TORINO 2020 / "El elemento enigmático" + "The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory"

di Andreina Di Sanzo
The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory

Esperienza sensoriale di circa 40 minuti, El elemento enigmático di Alejandro Fadel manifesta già dal suo titolo l’atmosfera di mistero. Presentato al Torino Film Festival nella sezione Le stanze di Rol, il film è un viaggio di tre uomini nascosti da tute e caschi, enigmatici come dei Daft Punk dell’ambient, volati in uno spazio siderale, sconosciuto e forse crudele. Questo film che propende molto alla video arte, nulla racconta se non quello che ambiguamente propone allo spettatore, chiamato a interrogarsi su cosa può o non può accadere. I tre astronauti comunicano senza parlare (leggiamo dai sottotitoli i loro dialoghi mentali) e vagano per questi spazi sconosciuti ritrovandosi di fronte il nulla avvolgente. Tra gas psichedelici emanati dalle rocce e corpi abbandonati, l’imperturbabilità di questo strano oggetto non viene smossa. Le domande filosofiche che i tre si pongono non chiedono risposte e nulla aggiungono al film che fa dell’arcano la sua cifra. Ma qualcosa per tutta la durata sembra aleggiare, è quell’Unheimliche freudiano, che aleggia in questo pianeta proibito, tutto accompagnato dalle musiche di Jorge Crowe, ambient industriale così profondamente inquietante. Tutto è sospensione, mistero, in un horror fantascientifco sperimentale, che mette in conflitto la brutalità umana contro la potenza impassibile della natura. 

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Segue a questo curioso oggetto, un’altra esperienza psichedelica: The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory. I registi Péter Lichter e Bori Máté lavorano sulle immagini di uno dei film più iconici del cinema horror, Nightmare. Alcune sequenze tratte dai primi due capitoli della saga vengono modificate come se si agisse con dei reagenti chimici, quindi l’immagine è disturbata, non corrisponde più al film che tutti conosciamo. Intanto quello che ascoltiamo dalla voice-over sono degli estratti da The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart di Noël Carroll, fondamentale testo teorico sull’estetica dell’horror. Questo esperimento vuole riflettere sul rapporto tra immagine e spettatore, la teoria di Carroll viene applicata alla materia filmica, cosicché - come nel film precedente - chi guarda è costretto a interrogarsi sulla relazione tra ciò che vediamo e ciò che il film non vuole mostrarci.
In questi due mediometraggi sperimentali, si indaga ancora una volta, il rapporto tra il genere e le teorie sul genere, tra l’immagine e la decostruzione di questa immagine, e ancora, tra chi guarda e chi è guardato e (probabilmente) manipolato da quello sguardo sempre imperscrutabile. 

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Argentina 2020 - Canada 2020
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Elegia americana

di Matteo Marescalco
Elegia americana - Point Blank recensione

Due anni dopo aver raccolto il timone di Phil Lord & Christopher Miller alla guida di Solo: A Star Wars Story - portando in scena un inno all’epica della sala cinematografica e della profondità degli spazi in tempi di ambienti sintetici e rilocazione dell’immagine filmica in nuovi ambienti esperienziali, l’istituzionale Ron Howard ha curato la regia di Elegia americana, nuovo ambizioso progetto targato Netflix nonché trasposizione dell’omonimo caso editoriale autobiografico firmato da J.D. Vance. Scritto nel 2016, il progetto di Vance si è posto l’ambizioso obiettivo di rivelare al mondo il cuore profondo degli Stati Uniti e di indagare sull’esistenza di quel bacino elettorale di cruciale importanza per l’elezione di Donald Trump nel 2016 all’interno della Bible Belt, la cintura di stati particolarmente retrogradi e abitati dai cosiddetti hillbillies, termine dispregiativo con cui solitamente si designano le persone che risiedono nelle aree rurali e montuose degli USA.

Attraverso il suo punto di vista di maschio bianco eterosessuale, J.D. Vance racconta in prima persona la vicenda della sua famiglia disfunzionale dominata da figure femminili fortemente matriarcali. Brillante studente di diritto a Yale, Vance è stato cresciuto da una nonna attiva e saggia e da una madre instabile e tossicodipendente. Convinta fino in fondo della validità dell’american dream, la nonna ha sempre incoraggiato il nipote a sfruttare quell’unico sentiero che il suo status sociale gli garantisce di percorrere senza perderlo mai di vista. Alla vigilia di un colloquio da cui potrebbe dipendere il suo futuro, una crisi famigliare costringe J.D. al ritorno a casa. Il viaggio si trasforma nel motivo per ritrovare la madre, riaprire ferite e risvegliare traumi mai risolti, ma fornisce al ragazzo anche l’occasione per riscattare definitivamente il suo passato e plasmare il presente con la speranza di dar vita ad un futuro migliore.

Per certi versi, Elegia americana è un’operazione assai affine a quella portata avanti da Ron Howard in Solo, nonché profondamente iscritta nel cuore di un autore che ha spesso raccontato storie di individui che si battono per la famiglia, per un sogno e, in definitiva, per il loro avvenire. Questa volta il background su cui si erge la messa in gioco del coraggio individuale e della conquista del successo attraverso la sola forza del proprio ingegno è l’America bianca e rurale di cui Vance è originario. Se nella sua precedente regia Howard garantiva la sopravvivenza dell’immaginario cinematografico classico dentro la deriva magmatica dei nuovi media, sottolineando il peso specifico delle icone e dell’esperienza in sala, adesso il regista invita inevitabilmente alla fruizione casalinga di un racconto segnato in modo irrimediabile dall’ottimismo del cinema di Frank Capra. Ridotto nel formato, il classicismo dell’operazione, questa volta, sopravvive attraverso le vicende dei personaggi che racconta.

Più semplice e lineare di quanto possa essere stato presentato nell’ambito del dibattito politico contemporaneo, Elegia americana appiattisce i conflitti e le dinamiche familiari per concentrarsi sulla storia di redenzione del suo protagonista che, probabilmente, è troppo “scritta” e destinata a raggiungere il suo obiettivo fin dalle prime sequenze. In questo itinerario, c’è tanto spazio per momenti di empatia forzata, un po’ meno per l’umanità di personaggi che sembrano ridotti a figurine da collezione con la mera funzione di sostenere il viaggio intrapreso da Vance. Questa storia esagerata, sopra le righe e segnata da due performance attoriali che, paradossalmente, cercano la naturalezza attraverso il massimo della “mediazione” – a fungere da maschera è la scarnificazione di due attrici (s)truccate fino ai limiti del possibile – colpisce per la sua linearità sentimentale ma, allo stesso tempo, delude per un non so che di fittizio e artificioso, caratteristiche che, quando sono in ballo drammi umani, finiscono per privare il racconto della potenza naturalistica di cui avrebbe avuto bisogno.

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Ron Howard Amy Adams Glenn Close Gabriel Basso Haley Bennett Freida Pinto 117 minuti
USA 2020
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Torino 2020 / The Oak Room

di Matteo Berardini
the oak room - recensione film

Sei già stato qui.
Davanti a un bancone, bicchiere in mano, al riparo mentre fuori dalla porta neve e ghiaccio mimano la loro piccola fine del mondo.
Sei già stato qui.
In un locale quasi avvolto nel buio, un’oscurità catramosa, dentro un mare notturno da cui emergono sottili linee di luce, scritte e insegne che tracciano le coordinate dell’ambiente come barriere coralline al neon. C’è atmosfera qui, c’è l’ultimo calore della giornata e odore di legno, e torba e alcol sparso sul tavolo ancora appiccicoso. Ma soprattutto ci sono storie, storie avvolte in loro stesse, una dentro l’altra, evocate da voci al caldo mentre fuori gela e imperversa la tempesta.
Potrebbe essere un racconto di Stephen King questo The Oak Room, un racconto come tanti dello scrittore del Maine, in cui le storie prendono corpo dentro un bar in chiusura, ultimo bastione prima della ritirata notturna. L’impianto è dei più semplici: c’è un uomo al bancone che ascolta e racconta, e c’è un ragazzo perduto, tornato in città dopo la morte del padre e delusioni familiari e torti affettivi, che ascolta e racconta a sua volta. E in un ballo a due di recriminazioni, scuse mancate e storie offerte come materia di scambio per vecchi pegni di famiglia, i racconti dei due generano altri bar e avventori notturni, storie che innescano altre storie come scatole cinesi in cui la narrazione stessa si pone in primo piano e svela tutti i suoi meccanismi.

A questo punto si potrebbe pensare a un neonoir sulla scia di Tarantino, magari agli avventori assediati dalla neve di The Hateful Eight, ma saremmo fuori strada. Non c’è nulla di pulp postmoderno in The Oak Room, per lo meno nulla che voglia decostruire per ironizzare, scollegando i personaggi dal reale attraverso il potere affabulatorio del racconto. La parola, in Tarantino e soprattutto nel tarantinismo che ne è derivato, è uno strumento che poco ha a che fare con il ruolo atavico che la storia porta con sé, non serve a ordinare il mondo ma ad apparecchiare le premesse della sua deflagrazione. The Oak Room, al contrario, è un neonoir che ha il classicismo nel midollo, è Shahrazād, è un b-movie sfacciato e fuori tempo che riconosce l’importanza ancestrale che le storie da sempre hanno e ne evidenzia la capacità creatrice, ordinatrice appunto, attraverso la quale cerchiamo di spiegarci il reale e organizzarlo in forme gestibili.

Via via che il racconto orale prende forma, il film di Cody Calahan semina suggestioni e suggerimenti, dispiegando sentieri narrativi la cui architettura ci suggerisce combinazioni, incastri, colpi di scena, quando in realtà nulla di ciò deve necessariamente accadere. Lo scheletro narrativo che via via emerge esiste soltanto nella nostra mente, perché se le storie ci illudono di poter prevedere, anticipare e quindi reagire agli eventi, in quanto ascoltatori/spettatori ci aspettiamo che determinate svolte accadano, che determinate coincidenze vengano confermate. E questo perché immaginare che gli eventi seguano una logica causale – e non siano piuttosto schegge fattuali lanciate da un Dio ubriaco che gioca a dadi con il mondo – ci tranquillizza e mette in una posizione di maggior controllo. È per questo che The Oak Room è ben di più di una voce calda che racconta mentre fuori fa freddo, è più di un intelligente neonoir capace di gestire le limitazioni di budget stimolando l’evocazione e l’immaginazione dello spettatore; Calahan e il suo sceneggiatore Peter Genoway ci seducono con l’ambientazione e l’affabulazione dei personaggi per dire qualcosa di profondamente vero riguardo la finzione. E cioè che ci serve raccontare storie e le racconteremo sempre, che siamo fatti di racconti, libri di sangue e carne con cui mettere ordine al caos del reale, ponendoci al centro di una progressione sensata di eventi. Senza dimenticare, però, che ciascuno di noi è anche, sempre, il racconto di qualcun altro, protagonista di una storia di cui non conosciamo il narratore.

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Cody Calahan RJ Mitte Peter Outerbridge Ari Millen 90 minuti
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Torino 2020 / Mom i Befriended Ghost + Red Aninsri

di Saverio Felici
Mom-i-Befriended-Ghosts-recensione-film-Voronov

E' difficile che Mom i Befriended Ghosts, pur con il suo spudorato aggancio al presente, sia stato scritto, prodotto e girato in questi ultimi otto mesi; il fatto che si tratti di una storia di pandemia, quarantena e apocalisse dimostra solo come il sentore di un nulla in attesa, appena al di là di noi, fosse presente a maturare nell'inconscio occidentale già da diverso tempo. La Fine del Mondo è in trending topic, e ci resterà: è lei lo spettro che da un decennio si aggira per il mondo e per il cinema, e che definirà in maniera inalterabile le opere che nei prossimi anni proveranno a confrontarsi con il presente. E' armageddonwave: tutti vogliamo e dobbiamo discutere di un possibile futuro senza umanità, e se una volta solo Mad Max o Wall-e potevano permetterselo, è ora il tema prescelto anche per registi esordienti, con quaranta rubli di budget e un unico protagonista: il Pianeta stesso.

Mom i Befriended Ghosts risponde a tutte queste caratteristiche e, si sarà capito, è un film che parla di Apocalisse. Lo scarto con la trattazione classica sta nella rinuncia ai toni utopici/distopici, alla fantasticheria di nuove società barbariche in futuri post-atomici. Il post-atomico stesso pare un concetto superato; la minaccia oggi non è una grande esplosione ma un'angoscia invisibile, fantasmatica: pestilenze senza nome, stravolgimenti climatici e sociali inarrestabili. Il film dell'esordiente Sasha Voronov taglia fuori il collettivo ed elabora i mutati rapporti del singolo nei confronti di questo mondo “dopo”, svuotato, in cui nessun violento nuovo ordine sta nascendo, ma in una silenziosa e agonizzante ultima Era l'anthropos va ormai perdendo la sua centralità.
I settanta interessanti minuti di Mom i Befriended Ghosts offrono dunque un antipasto di ciò che sarà il nuovo cinema apocalittico dei prossimi anni: visione proibita, ammaliante nel suo orrore, del “world without us”. Panorami inconcepibili, inorganici, dove la Natura stessa, ex madre benevola e fruttifera di un tempo che il film non accarezza più neanche in forma di flashback, è ora una divinità ostile e indifferente, in un presente congelato nell'inferno del ghiaccio eterno. Un inferno in cui si aggira in rassegnato silenzio la protagonista (Alla Mitrofanova): la sua cittadina siberiana è stata quarantenata in seguito al diffondersi di una misteriosa malattia, ed è ora ridotta a un morente feudo in mezzo al nulla sorvegliato da milizie. Fuggita alla ricerca di non si sa bene cosa, il film ne accompagna il vagabondare per i campi in una serie di raggelate sequenze, in un desolato assaggio del nuovo mondo.

Lo svuotamento dell'inquadratura, bianca, grigia, senza neanche il respiro offerto dal campo lungo o dalla panoramica, impone allo spettatore la realtà di una rassegnazione universale, di una fine accettata e metabolizzata. Il messianesimo biblico di un Cuaron e di tante trattazioni simili sembra retaggio di un altro modo di approcciarsi al soggetto. Al termine della civiltà, l'uomo è tornato allo stadio di cavernicolo della steppa, alle ere glaciali; la sua precaria sopravvivenza passa per un percorso a ritroso nella distruzione dei più ancestrali tabù, di fronte alla silenziosa testimonianza dei fantasmi del titolo. Fantasmi non da intendersi come revenant, ritornanti capaci di riverberare sul presente la propria esistenza passata - ma come eco calanti, ormai impercettibili. Il presente storico, il nostro, ha nel film lo stesso valore delle antiche civiltà dimenticate nei miti lovecraftiani. Attore principale, appena “truccato”, è quindi un luogo, la Siberia, confine dell'umano per definizione: e gli spettri del titolo sono anche i suoi relitti urbani sovietici, ridotti a un pugno di  isolate infrastrutture sommerse nel gelo e nella neve, come già la Statua della Libertà sprofondava nella sabbia del Pianeta delle Scimmie di Schaffner. Una spettralità che si esplicita in sequenze a dir poco haunting, e che rimandano il film alla sua matrice tarkovskiana; un aggancio a dei padri nobili che, fossero vivi oggi, non si esimerebbero dall'affrontare questo tipo di narrativa.

Mom i Befriended Ghosts resta più che altro un biglietto da visita, un film in orizzontale, fatto di scene e non di plot: potrebbe durare venti minuti come sette ore o per sempre, accompagnando la protagonista nella sua camminata nel non-mondo potenzialmente all'infinito. Si accontenta di passare appena l'ora di minutaggio, un lavoro in piccolo che rinuncia sportivamente a una magniloquenza che non avrebbe comunque potuto rendere, limitando il suo percorso a quattro-cinque passaggi obbligati. Più che mai vorremmo vederne di più, ma è indubbio che il cinema dell'immediato futuro non ce ne negherà.

Red-Aninsri

Se il gelo dell'anima, i temi dilatati e le visioni notturne sono alla base del russissimo film di Voronov, la scelta di accoppiarvi il caldo, tenero e politico corto thailandese Red Aninsri è un punto in favore della fantasia dei programmatori del TFF. Il film di Ratchapoom Boonbunchachoke è un contorto teorema metaforico sulla falsissima riga dello pseudo-noir complottista alla Rivette (intrighi collettivi riflessi sul triviale privato), carico di “messaggi” su identità sessuale, politica, libertà espressiva, nazionalismo, impegno civile. Una (generica,  ma tant'è...) tesi contro la dittatura in ogni sua forma incastrata su una scarica di idee visive e sonore per metà delle quali molti registi mainstream darebbero un braccio. Trenta minuti, dodici scene; la sezione aurea del cinema sperimentale.

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Sasha Voronov Alla Mitrofanova 73 minuti
Russia 2020
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Family Romance, LLC

di Andrea Giangaspero
Family Romanc LLC - recensione film Herzog

C’è un’agenzia a Tokyo, la Family Romance, che su esplicita richiesta di committenti e in cambio di denaro si occupa di reinterpretare il ruolo di famigliari e conoscenti, defunti o più semplicemente assenti, e lo fa al di là della bontà e della nobiltà delle intenzioni. Non solo, il suo team di performer può cimentarsi a volte anche nella rimessa in scena di un evento, riempiendo in buona sostanza dei buchi; sollazza il riverbero di un ricordo e lo riplasma in una sua ricostruzione più o meno fedele. Potete allora immaginare la fascinazione di Werner Herzog quando ne è venuto a conoscenza grazie all’amico Roc Morin, nonostante le oltre settanta regie a guardare dritto in faccia l’abisso di un vulcano, le profondità oceaniche, la lotta selvaggia tra uomo e grizzly e un’intera nave trasportata sulla sommità di una montagna. Anche qui, la curiosità sembra nascere dall’unicità dell’occasione: attingere nuovamente a piene mani dal dominio dell’inesplorato e dell’inimmaginabile.

È noto che un metodo di modificazione e stilizzazione nel trattamento della materia documentaria in Herzog c’è e funziona sempre, senza che si ripeti sistematicamente secondo stilemi consolidati e innervato, al contrario, degli stimoli sempre nuovi con cui il regista approccia le sue esperienze. Nel caso di Family Romance LLC, uscito negli scorsi mesi in esclusiva per MUBI e presentato alla 72esima edizione del Festival di Cannes, il metodo sa però di una sperimentazione ben più spinta delle precedenti. E non ci riferiamo affatto alla qualità amatoriale e scarsa delle immagini, frutto delle riprese scattose, spesso sovraesposte e "pixellate" di un vecchio IPhone. L’uomo a capo dell’agenzia è davvero quel Ishii Yuichi che Herzog tiene a mettere al centro del proprio film, però la novità sta nello sforzo di trasformare il suo lavoro di performer in un film di finzione, in pratica di inabissare la realtà e stropicciarne i rimasugli nella messa in scena di una messa in scena. Ishii Yuichi è già performer delle vite degli altri, ma ora rimette pure in scena sé stesso e l’intero sistema di menzogne con cui alimenta quelle vite. Herzog non lo fa per mettere l’uomo alla berlina; la sua è una indagine à la loupe sul bisogno di illusioni lenitive dell’individuo alienato nella metropoli giapponese (e, per estensione, dell’umanità), e sul portato della loro fecondità.

In un caso in particolare, Ishii Yuichi rimette in scena un ricordo, il momento in cui una donna ha scoperto di aver vinto una somma milionaria alla lotteria. La ricreazione dell’evento offre un ristoro sicuro che consiste nella riproduzione di un ricordo estatico (per usare un termine caro a Herzog); la vista che si schiude a un imprevisto, un evento fuori misura. Il godimento della donna non sta appunto nella consapevolezza dell’enorme guadagno acquisito, quanto nell’effetto sorpresa che l’attimo della scoperta ha prodotto sul suo sguardo. Sul primo piano della donna sembra riattualizzarsi quell’estasi mediante l’atto performativo, sia pure finzionale. Ma Herzog scarta dalle facili soluzioni, fa un passo ulteriore e si insinua con tenacia su un terreno impervio, quello della doppia riproducibilità degli eventi, dello slittamento tra i piani di verità e finzione che già i grandi autori iraniani, Kiarostami e Makhmalbaf, avevano indagato con esiti enormi. Secondo l’uso di approcci personali, i due registi hanno mosso le loro pedine in un reenactment che problematizza la struttura narrativa mediante dei transfert e dei giochi di ruolo. In Close-up (1990), il fanatico Sabzian finge di essere il regista Makhmalbaf per vivere il sogno del Cinema, e Kiarostami s’impegna a riprodurre più o meno fedelmente gli eventi di questo inganno sfruttando gli stessi protagonisti dello scandalo. In Pane e fiore (1996), Makhmalbaf porta alle estreme conseguenze il reenactment. L’autore ricorda l’episodio in cui da giovane accoltellò un poliziotto: entra nel ruolo di sé stesso nella finzione e decide di ricostruire gli eventi di quel giorno chiedendo a due ragazzi di reinterpretare le versioni di sé e del poliziotto da giovani. In entrambi i casi l’impressione documentaristica e la restituzione di un calco della realtà non funzionano a dovere e si sfaldano, ed entrambi aprono così alla plasticità del reale, alla sua pluridiscorsività, con un impianto di rivolgimenti e slittamenti continui tra i vari piani della finzione. E molto similmente funziona il gioco performativo in Herzog. Interpretando il padre scomparso e mai conosciuto di una ragazzina, Ishii Yuichi cuce interamente su di sé quel ruolo per un tempo prolungato, fino a rivelare una falla nella sua performance, il tabù di un coinvolgimento emotivo che s’insinua e di cui invece non si dovrebbe macchiare. Ishii lo sottolinea alla madre della ragazzina; la sua è una farsa che dura da troppo e che deve troncare per sola necessità, un’impostura coalescente che rischia di corrompere il suo impianto di illusioni consolidate.

herzog family romance

Apparentemente, o comunque solo superficialmente, l’assolvimento metodico di un ruolo che pretende di sostituirsi alla realtà (sia essa da riproporre o da inventare da zero, come nel caso del padre assente nella vita della ragazzina) non può che essere castrato dalla consapevolezza della menzogna. L’unica strada possibile è una scappatoia, azzerare il transfert rivelando alla figlia che il padre è morto. Ma Ishii Yuichi sta già interpretando sé stesso per Herzog, e la difficoltà del suo personaggio in Family Romance, LLC è la sua stessa difficoltà, che fuori dal film già ha provato il dolore della separazione da una figlia non sua. Ishii sta negoziando la sua identità due volte, in quanto sé stesso e in quanto finto padre.
Riprendendo una riflessione di Fabrizio Deriu, la pratica del reenactment non produce un identico, in quanto l’esecuzione performativa coltiva una specifica abilità: conduce l’azione in un margine più o meno ampio che si apre tra il “preordinato” (cioè la partitura, il passato da riprodurre) e il “contingente”, l’occasione irripetibile e unica di ogni singola esecuzione. La riscrittura del passato o la scrittura da zero di un ruolo aprono allo stesso modo questo margine: entrambe rispondono della imprevedibilità della realtà, che sfugge alla volontà di potenza del cinema, e dell’unicità della performance. La solidità di Ishii si rompe alle idiosincrasie di un’identità che vorrebbe ma non può ricoprire, e che, nel tentativo di riprodurla, lo sta spingendo fuori da sé, a un’alterità. Nel margine-soglia della sua messa in scena performativa si apre l’autenticità di un sentimento d’amore per la ragazzina, così autentico da scalzare, nonostante la natura finzionale, la realtà forse anestetizzata dei rapporti invece reali, domestici, con la moglie e i figli. 

L’identità costruita da Ishii non può essere negoziata o confinata, sussiste compresente all’originale. Questo l’uomo lo sa, e in un finale meraviglioso, fermatosi appena all’esterno di una casa che sembrerebbe essere sua, osserva la mano di una bambina contro il vetro della porta d’ingresso. È quella di sua figlia o l’immagine coatta di una bambina che non gli appartiene? Herzog non si pronuncia in alcun chiarimento né tantomeno accenna a una chiusura. Restano solo questo corpo rannicchiato e queste dita che spingono forse per incontrarlo, e per superare il margine-soglia della parete.

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Werner Herzog Ishii Yuichi Mahiro Tanimoto 90 minuti
USA, 2020
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CINEMA E TEMPO - L'uomo venuto dall'impossibile

di Jacopo Bonanni
l'uomovenutodall'impossibile-recensione

«If you’re lost you can look and you’ll find me, time after time»
Cindy Lauper, Time After Time

«Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro,
che sono stato il precursore del XX secolo»

Jack the Ripper, From Hell

Nella sua vita, ancora prima di essere un romanziere, H.G Wells è stato un utopista, un inventore di futuri possibili, tanto da preconizzare attraverso le sue opere fenomeni di portate epocale come: il socialismo, le guerre mondiali, i viaggi spaziali e l’emancipazione femminile. Nei panni dei suoi personaggi Wells ha attraversato il passato, a partire dall’età della pietra (Un racconto dell’Età della Pietra), per raggiungere il presente, fino a spingersi verso altri futuri: sia quelli che avevano risolto i penosi problemi della sua epoca (Nei giorni della cometa), sia quelli che avevano fallito (La guerra dell’aria). A bordo della sua creazione più longeva – la macchina del tempo – è andato ed è tornato più volte per narrare ciò che aveva visto; la sua macchina è diventata la matrice stessa, lo strumento e il meccanismo creativo della narrativa che ha contribuito a plasmare: la fantascienza. Per questa ragione il cinema non ha mai smesso di amarlo e se ancora oggi può esplorare le insidie e le meraviglie che si celano tra le pieghe del tempo e dello spazio, può farlo prendendo in prestito le sue intuizioni letterarie.

Ora immaginate cosa accadrebbe se Wells, oltre che scriverne, avesse “realmente” creato un marchingegno in grado di viaggiare nel tempo. Lo utilizzerebbe davvero per conoscere cosa gli riserva il futuro o ne avrebbe timore? E se il suo dispositivo cadesse inavvertitamente nelle mani sbagliate? Sono queste le premesse teoriche da cui parte lo scrittore di best-seller Nicholas Meyer per mettere a punto una delle digressioni cinematografiche più originali e affascinanti, tratte da un’opera di Wells: L’uomo venuto dall’impossibile (Time After Time, 1979). Sulla scia del successo ottenuto dal sul brillante pastiche letterario dedicato a Sherlock Holmes (Sherlock Holmes: Soluzione sette per cento) Meyer esordisce al cinema con un’altra avvincente avventura “d’altri tempi” a base di suspence, adrenalina e romanticismo, che nasconde - tra le righe - un’aspra riflessione sulla duplicità dell’animo umano e sulla natura endemica del male. Protagonista della storia è il visionario romanziere inglese – interpretato da Malcolm McDowell – qui nelle vesti inedite di uno stralunato detective all’inseguimento del serial killer per antonomasia - Jack lo Squartatore (David Warner) - fuggito dal passato per rifugiarsi nel futuro, approfittando delle possibilità tecnologiche offerte dall’ingenuo inventore della macchina del tempo.

Dieci anni dopo il primo adattamento cinematografico di H.G Wells, Meyer dirige quello che oggi definiremmo una sorta di sequel spirtuale o remake alternativo del film culto L’Uomo che visse nel futuro di George Pal del 1960, spostando il focus dell’azione dall’Inghilterra vittoriana di fine ottocento all’America post Watergate dei tardi anni settanta. Infatti è soltanto compiendo un viaggio nel presente che Wells comprende come, attraverso la visione disincantata del regista, il futuro utopico da lui teorizzato in realtà non sia altro che una “terra straniera”: un’epoca fredda e inospitale dove la violenza – spettacolarizzata dai mass-media - è all’ordine del giorno. La società è ormai assuefatta a ogni tipo di sopruso tanto che il serial killer può agire in maniera del tutto indisturbata. Come osserva lo stesso Jack lo Squartatore, quella società non gioca secondo le regole civili ipotizzate da Wells - il cui idealismo è sconfitto in partenza - ma secondo la logica brutale del cinico doppelgänger del protagonista: uno spietato precursore della modernità, che ritroveremo fatalmente in un ruolo analogo anche nel coevo Assassinio su commissione di Bob Clark. Anche in questo caso, come nel film di Pal, sarà soltanto l’amore di una giovane e risoluta donna del futuro - l’attrice Mary Steenburgen - a salvare Wells dall’autocommiserazione, impedendo così alla sua nemesi di perpetrare i suoi crimini ad libitum.

Al di là dell’enfasi sulla meccanizzazione del viaggio nel tempo e le relative implicazioni etiche e morali, per Meyer l’archetipo del viaggio è solo un pretesto, un escamotage narrativo, che utilizza per dare forma e sostanza ai sogni (e agli incubi) del suo tempo. Il suo è un viaggio metaforico al termine dell’utopia che ha caratterizzato gli anni sessanta, un tour delle contraddizioni della sua generazione che ha visto tramontare i grandi ideali di “pace e amore”, travolti dalla guerra del Vietnam, l’assassinio dei Kennedy e quello di Martin Luther King. È un ritratto caustico degli anni settanta camuffato da commedia sci-fi. Non a caso il film è ambientato proprio nella città di S. Francisco nel 1979, quando l’ex capitale mondiale del “flower power” era ormai assurta alle cronache del tempo come “riserva di caccia” del “Killer dello Zodiaco”, le cui azioni riverberano nelle parole e nei gesti del primo predatore seriale della storia moderna. Il film ribadisce l’abilità del regista statunitense nel riuscire a raccontare storie ucroniche sulla base di audaci paradossi temporali, amalgamando con ironia personaggi reali e fittizi, digressioni filosofiche e considerazioni personali. Come per altri autori postmoderni anche per Meyer il tempo è un’illusione al pari del cinema, tanto è vero che il regista non inventa nulla in senso letterale ma preferisce riscrivere, riutilizzare, rivisitare ciò che è stato immaginato da altri. Tutte caratteristiche che emergeranno in seguito anche nei lungometraggi di Star Trek – di cui dirigerà alcuni dei capitoli più apprezzati dai fan della saga – e in modo ancora più evidente nel suo (post)apocalittico film tv The Day After del 1983.

Nominato per il premio Hugo nel 1980 e vincitore di ben tre Saturn Awards (gli Oscar della fantascienza), Time After Time pur senza essere un capolavoro assoluto del suo genere resta – a quarant’anni di distanza dalla sua realizzazione - una pietra miliare per chiunque si approcci alla fantascienza moderna. Il film anticipa e sintetizza di fatto tutti quei meccanismi narrativi e quegli elementi stilistici che, a partire dagli anni ottanta, ritroveremo disseminati in ogni pellicola incentrata sul tema del viaggio nel tempo: da Terminator a Ritorno al Futuro, fino ad arrivare ai giorni nostri. Perché, se è vero che la fortunata trilogia di Zemeckis è debitrice in primis dell’adattamento di George Pal, lo è altrettanto del suo aggiornamento a cura di Meyer, di cui Ritorno al Futuro - soprattutto il terzo capitolo - rielaborerà personaggi, suggestioni e riferimenti.

In particolar modo quella malinconica considerazione finale di H.G Wells al termine del suo viaggio nel futuro, secondo cui: «Ogni epoca è uguale alla precedente, soltanto l’amore le rende più sopportabili!»

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Nicholas Meyer Malcolm McDowell David Warner Mary Steenburgen 108 minuti
USA 1979
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Il buco in testa

di Emanuele Di Nicola
Il buco in testa - Antonio Capuano - Pointblank

Devi per forza odiare l’assassino di tuo padre? O c’è anche un’altra possibilità? Esiste un’ipotesi alternativa? L’idea della cosiddetta pacificazione, ovvero banalmente “fare la pace”, meno banalmente trovare una quiete interiore da entrambe le parti, è una strada complessa ma incredibilmente plausibile. Lo dimostra Il libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Cerreti e Claudia Mazzuccato, che racconta l’esperimento giudiziario di far incontrare i parenti delle vittime con gli assassini degli anni di piombo, a distanza di decenni, con risultati spiazzanti e a tratti struggenti. Il volume viene citato ne La città dei vivi, l’ultimo libro non-fiction di Nicola Lagioia che scruta nell’abisso dell’omicidio di Luca Varani, ucciso da Foffo e Prato: e viene citato proprio per dire che in quel caso una pacificazione non sembra possibile. In una delle pagine migliori il senatore Luigi Manconi, impegnato nei diritti dei detenuti, regala il libro a Lagioia con sublime ironia: “Senza che i presenti se ne abbiano a male, lo considero il più bel libro italiano degli ultimi dieci anni”.

Antonio Capuano conosce sicuramente Il libro dell’incontro, e lo tiene presente nella costruzione del suo ultimo film, Il buco in testa, presentato al Torino Film Festival fuori concorso. Già ne L’amore buio del 2010 faceva incontrare il responsabile e la vittima di uno stupro. Qui il regista napoletano si ispira liberamente alla storia di Antonia Custra: figlia di Antonio, poliziotto che fu ammazzato in una manifestazione a Milano durante la primavera del 1977, da un colpo sparato da Mario Ferrandi, militante di Prima Linea immortalato nella più famosa fotografia di quegli anni. Antonia e Mario si incontrarono proprio in un bar milanese nel 2007, trent’anni dopo, trovando forse quella pacificazione tanto rara quanto preziosa, prima della morte della donna per un tumore nel 2017. Il cineasta riscrive la storia, installandola nel 2020: Maria (una sempre magnifica Teresa Saponangelo) si lancia alla ricerca di Guido (Tommaso Ragno, altrettanto), ex brigatista che ha finito di scontare la sua pena per l’omicidio del padre. Colui che ha scavato il metaforico “buco in testa” a tutti i parenti della vittima, sia la figlia che la moglie, ormai semi-catatonica e terrorizzata da un “impossibile” ritorno delle Brigate rosse (in una scena da brividi). La ricerca, dunque: Maria vuole parlare con Guido, vuole dire ma soprattutto farsi dire, come è andata e perché, quale fu il senso di sparare a un giovane sconosciuto, come si ripensa quella tragedia oggi.

Ma attenzione: il “film del ritorno“ è solo una delle tante spinte che compongono Il buco in testa. Perché Antonio Capuano, arrivato a 80 anni, è uno degli autori centrali del nostro cinema, anche se nessuno lo sa: prima di tutto è il più maturo del nuovo corso napoletano, quello che comprende Mario Martone, Pappi Corsicato, Antonietta De Lillo e Stefano Incerti. Da lui deriva Paolo Sorrentino che, ai primi passi, con Capuano scrisse Polvere di Napoli, poi riportando ed estremizzando alcune forme nel suo cinema di iper-deformazione grottesca, sorrentiniana, ben più famosa ma in debito. È anche un anticipatore, Capuano: ha girato La guerra di Mario prima de Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne, e si provi a guardarli in successione, si confronti Valeria Golino con Cécile de France...
Anche Il buco in testa, come altri suoi film, ha un centro ma dirazza, è pieno di “cose”. Il cinema di Capuano nasce nei vicoli di Napoli, ma anche sui palchi: è figlio del teatro partenopeo, della tradizione e insieme dei laboratori sperimentali, degli scantinati e dell’improvvisazione: basta vedere i duetti di Teresa Saponangelo e Francesco Di Leva sul lungomare, che sono forse amanti, a metà tra attrazione e repulsa, tra costruzione e genuinità, tra centro del discorso e divagazione. La donna non sa stare ferma, si infuria, si dimena in modo animalesco davanti al mare. Il teatro è anche il luogo in cui vediamo le prove di una recita, eseguita da giovani ragazze: una tenera speranza che la tradizione possa continuare domani.

È un cinema segnato dall’ombra perenne della camorra. Se a volte questa è il punto, come in Pianese Nunzio 14 anni a maggio, col prete anticamorra interpretato da Fabrizio Bentivoglio, qui è invece lo sfondo: la criminalità è quell'umore che fa a dire agli studenti che è noioso studiare Figli di un Bronx minore di Peppe Lanzetta, e prende forma tangibile nel cadavere ritrovato sulla spiaggia. Tutto è camorra intorno a Maria, il ragazzo che la scippa così come l’immobilismo che conduce il corpo sociale alla stasi, nulla si muove, anche la madre è “bloccata”, in tal senso gli effetti del terrorismo si saldano direttamente a quelli della criminalità organizzata. Svuotare menti e spaccare cuori.

Il buco in testa è però anche un'altra cosa, ovvero un film fatto di cinema, che del teatro è l'erede consapevole: nella prima scena Capuano omaggia il treno dei Lumière, che diventa un Frecciarossa nella stazione centrale di Milano dove arriva la protagonista, in cerca dell'assassino. Il racconto si compone per piani temporali alternati: Maria a Napoli con i capelli lunghi, che per interposto personaggio incide l’affresco della sua realtà, Maria a Milano con i capelli corti, che recita il film dell’incontro. L’incastro tra i livelli è di una raffinatezza tutta cinematografica. Fino al violento scambio verbale con il responsabile, in un crescendo quasi mametiano, che raggiunge l’apice e apre la porta alla catarsi. In chiusura, sullo stesso treno, Teresa Saponangelo regala una splendida battuta finale, che esalta l’idea di “fare pace” con la massima naturalezza eppure con una forza devastante.

Non si cerchi la perfezione stilistica nel cinema di Antonio Capuano: è fatto di strappi, istinti, strade prese e poi lasciate. Una per tutte: Maria che parla in camera all’inizio rivolgendosi a noi, un marchio antinaturalista dell’autore, per poi smettere nel corso del racconto e ricomporre la quarta parete. Ma non è questo il punto: il punto è nell’odore dell’arte di periferia che qui si respira, quindi della vita, nel movimento scomposto che affronta il grande tema senza enunciarlo, ma lasciandolo emergere attraverso le possibilità della narrazione cinematografica. Realtà napoletana, teatro e cinema, buchi interiori, amori impossibili, saldo del debito con la lotta armata: non è forse questo un grande film italiano?

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Antonio Capuano Alberto Ricci Höiss Anita Zagaria Bruna Rossi Daria D'Antonio 95 minuti
Italia, 2020
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Nimic

di Arianna Pagliara
Nimic di Yorgos Lanthimos Point Blank

La genialità di Yorgos Lanthimos non perde il suo fulgore neppure quando viene “compressa” nella durata esigua del formato breve, come aveva già dimostrato in maniera definitiva il suo Necktie (2013), cortometraggio di soli 90 secondi parte del progetto Venezia 70 Future Reloaded. Qui, pistola alla mano, due scolarette in divisa si sfidavano a duello, con un bosco superbo a fare da sontuosa scenografia, e la morte si palesava in una citazione di Baudelaire. La potenza espressiva, l’eleganza asettica e la crudeltà glaciale del suo cinema si coagulavano tutte in un minuto e mezzo, per manifestarsi con la rapidità abbagliante di un lampo. 
L’ultimo cortometraggio del regista, Nimic, presentato a Locarno Film Festival 2019 e poi al  Ravenna Nightmare Film Festival 2020, è ora finalmente presente nell’eccellente catalogo di MUBI. Anche stavolta l’occorrenza di una narrazione stringata sembra diventare il pungolo che spinge il regista ad affilare ulteriormente il rasoio.

Protagonista di questa raggelante e straniante riflessione sul senso (precario, incerto) dell’identità è Matt Dillon, un violoncellista che vedrà la sua routine quotidiana infrangersi di fronte all’impensabile, al mistero, alla totale messa in discussione del senso dell’esistenza, che terrorizza e paralizza e annienta. L’assurdo irromperà così, in un giorno come tanti, in metropolitana, quando l’uomo chiederà distrattamente che ore sono (o meglio, do you have time?) a una donna che gli siede di fronte, donna che da quell’istante, come in un incubo angoscioso, diventerà il suo specchio, il suo doppio e infine l’usurpatrice del suo “ruolo”.
Siamo dunque tutti, indistintamente, sostituibili? Siamo interpreti di una sceneggiatura che va avanti autonomamente, indifferente all’identità degli attori? Siamo soltanto segni che hanno smesso di significare qualcosa di precipuo, autentico, definito? E se tutti “gli altri”, i nostri cari, non si oppongono alla nostra “sostituzione”, che ne è delle relazioni, dell’affetto, dell’amore?
Per chi ha apprezzato The Lobster, non è una novità che il relazionarsi con l’altro, l’essere coppia o famiglia, nell’universo spietato di Lanthimos sia mero fatto esteriore, dovere sociale, necessità anche eteroimposta di conformarsi a una norma che non contempla l’eccezione.

Ma dietro all’enigmatico e cupamente surrealista Nimic c’è anzitutto lo sconcertante e plumbeo Alps (2011), dove la “sostituzione” era una professione studiata e organizzata con attenzione, pensata per chi avesse bisogno di un surrogato allo scopo di superare un lutto. La storia, insomma, in qualche modo viene da lontano, mentre l’approccio stilistico eredita i grandangoli esasperati del più recente La favorita. Il risultato finale, come sempre con Lanthimos, è un oggetto tagliente e adamantino, disorientante come un enigma cifrato, che sembra quasi prendersi gioco dello spettatore, impossibile da collocare e allo stesso tempo da dimenticare.

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Yorgos Lanthimos Matt Dillon Daphne Patakia Susan Elle 12 minuti
Usa, 2019
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Torino 2020 / Breeder

di Alessandro Gaudiano
Breeder - recensione film Dahl

Una coppia benestante in un quartiere signorile. Lo sguardo insistito sui corpi e la sensazione che, dietro a queste algide apparenze, si celi un cuore di tenebra fatto di rapacità e violenza, nel quale una veterinaria con ambizioni da demiurga rapisce giovani donne per estrarre il segreto dell'eterna giovinezza dai loro giovani corpi.

Lo sceneggiatore e regista danese Jens Dahl porta sul grande schermo un horror/thriller che muove da alcune idee di grande spessore che, se non proprio inedite per il cinema, sono esplorate da un punto di vista non banale. L'orrore alla base di Breeder è l'ossessione per la giovinezza e la sempre più radicale asimmetria tra chi può permettersi di preservarla e chi, invece, sacrifica il corpo e le energie ai capricci del Capitale e alle vanità delle élite. Si tratta di un tema che, in varie modulazioni, attraversa l'intera storia della cultura umana: i sacrifici umani per preservare la salute del Re in svariate culture e mitologie, la ricerca dell'immortalità da parte di Gilgamesh, la riduzione dei corpi a merce nelle economie schiaviste sono tutte riconducibili all'idea generale di trasferire forza vitale (o forza economica, a sua volta convertibile in vita e sangue) dalla base ai vertici della piramide sociale. I beneficiari dei trattamenti per ringiovanire, in Breeder, sono i baroni del capitale, specialmente uomini: "curare" la vecchiaia, per le donne, è qualcosa che si scopre solo in seconda battuta da una costola del trattamento per i geni maschili. E il braccio violento di questa cura sta nel consumo dei corpi e nella violenza necessaria per disciplinarli o, più banalmente, per umiliarli e ridurli allo stato di sub-umani, bestie da soma (nel senso greco del termine). Non è un caso che i due sgherri dell'antagonista siano dei grotteschi, sadici uomini-bestia di cui conosciamo solo il soprannome: il Cane e il Maiale.

Si tratta di idee dal forte potere evocativo, sufficienti ad alimentare un cinema dell'orrore sotto la pelle e dentro le relazioni sociali; un orrore della carne, profondamente disturbante e radicalmente politico. Breeder, purtroppo, manca parzialmente il bersaglio. In quanto opera di genere, il film non riesce a mettere a fuoco la componente più sottile e psicologica di questo orrore e ripiega, invece, sulla violenza parossistica, sulla messa in scena insistita del sadismo dei carnefici e della gelida amoralità dell'antagonista. Una violenza pervasiva, shockante a tratti, che non riesce però a rappresentare altro che se stessa. Dahl manca l'obiettivo di andare oltre certe ingenuità del cinema exploitation e farsi, per usare un'espressione di David Roche, "exploitation dell'exploitation"[1]: una messa in scena della violenza come strumento critico e destabilizzante. La metafora politica del film è chiara, ma è altrettanto netta la distanza tra ciò che si vuole dire e gli strumenti messi in scena per farlo.

Dunque, Breeder è un film incompleto, che funziona solo a metà. Mette in campo le giuste pedine e le giuste idee ma non riesce ad esprimerle compiutamente, complice una serie di scelte di fotografie e regia che non riescono a nasconderne le debolezze Soprattutto, Breeder non trova il modo di concludere il suo discorso. Il finale è la parte più debole dell'opera e, al di là della prevedibile catarsi, si risolve in facili stereotipi e un ritorno a una relativa normalità che sembra del tutto incompatibile con le sue premesse. Ci auguriamo che il cinema possa raccogliere il testimone e realizzare, in futuro, il film che Breeder avrebbe voluto essere.

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[1] David Roche, «Exploiting Exploitation Cinema: an Introduction», Transatlantica, 2015. URL: http://journals.openedition.org/transatlantica/7846

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Jens Dahl Sara Hjort Ditlevsen Anders Heinrichsen Morten Holst 107 minuti
Danimarca 2020
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Torino 2020 / Lucky + Regret

di Matteo Berardini
lucky regret recensione film

Autrice di manuali di business volti all’auto-aiuto e moglie di un professore di filosofia, May Ryer vive la sua vita da scrittrice in una casa di lusso, secondo una routine che sembra davvero fortunata. Del resto “fortunata” è la parola che spesso usano i suoi interlocutori per descrivere la sua condizione. Come se non avesse lavorato, e tanto, per arrivare dove è; come se il suo matrimonio non fosse un delicato equilibrio di compromessi ma un’unione idilliaca e mai conflittuale; come se il raggiungimento di traguardi professionali e affettivi, in quanto donna, sia anzitutto una questione di fortuna. Secondo questa logica allora è solo per un avverso mutamento della sorte che la sua vita diventa un grottesco incubo di stampo kafkiano, la riproposizione, a volte farsesca ai limiti del ridicolo, del più trito slasher movie, per cui un uomo, mascherato e silente, irrompe ogni notte in casa tentando di ucciderla. Salvo farsi stordire, ferire, uccidere malamente da May per poi ricominciare da capo il giorno dopo. È solo sfortuna quella di May, intrappolata nel ruolo di final girl dentro un horror che ne determina scelte e sfide?

Terzo lungometraggio della regista iraniano-americana Natasha Kermani (Imitation girl, Shattered), Lucky è teoria applicata allo slasher, anzi è teoria dello slasher applicata al reale, perché con il ripetersi e l’esasperarsi di situazioni tipiche il film lavora dentro il genere per poi superarlo, guardando a un orizzonte che ha ben poco di metalinguistico e molto di quotidiano, pratico, tangibile. Questo perché il meccanismo in cui si trova intrappolata May è evidentemente allegorico e nasce per condurre lo spettatore nella condizione e nel punto di vista quotidiano della donna alle prese con le insinuazioni, i soprusi e i veri e propri abusi innescati dal sistema patriarcale. Semplificando ed etichettando (per quel che vale, poco), Lucky è quindi un film che ben si colloca sulla coda lunga del movimento #MeToo e delle più generali azioni di comunicazione, militanza, sensibilizzazione e denuncia nate negli ultimi anni, ma il film (scritto dalla sua protagonista, Brea Grant) ha l’intelligenza di muoversi su un livello astratto (e assieme concretissimo) in cui non occorrono riferimenti storici o coordinate spazio-temporali. Lontano dai meccanismi del rape & revenge, Lucky ricorda piuttosto il bellissimo L’uomo invisibile, che di fatto parlava di stalking e abuso psicologico attraverso le note del genere, ma rispetto a Whannell la Kermani e Grant ricostruiscono la condizione femminile sotto altre spoglie ricorrendo in modo pressoché totale alla decostruzione. Lucky smonta la casa dei giochi del cinema rinunciando a portare avanti contemporaneamente narrazione e metafora, e la seconda finisce per soppiantare la prima prendendone il posto. Il risultato è sicuramente un film capace di generare riconoscimento/spaesamento (in base all’identità con cui lo si guarda) – e quindi conforto attraverso l’emersione del familiare non detto, o difficoltà, sorpresa, consapevolezza dovute al mettersi nei panni estranei dell’altro sesso – ma in entrambi i casi l’esposizione rischia di sommergere la narrazione, il simbolico soppianta totalmente il fattuale, lasciando che il film si trasformi in un esercizio affermativo in cui tutto accade ai fini dell’intento metaforico.

regret

Più sottile e allucinato, e fedele alle meccaniche di genere, è invece Regret, il corto di Santiago Menghini che accompagna Lucky in questa double bill offerta da Le stanze di Rol, la sezione di cinema di genere di questo Torino Film Festival. La storia riguarda Wayne, uomo d’affari di mezza età che alloggia in un lussuoso hotel di Montreal, e da lì contatta la sorella per dirle che non verrà al funerale del padre, appena scomparso. I motivi della decisione non vengono esplicitati, ma conta poco perché il film è un piccolo gioiello di horror espressionistico in cui tutto quel che c’è da percepire e comprendere della condizione psicologica di Wayne viene espresso dalle immagini, a partire dal nero pieno e bituminoso che avvolge stanze, corridoi e hall dell’hotel deserto. Ed è proprio nella gestione gotica dello spazio urbano, nel modo in cui viene messa in scena l’angoscia attraverso la dicotomia di luce/buio e il suffuso perdersi delle geometrie architettoniche, nel terrore puro suscitato da corpi oscuri e assassini in movimento, che il canadese Menghini si dimostra una giovane promessa dell’horror contemporaneo.

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Natasha Kermani Santiago Menghini Brea Grant
Canada 2020
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