessa da diventare pressoché visibile, percepibile, come elettricità nell’aria che innesca pelle d’oca e respiro pesante.

malcolm marie

Quella tra Malcom e Marie è una relazione in cui convergono molti temi che oggi seguiamo con particolare e rinverdita attenzione, dallo squilibrio generazionale tra i partner al ricatto affettivo, dalla tossicità egomaniaca al narcisismo insicuro e solipsistico, ed è evidente che il personaggio di Malcolm in particolare è l’elemento critico della situazione, ma al netto di una certa ingerenza autoriale quel che ne esce è un film di rara potenza sentimentale in cui l’ego viene messo al muro e svelato in tutti i suoi bisogni infantili, insicurezze ataviche e rivendicazioni mai pronunciate. Malcolm & Marie è la crisi della comunicazione, il dolore e la rabbia di due amanti che falliscono nell’ascoltare ed esprimersi all’altro, ma attraverso il personaggio di Malcolm – che sì, è avatar di Levinson e riflesso esacerbato che si sfoga in modo ridicolo ma intanto quel che vuole dire, praticamente con nomi e cognomi, lo dice lo stesso, e sarebbe stato meglio essere più sottili, meno egomaniaci a propria volta – è anche attacco a tutto un apparato di pensiero e di critica che cavalca l’impegnata istanza intellettuale del momento piegando a quell’interpretazione ogni gesto artistico. Un punto di vista limite, per di più espresso da un regista bianco tramite il corpo sovraeccitato di un attore nero, ma, appunto, è questione di cosa e di come, e le accuse risibili di whitesplaining possono sorgere solo là dove si considerano i due attori-produttori utili idioti e la costruzione filmica un accessorio irrisorio; perché il senso del film è tutto nello sguardo sbeffeggiante di Zendaya – magnifica e prossima diva, che via via smonta la sua allure da star andando alla carne e al sangue del proprio dolore, come se il corso della serata, e del film, altro non sia che il dismaking di un spot Gucci. È lì che troviamo tutta la consapevolezza e la genuinità che ci serve per ricevere un film del genere, che rischia diverse volte di sbandare nell’autoreferenzialità e nel ricorso tattico e vendicativo del reale, ma che proprio su questi eccessi costruisce il suo discorso sull’ego, sui disequilibri affettivi, sulle scorciatoie intellettuali, in un rapporto spesso, intelligente e mai facile con le asperità del vivere sé stessi, gli altri e il loro giudizio, nel ginepraio mobile e labirintico delle affezioni e dei desideri, dove l’incombere della nostra fragile e gargantuesca personalità si scontra con la vastità dell’altro e l’importanza e il rispetto che a quell’alterità riusciamo ad attribuire. Fino a chiedere scusa, affinché, la prossima volta, sia più facile dire grazie.

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Sam Levinson Zendaya John David Washington 106 minuti
USA 2021
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The Pleasure of Being Robbed

di Samuel Antichi
The Pleasure of being robbed - recensione film

Assimilato il clamore internazionale di pubblico e critica nato con Good Time (Cannes 2017), alcune caratteristiche della marca stilistica ed estetica del cinema di Josh e Benny Safdie si sono fatte più che evidenti, e rintracciabili già nei due film precedenti. Il loro primo lungometraggio, The Pleasure of Being Robbed (firmato in realtà solo da Josh) mette in scena il mondo e l’immaginario caro ai due fratelli newyorkesi, popolato da outsiders e losers persi nel traffico e nella folla metropolitana.

Il film mostra la realtà quotidiana di Eleonore, fatta di incontri fugaci e casuali con persone sconosciute a cui si approccia, apparentemente per istaurare un dialogo ma di fatto per sottrarre sempre qualcosa. La giovane non sembra rubare per necessità economica, anche perché gli oggetti presi non sempre hanno un valore spendibile, quanto per scoprire, provocare e conoscere l’altro, connettersi e dare una forma identitaria a volti altrimenti persi tra la folla. Dare una luce a quelle ombre. Analogamente, la regia cerca di cogliere il viaggio picaresco di Eleonore attraverso lenti zoom che isolano e mettono a fuoco la ragazza distinguendola dal flusso di persone. I totali si alternano a strettissimi primi piani, mentre la macchina da presa, in costante movimento, più che infondere un senso adrenalinico e febbrile, come avviene invece in Good Time e Diamanti grezzi, è in linea con la ricerca di un approccio naturalistico. Tuttavia, l’attinenza alla realtà viene più volte scardinata con episodi comico-paradossali; basti pensare alla borsa contenente un cane e alcuni gattini, regalo di un padre alla propria figlia e che Eleonore sottrae, non conoscendo il contenuto, oppure l’incontro finale, allo zoo, con l’orso polare. L’animale, chiaramente di cartapesta, viene stretto in un lungo abbraccio dalla donna, che sembra ricercare in lui calore e affetto dopo essere stata arrestata per furto.

The Pleasure of Being Robbed sembra delineare la natura di sguardo che troveremo anche nei lungometraggi successivi, a partire da Heaven Knows What, in cui la macchina da presa si sofferma su Arielle Holmes, ragazza tossicodipendente che mostra la propria quotidianità (il film è un adattamento del suo libro autobiografico, Mad Love in New York City, commissionato dagli stessi registi). L’attenzione verso chi vive ai margini, figure perse tra la folla, risulta lampante anche in cortometraggio del 2012, The Black Baloon: oltre che alla macchina da presa, in questo caso, anche un palloncino nero, ritornato al suolo dopo essere stato liberato in volo, pedina i personaggi che si muovono e districano nel traffico metropolitano di New York.

The Pleasure of Being Robbed, nonostante presenti alcuni topoi che caratterizzano il cinema dei fratelli Safdie, rinuncia completamente al ritmo pulsante, alla tensione frenetica e adrenalinica, dettata anche dalla musica elettronica, che contraddistingue invece gli ultimi due lavori; mancano anche i virtuosismi, come la panoramica aerea che fa da incipit a Good Time, o i tratti psichedelici suscitati dai cromatismi notturni e dalla palette di colori al neon. La loro opera prima, probabilmente anche per motivi di budget, si concentra invece sul delineare e definire un microcosmo così come una marca stilistica ed estetica, con richiami a Cassavetes e Scorsese; siamo dalle parti di Fuori orario, con un cinema capace di coniugare un tratto naturalistico con una dimensione chiaramente action, staccandosi dal cinema indie americano propriamente detto.

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Josh Safdie Eleonore Hendricks Josh Safdie Jordan Zaldez 71 minuti
USA 2008
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Quella notte a Miami...

di Matteo Berardini
one night in miami recensione film

La notte è quella del 25 febbraio 1965, quando un Cassius Clay appena ventiduenne abbatte il super favorito Sonny Liston. Strafottente, ironico, veloce al limite dell’incredibile, Clay è campione dei pesi massimi. Ma per festeggiare evita stampa, fan e party anodini, preferendo un motel di seconda classe (poche alternative per un nero a Miami negli anni Sessanta), l’Hapton House, dove si circonda di amici e sodali tra cui tre figure storiche che sfiorano, come lui, lo statuto del mito: Malcom X, Sam Cooke e Jim Brown, rispettivamente leader dei movimenti civili, re del soul e miglior giocatore di football di sempre. I quattro sono protagonisti pivotali di quegli anni, simboli di affermazione black e lotta contro la discriminazione, ciascuno punto di riferimento per percorsi diversi e ugualmente urgenti, impattanti contro il tessuto fangoso e ispido di una società intessuta di razzismo sistemico e classismo. Non sappiamo quali furono gli argomenti affrontati quella notte, ma al mattino, davanti all’hotel, con Malcolm al suo fianco, Cassius annuncia ai cronisti la sua conversione all’Islam.

Fino a qui è Storia, cronaca di un incontro tra pesi massimi di cui restano solo ricordi sbiaditi, testimonianze frammentarie, fotografie (splendide quelle di Bob Gomel, forse il più grande fotoreporter degli anni Sessanta, l’unico presente quella notte). E da quei ricordi e quelle immagini parte la ricostruzione finzionale di Kemp Powers, che nel 2013 offre la sua versione nella pièce teatrale One Night in Miami…, grande successo di pubblico e critica che passa al grande schermo attraverso la regia di Regina King, attrice magnifica e pluripremiata (un Oscar, un Emmy, quattro Golden Globe). E anche qui l’incontro è tra pesi massimi, perché se Powers nello stesso anno ci regala anche sceneggiatura e co-regia di Soul, la King è all’opera prima e già dimostra un’eleganza e consapevolezza registica sorprendenti, oltre che un talento smaccato nella direzione attoriale. È merito suo se il confronto tra quatto uomini, figure storiche degli anni Sessanta, diventa l’occasione per riflettere sul presente e su questioni interraziali complesse, compresi aspetti riguardanti la prospettiva femminile, senza che questo porti mai a snaturare la naturalezza del racconto e la sua storicità. Teniamoli d’occhio, questi due nomi, perché se le cose girano come devono sono appena agli inizi.

one night recensione

Presentato a Venezia in Fuori Concorso e distribuito in fase pandemica da Prime Video, Quella notte a Miami… è un esempio brillante di come oggi, anche in piena saturazione di immagini e racconti, il cinema possa riflettere sui canoni del mito e sulla sua rappresentazione rivendicando un attivismo morale, civile, umano per cui “politico” non è solo aggettivo ma tratto ontologico, fenotipico, manifesto di un discorso filmico che schiva le trappole della retorica, del simbolismo, del tema importante e programmatico a cui assoggettare personaggi e vicende. Quella notte a Miami… è piuttosto un meccanismo lucidamente mitopoietico messo in atto per raccontare il politico attraverso l’umano, la Storia attraverso le storie, e che sa dare importanza e rimettere al centro del discorso il ruolo e la necessità dell’ideale. Ogni lotta ha bisogno di immortalare i suoi simboli ed eroi, e vedere Malcolm attraversare il film macchina fotografica alla mano, catturando per tutta la sera ricordi e pose ed energie del momento, non è solo vedere la Storia nel suo farsi ma anche nel suo cercare, trovare e di lì tratteggiare, plasmare, limare le sue figure eroiche, in tutte le loro contraddizioni e debolezze. Cronaca o finzione che sia, da qui nascono nuovi sbocchi e direzioni, quelli di ieri e di oggi. Perché, se la realtà ha lo scopo di fecondare gli eventi con l’energia e la voglia immanente di combattere e liberarsi dalla più bieca oppressione, il cinema può cogliere quella lotta e renderla immagine, terreno di confronto, dispositivo dialettico che inscena le figure del mito e contemporaneamente le crea, mostrando nel suo farsi quanto sia importante e necessario dare forma iconica alla lotta.

Di qui il tono fiabesco del titolo di Powers, quel senso di c’era una volta da cui nascono le leggende che poi si raccontano e raccontano ancora, di parola in parola, anno in anno, per ricordare ciò che è stato e immaginare qualcosa di diverso, per imparare. Ecco, Quella notte a Miami… è cinema politico in senso puro e potente perché è cinema didattico, è cinema che insegna (a guardare, a ricordare, ad agire) e che al contempo impara, perché al suo interno si fa arena discorsiva che innesca un’autoanalisi morale, clinica, storica. I protagonisti infatti sono quattro diverse incarnazioni di mascolinità e professionalità, quattro modelli di azione politica e consapevolezza, quattro fasi della vita che come fossero schegge psichiche di un unico individuo collimano e discutono tra loro. Si va dall’esuberante energia giovanile di Clay, in cui l’entusiasmo si affianca all’ingenuità e al bisogno di trovare figure di riferimento, all’adolescenziale e mal sopito bisogno d’affermazione di Sam, che sa bene quanto conti la dimensione economica nell’affermazione sociale; dal timore rabbioso e rigido di Malcom, con un piede nell’età della disillusione e l’altro nella determinatezza piena e scolpita nella roccia, alla prospettiva più distaccata e matura del colto Jim, unico del gruppo ad avere un’educazione di alto livello e una consapevolezza posata del suo ruolo sociale. Viene in mente la lettura psicanalitica de Lo squalo, per cui Martin Brody (Super-io), Quint (Es) e Matt Hooper (Io) tripartiscono le componenti psichiche dell’individuo, solo che qui il prototipo è quello dell’uomo black di successo, dotato di ruolo e responsabilità sociali, i cui frammenti entrano in contrasto partecipando a un discorso dialettico che si nutre di contraddizioni, paure, errori, ma la cui conflittualità è l’innesco da cui deriva forza e nuove forme di consapevolezza.

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Ma attenzione, nonostante sia evidente che i quattro personaggi sono scritti con cipiglio strettamente contemporaneo, e che quella di cui si discute è anzitutto la lotta presente e le sue implicazioni, Quella notte a Miami… è, come dicevamo, Storia attraverso le storie, e non c’è un momento in cui l’importanza del mito, il conflitto dialettico, l’orizzonte politico offuschino in qualche modo lo spessore umano dei personaggi, autonomi rispetto alla dimensione militante del film e anzi partecipi attraverso le loro psicologie. Per quanto il setting di partenza sia costruito a tavolino, e tutta l’opera non sia che un kammerspiel di confronto tra caratteri esemplari, il film funziona come racconto e meccanismo di immedesimazione perché Malcolm, Sam, Cassius e Jim arrivano allo spettatore come figure piene e tridimensionali, grazie certo alla scrittura consapevole di Powers ma anche alla regia di Regina King, che dona linfa vitale al tutto e riesce con grandissima padronanza registica a gestire i continui confronti dosando la disposizione spaziale, i corpi attoriali, gli sguardi e gesti che sempre dialogano con la tradizione individuando nell’iconografia storica gli elementi per uno scavo psicologico. Che sguardo magnifico è questo, che energia e voglia di abbracciare i propri protagonisti e amarli e seguirli fino al termine della notte, lì dove mito e immaginazione si uniscono chiudendo il cerchio.

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Regina King Kingsley Ben-Adir Eli Goree Leslie Odom Jr. Aldis Hodge Lance Reddick Michael Imperioli 115 minuti
USA 2020
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Xiao Wu (The Pickpocket)

di Andrea Giangaspero
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Pensare Jia Zhangke è pensare all’apertura musicata e ballata, all’ouverture di Moutains May Depart, o meglio ancora alla danza finale di Zhao Tao sotto la neve; è pensare alla partitura complessa di 24 City, tra cinema del reale e finzione, e al minimalismo di Platform, che schizza verso il wuxia di A Touch of Zen, verso le sequenze fluide del massacro per strada in Ash is Purest White, e poi a quello che è il suo contraltare, l’immagine sgranata finale delle telecamere a circuito chiuso. Un cinema senza ascendente univoco, ma con tanti padri putativi, tutti distanti l’uno dall’altro (vengono un po’ in mente Chen Kaige, i maestri del Neorealismo, John Woo, Hou Hsiao-hsien, e qualche reminiscenza bressoniana). Allora arriva in soccorso MUBI, che con Prima i primi apre il suo spettro a un’intera sezione dedicata agli esordi. C’è anche il Jia Zhangke del primo Xiao Wu (The Pickpocket), girato nel 1997, e adesso, forse, suggerire una quadra alla sua irriducibilità di fondo viene appena più facile guardando all’origine delle sue ossessioni.

Di nuovo (anzi, qui per la prima volta) troviamo la provincia dello Xanshi, nella Cina rurale settentrionale, e la città dei natali, Fenyang, poverissima e derelitta. La parabola ascensionale di Jia si avvia recuperando dai suoi affetti locali un signor nessuno, un attore non professionista (il regista tiene a precisarlo in una didascalia prima dei titoli di coda), Wang Hongwei, che di Jia sarà praticamente il feticcio prima di Zhao Tao, onnipresente nella produzione successiva fino al 2008 con Cry Me a River. E il pedinamento costante di questo ragazzaccio di strada, che qui si chiama Xiao Wu, assieme all’immagine per niente artefatta della comunità di minatori e alle macerie e al sudicio di Fenyang, da subito suggerisce facilmente una prossimità col cinema neorealista più di molti altri lavori di Jia. Xiao Wu, e insieme la narrazione, ha sempre un andamento erratico, agisce nel solco di un falso movimento perché è un classico picaro incapace di smettere di commettere piccoli furti, e con l’emotività repressa di un inetto che trova impossibile maturare come invece fanno i suoi ex compagni. Un personaggio da repertorio che al Neorealismo aggancia gli echi del New American Cinema e si va a collocare in un mondo rurale cinese antropologicamente accurato quanto quello di Chen Kaige.

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The Pickpocket contiene già, in potenza, le formule che trasformeranno il cinema più tardo di Jia in una chimera gigantesca, e soprattutto ne contiene l’ossessione originaria e tutt’ora dominante (lo testimonia anche l’ultimo Swimming Out Till the Sea Turns Blue, del 2020): l’esigenza di raccontare, di farsi cantore del suo paese. Non siamo ancora al boom, al nuovo capitalismo sfrenato di Ash is Purest White e Touch of Zen, ma nella sua fase di lenta transizione.
Come conseguenza della mobilitazione della polizia per reprimere la criminalità, molti si trovano costretti ad abdicare alla vecchia pratica dei furti e riorganizzarsi nella nuova imprenditoria del contrabbando di tabacchi e alcolici. E affinché la percezione di questa trasformazione attecchisca nell’immagine, Jia decide di inquadrare la mortificazione che produce in chi ne è estraneo. Xiao Wu non assomiglia più a nessuno dei suoi vecchi compagni perché non sa e non vuole riconoscersi nel cambiamento sociale, e da qui traspare un’altra evidenza della chimera di Jia, quella del minimalismo, affidato alla paresi del volto del ragazzo, alla sua gestualità meccanica e sempre uguale, sempre depressa (si accende e si fuma una sigaretta praticamente in ogni scena).

Anche l’illusione di una nuova educazione sentimentale, l’amore tradito per una ragazza conosciuta al karaoke che si mantiene prostituendosi, riflette proprio il movimento a vuoto e irrisolvibile del personaggio, quindi, nella sua distanza, la poderosa trasformazione del suo paese. E se questo accade sul piano più strettamente tematico, d’altra parte il piano della rappresentazione, il rapporto tra filmico e profilmico, subito non si fa bastare il minimalismo o gli echi neorealisti, ma è materia di natura ben più ibrida in cui già troviamo la connotazione, i riverberi magici delle immagini successive di Jia. Quando Xiao Wu guarda dall’alto di una balconata un ex compagno di furti che si è rifatto una vita e passeggia amabilmente con la sua ragazza, e rimugina mestamente dentro di sé sul desiderio per la donna del karaoke, non c’è né una sonorità malinconica né rumore solo diegetico. Il traffico dei clacson viene musicato con il tono stentoreo della propaganda anticriminale degli altoparlanti, con il rumoreggiare dei faccendieri da strada e dei mezzi meccanici pesanti, e vi partecipa anche il canto di una donna in un programma televisivo, col pubblico inquadrato che la ammira coi volti spenti e sonnolenti. Vengono poi aggiunti gli innesti di un carillon e del bip di un cercapersone, e accade così ancora e ancora, in un accumulo di suoni stridenti e di melodie e di dissonanze di marca quasi surrealista, che sbilancia l’immagine della meditazione di Xiao Wu e ricalca il suo atteggiamento paranoico.
Evidentemente nel Jia Zhangke dell’esordio c’è già una consapevolezza metodologica estrema, un po’ figlia delle osservazioni che Béla Balázs aveva espresso a proposito delle applicazioni di una asincronia del suono: separare nella dissonanza il suono dall’immagine filmica, dal solo completamento di questa e dal suo avvicinamento alla realtà (per dirla con Bazin), per costruire un paesaggio sonoro e dotarlo di una resa poetica, di una pulsione che parli al cuore dello spettatore a proposito del groviglio emotivo di Xiao Wu, coi bip, lo stridere, il rumoreggiare del traffico, il canto delicato di una donna. Ma invece di provare a spiegarlo, per fare luce sul portato precoce del linguaggio cinematografico di Jia Zhangke, forse basterebbe ricordare il consiglio di un amico a Xiao Wu a proposito del suo cercapersone: «non devi guardarlo continuamente. Se qualcuno ti ama, suona».

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Jia Zhangke Hongwei Wang Hongjian Hao 108 minuti
Cina, Hong Kong 1998
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Kasaba

di Emanuele Di Nicola
Kasaba di Nuri Bilge Ceylan

Ricordate il personaggio di Aydin ne Il regno d’inverno, Palma d’oro 2014, e in particolare la sequenza del confronto col bambino, che viene interpellato dal notabile a cui dovrebbe chiedere scusa, finché il piccolo sviene? Ecco, quel magistero in grado di penetrare esattamente la natura umana, quella maestria viene da lontano. Nuri Bilge Ceylan, uno dei più grandi registi del cinema autoriale oggi, ha esordito nel 1997 con Kasaba (Piccola città), ora disponibile su MUBI. Tornare alle sorgenti del suo cinema è una pratica imprescindibile per capire come si è giunti all’autore attuale: Ceylan, che riprende i motivi del cortometraggio Koza, si pone subito in controtendenza con la tradizione del cinema turco di fine Novecento. Un cinema che voleva essere principalmente popolare e raccontare alle masse le grandi questioni, per esempio il rapporto tra turchi e curdi o l’emigrazione verso la Germania, di cui Fatih Akin divenne simbolo vivente. Anche in un film d’autore come il bellissimo Viaggio verso il sole della regista Yesim Ustaoglu (1999), d’altronde, emergeva con forza la questione curda senza mai chiamarla per nome.

Ceylan è diverso. Il suo è un piccolo film di 80 minuti in bianco e nero, come piccola è la città del titolo ispirata a Yenice, il centro di campagna della sua giovinezza. E soprattutto non è interessato a trattare grandi questioni sociali né a dare giudizi. Al contrario il film ha un incipit cinefilo, con i bambini che giocano nella neve come I ragazzi terribili di Cocteau e Melville: giovani che fanno scherzi, anche crudeli, al matto del villaggio e sghignazzano tra loro prima dei titoli di testa. Il racconto è diviso in quattro parti, una per ogni stagione, e segue il rapporto tra i membri di una famiglia a cui si aggiungono altri personaggi, focalizzando soprattutto su due bambini, un fratello e una sorella. Sullo sfondo, onnipresente, c’è la Storia della Turchia: lo attesta la statua di Ataturk all'inizio, il padre della patria, e più avanti i lunghi dialoghi sulle guerre di conquista condotte perfino da Alessandro Magno. La messinscena è nettamente divisa in due: nella prima parte troviamo i giovani alle prese con l’educazione, nelle aule di una scuola povera, in cui il maestro tenta di trasmettere le regole della società. Mentre un bambino parla del valore della solidarietà, mostrando di averlo capito (non è solo dare soldi, dice, ma aiutare in tanti modi), un altro soffia su una piuma che viene vertiginosamente seguita dall'obiettivo, nella prima ripresa sontuosa del cinema di Ceylan. Assistiamo quindi alle gesta del bambino nella natura, che insidia prima un asino bressoniano e poi una tartaruga: così il regista, in contropiede sulla rappresentazione rassicurante dell’infanzia, suggerisce il sospetto di crudeltà, dice che i bambini possono essere “cattivi”.

Kasaba di Nuri Bilge Ceylan

A un certo punto la situazione cambia radicalmente: il film si “racchiude” e diventa un racconto accanto al fuoco, in cui diverse figure dialogano e si confrontano tra loro. Un film parlato che lascia emergere gli anziani, i giovani e quelli di mezzo: siamo però lontani da qualsiasi teatralità, perché attraverso i bagliori sui volti, che cambiano nel corso delle lunghe riprese seguendo il variare della fiamma, Ceylan imprime alla macrosequenza un movimento puramente cinematografico. La neve e il fuoco sono essenziali in questo cinema: il paesaggio turco scolpito nel ghiaccio nella prima parte, il fuoco nella seconda, anticipano i due elementi primari che si svilupperanno nei titoli successivi, basti pensare al confronto innevato che risulta decisivo ne L'albero dei frutti selvatici. E riunirsi attorno al fuoco è naturalmente una testimonianza della tradizione orale turca, prassi secolare che serve a tramandare, e allo stesso tempo eterna metafora del gesto cinematografico di raccontare. Ceylan racconta gente che racconta: riflette sulla tradizione, la rimette in scena per storie interposte. Non a caso dedica il film alla madre e al padre, evidentemente rappresentanti di quella vecchia generazione dei “raccontanti”. I personaggi parlano dei conflitti che hanno portato alla Turchia attuale ricoprendoli di un alone mitico, ma anche di se stessi, della loro condizione. Già qui c’è una radicale assenza di giudizio, visto che il turco preferisce incidere la complessità di una questione, l’indecidibilità, la difficoltà di prendere posizione: questo compito spetta sempre allo spettatore.

La differenza di Ceylan, fin dall’inizio, sta nell'evocare un cinema alto e anche intellettuale, nel muoversi con ambizione tra Čechov e Dostoevskij. Il regista non si accontenta di indagare il suo paese, di “metterlo in quadro”, si intuisce che vuole qualcosa di più: costruire questioni etiche e morali, sondare la differenza tra generazioni, il divario tra giovani e anziani, l’incertezza dell'età di mezzo. Il destino dei bambini e cosa sarà di loro. E vuole farlo attraverso l'immagine. In un bianco e nero rischiarato da due luci: la neve e il fuoco. Ceylan è già uzak, lontano dal cinema intorno.

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Nuri Bilge Ceylan 80 minuti
Turchia
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