Lovecraft Country

di Nicolò Comencini
Lovecraft Country recensione serie tv hbo

Che si tratti di letteratura o di cinema, l’horror è una macchina narrativa controversa: se da una parte è il genere che più ha fatto eco alle paure dell’immaginario sociale maggioritario, amplificandone le inquietudini e nutrendone i pregiudizi, dall’altra possiede una forza sovversiva intrinseca, che ha saputo dare spazio nei decenni a voci minoritarie o dissidenti. La serie Lovecraft Country, creata da Misha Green, prodotta da HBO e diffusa in Italia da Sky Atlantic, è riuscita, anche grazie all’apporto di figure produttive quali J. J. Abrams e Jordan Peele, a sfruttare magistralmente il potenziale innovatore del genere.

Come suggerisce il titolo, lo show, basato sull’omonimo romanzo di Matt Ruff, chiama in causa una delle figure più influenti e discusse del panorama letterario nel XX secolo — lo scrittore weird H.P. Lovecraft, la cui opera, che vanta risonanze enormi nella produzione narrativa e cinematografica degli ultimi 50 anni, veicola spesso assunti razzisti, xenofobi e misogini, più volte esplicitati dallo scrittore stesso, che suscitano oggi non poco imbarazzo tra gli appassionati del genere. In molti si sono domandati come fare i conti con questa eredità a dir poco incomoda, e la serie di Green offre una delle risposte più interessanti a questo quesito, invertendo i rapporti di forza e affidando le redini della narrazione a coloro che, negli scritti lovecraftiani, vengono invece vittimizzati o marginalizzati.

lovecraft c

Lovecraft Country sviluppa, nei 10 episodi che compongono la prima stagione, una trama complessa e stratificata. Dal plot principale, che segue le lotta di Tic, Leti e Montrose contro i piani occulti della famiglia Braithwhite nell’America razzista degli anni ‘50, si diramano diverse micro-narrazioni che situano lo show a mezza via tra una serie antologica e un formato più classico, e permettono all’autrice di esplorare a ruota libera i mondi che costituiscono la nebulosa dell’immaginario, dalla casa infestata al racconto fantascientifico, da riletture di classici come Frankenstein e Doctor Jekyll & Mister Hyde a film di avventura quali i Goonies e Indiana Jones. Si sviluppa così un racconto corale e ibrido, che lascia ampio spazio anche ad alcuni personaggi secondari e celebra la quotidiana lotta per la sopravvivenza delle minoranze in un paese ancora ottusamente incatenato alle logiche di segregazione razziale. Malgrado qualche leggero difetto, perlopiù legato alla dispersività delle narrazioni, Lovecraft Country si contraddistingue, sia nel formato che nelle tematiche trattate, come uno degli show più ambiziosi e brillanti del 2020.

Nel corso degli episodi, all’orrore cosmico incarnato da Shaggot e spiriti demoniaci si affianca la rievocazione delle atrocità razziali e dei traumi storici subiti dalla comunità afroamericana. Dal massacro razziale di Tulsa al brutale omicidio del giovane Emmett Till, dalla violenza più palpabile ed esplicita, come quella in vigore nelle sundown counties, a insidie più astratte quali la paura costante di essere ridotti a stereotipi — tradotta magistralmente nella persecuzione delle gemelle demoniache Topsy e Bopsy, versione orrorifica del cliché razziale del pickaninny — lo show punta i riflettori sulle ferite non ancora rimarginate dei neri d’America, e, più in generale, delle minoranze etniche e queer. Ma Lovecraft Country non si limita a evocare la sofferenza e le pagine buie della storia: la serie celebra la cultura afroamericana a tutto tondo attraverso numerosi omaggi, espliciti o allusivi, come ad esempio la ricostruzione delle fotografie di Gordon Parks, l’evocazione di personaggi quali lo scrittore James Baldwin e il ricorso all’estetica afrofuturista. Il risultato è un esempio perfetto di come sia possibile conciliare l’entertainment con l’esigenza di una partecipazione attiva dello spettatore medio, spingendolo a cambiare prospettiva e ad approfondire eventi tragici cancellati dai libri di storia e universi culturali sovente relegati in secondo piano.

afrofuture

Riappropriandosi di un genere non sempre inclusivo, la serie aggiunge un carico semantico all’aggettivo lovecraftiano, generalmente associato al concetto di orrore cosmico, chiamando lo scrittore di Providence, e con lui l’intera white America, a fare i conti con la Storia. Lovecraft diventa l’emblema di un orrore ben più umano e tangibile — quello della discriminazione razziale. Un orrore non cosmico ma trasversale, poiché capace tutt’oggi di permeare ogni strato della società, dalle più remote periferie urbane, finanche — come dimostrano le sconcertanti immagini degli ultimi giorni — alle principali sedi istituzionali delle democrazie occidentali. 

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Misha Green Jurnee Smollett Jonathan Majors Michael K. Williams Aunjanue Ellis Courtney B. Vance 1 stagione da 10 episodi
USA 2020
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Sound of Metal

di Mattia Caruso
Sound of Metal - recensione film marder

Prima le distorsioni elettriche e il martellare ossessivo della batteria, poi, improvviso, il silenzio. È quello che accade a Ruben (Riz Ahmed), batterista in un duo metalcore con la fidanzata Lou (Olivia Cooke), di colpo vittima di una perdita vertiginosa e inarrestabile dell'udito. Un silenzio con cui scendere inevitabilmente a patti e, forse, con cui rinascere.

Parrebbe quasi il perfetto percorso a tappe del più classico dei coming of age Sound of Metal, opera prima di Darius Marder distribuita da Prime Video, non fosse che sembrano proprio quelle tappe le prime a essere rigettate da una storia che fa del suo andamento oscillante, fatto di cambi repentini di percorso e nuove strade da battere, la sua cifra distintiva. Del resto il film comincia con una rinascita già avvenuta, quella che ha visto Ruben uscire dal tunnel della tossicodipendenza gettandosi anima e corpo nella musica. Una rinascita interrotta dalla perdita proprio di ciò che in prima istanza lo aveva salvato, facendolo diventare un musicista.
La sordità come beffa e incidente di percorso, dunque, un cambio di marcia che per questo si discosta e problematizza la stessa idea di seconda possibilità tanto cara alle narrazioni sul sogno americano.

Partendo da un soggetto semiautobiografico del collega Derek Cianfrance, il co-sceneggiatore di Come un tuono Marder affronta di petto la disabilità scegliendo la strada dell'immedesimazione. Messe da parte scene madri e facili sentimentalismi, il regista lavora così di sottrazione, tra piani ravvicinati e non detto, asciugando vicenda e interpretazioni – a partire da quella eccellente di Riz Ahmed – e lavorando soprattutto su un sound design mai così curato, tra sperimentazioni e distorsioni immersive. È così che le soggettive uditive di Ruben irrompono nella vicenda restituendoci, a tratti, tra suoni ovattati e metallici, un disagio che non ha bisogno delle parole (o del linguaggio dei segni) per essere capito appieno.

Sperimentando la solitudine della sordità, Ruben, nel tentativo di “sentire” di nuovo il mondo, si avventura così in un percorso tutto personale, tra nuove vite possibili (la comunità per non udenti e l'intenzione di vivere la sordità non più come un handicap), repentini cambi di rotta e improvvisi momenti di illuminazione. Un viaggio in continuo divenire, che ridefinisce priorità e affetti, nello sforzo di ridisegnare un mondo in cui il silenzio è qualcosa di vivo e materico, un suono come un altro, o, forse, il più importante di tutti.

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Darius Marder Riz Ahmed Olivia Cooke Paul Raci Mathieu Amalric 120 minuti
USA 2019
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Six Men Getting Sick, The Alphabet, The Grandmother, The Amputee - I primi corti di David Lynch

di Riccardo Bellini
six-men-Lynch-recensione

Nel 1966 David Lynch è uno studente spiantato della “Pennsylvania Academy of the Fine Arts” e sa a malapena cosa sia una fotografia. Per intenderci, crede che il 16mm sia un modello di cinepresa (parole sue). Non ha solide basi letterarie e non vanta una grande cultura cinematografica. Per fortuna, è rimasto folgorato da Francis Bacon, ha talento nella pittura e ha già scoperto quanto siano affascinanti le formiche rosse che strisciano sulla resina dei ciliegi. Sa anche che, se si osserva il brulicante microcosmo di un giardino alla giusta distanza, il mistero della nascita si rivela un evento tutt’altro che pacifico – e dunque assai intrigante. Tanto basta, se hai uno sguardo unico su quanto il mondo ha da offrire. L’ingresso del ventenne di Missoula nell’audiovisivo è istintivo, anti-teorico; di sicuro non programmato. La risposta a un formicolare sotto l’epidermide del cosciente, come il fermento che si agita sotto la corteccia degli alberi osservati dal giovane fin da bambino. Lynch, che per il momento si è occupato solo di quadri, si limita a rispondere a una pulsione semplice, subitanea: mettere in movimento delle immagini. Vale a dire, infondere un afflato vitale.  

Così nasce Six Men Getting Sick (1967), letteralmente riassumibile nella formula usata da enrico ghezzi a proposito di Dune: «scultura più pittura più movimento». Sei teste, modellate sul volto del regista, fanno da schermo alle immagini di un quadro filmato nel suo farsi, fotogramma per fotogramma. Sei uomini che, appunto, stanno male, fino a riversare in vomito il contenuto tossico dei loro stomaci rigonfi, simili a motori di automobili ma anche a sacche purulente, mentre le braccia si muovono con scatti robotici. Il tutto ripetuto in loop, con il suono sfibrante di una sirena ad accompagnare la proiezione (una Sinfonia industriale ante litteram, per citare un altro lavoro lynchano). In sostanza, un processo di trasformazione di corpi come macchine (originariamente, il progetto di Lynch, già interessato alla commistione tra organico e inorganico, è quello di realizzare una combinazione tra carne e macchina). Gli stessi processi biologici affiorano alla mente in subbuglio dell’autore nella loro meccanicità. È un momento importante nella filmografia di Lynch. Non solo, banalmente, perché si tratta del suo primo ingresso nell’audiovisivo, ma soprattutto perché con Six Men siamo di fronte a un momento epifanico, illuminante (agli occhi del critico) per comprendere l’approccio al cinema e all’esistente del regista. In pochi minuti, si condensa la forza di una rivelazione istintiva – la vita e i suoi ingranaggi come il più affascinante dei misteri –; folgorazione da assecondare, così come per tutti i futuri progetti – anche quando entrerà in gioco il supporto strutturale di una sceneggiatura. Inevitabile allora che il corto ci parli anche della creazione nella sua accezione artistica, del dare letteralmente vita (animare!) a qualcosa, esso stesso arcano processo generativo, su cui le parole dell’autore spesso si fanno laconiche (più per l’inadeguatezza del linguaggio verbale che per scelta). Da qualche parte, sotto i marosi del subcosciente, si intravvede in nuce, e a posteriori, il fondo essenziale alla base degli ibridi biomeccanici di Eraserhead, Velluto blu, dei corti della maturità, delle industrie forgianti di Elephant Man e Twin Peaks, dello stupore di fronte al cuore selvaggio del mondo. In questo primo film painting o videoinstallazione sono già presenti due delle ossessioni di Lynch che ritroveremo nei successivi cortometraggi e nei lunghi: il processo generativo e il linguaggio.

Grandmother - recensione Lynch

La questione del linguaggio verbale,  che in Six Men viene lambita in negativo (cioè per via della sua assenza), con The Alphabet (1968) si fa invece centrale. Onirismo e subconscio hanno qui un ruolo decisivo: il corto è un sogno orrorifico sulle paure legate all’apprendimento verbale vissuto come esperienza coercitiva, con una figura femminile, Peggy Reavey, prima moglie di Lynch, il cui incubo sembra tramutarsi in disagio fisico. Apprendimento e verbo sono minacce soggiacenti e pronte a esondare. Le lettere dell’alfabeto, sulle note della classica canzoncina imparata alle elementari, via a via trasformate in un imperativo urlato e intimidatorio, vanno a ingolfare come scorie la mente inerme della ragazza. Dunque, se la parola concepita come struttura asettica è fin da subito corpo estraneo, alterità temuta e indottrinamento, nel tempo Lynch si prenderà una rivincita sui rigidi codici linguistici, intervenendo cioè sul linguaggio verbale attraverso gli strumenti delle stesso, con libere e oscure associazioni di significato, infrazioni logiche tra domanda e risposta (soprattutto nella serie Rabbits), simbolismi, effetti reverse, neologismi. Processi di scardinamento comunicativo che si ritrovano non a caso anche nel recente What Did Jack Do?, interamente concepito come un serrato campo-controcampo poliziesco, dove la comunicazione deraglia dagli ordinari binari di senso. Oppure, come in The Amputee (1974), quarto lungometraggio e ultimo prima dell’uscita di Eraserhead, si instaura uno scarto vistoso tra immagine e parola: qui una donna senza gambe scrive una lettera piena di frivolezze amorose a un’amica (sentiamo la voce over) mentre un medico (lo stesso regista) si prende cura degli arti sanguinolenti della ragazza.

Ancora in The Alphabet torna inoltre la suggestione di un organismo in trasformazione – qui una crescita intellettiva degenerata in incubo –, della nascita come evento necessariamente traumatico e fascinoso. Aspetto su cui ruota The Grandmother (1970), il primo confronto del regista con una sceneggiatura articolata e una chiara formula narrativa. È anche il primo indizio di come, parafrasando David Foster Wallace a proposito di Twin Peaks, in Lynch l’ordinario visibile e l’oscuro latente non siano mai dimensioni nettamente separate, a scanso di concilianti prospettive moralistiche. Nei circa trenta minuti del corto, compare la prima delle famiglie disfunzionali del regista, il primo degli orrori quotidiani, reiterati e palesi. Un contesto familiare inquietante e violento, calato però in una dimensione primigenia: l’Uomo e la Donna, dei grotteschi Adamo ed Eva, emergono dalla terra come abitanti di un mondo senza coordinate, frutti marci votati alla violenza. È la prima delle cosmogonie lynchane che troveranno massima espressione artistica e metafisica nell’ormai iconica sequenza dell’ottavo episodio di The Return, in cui si assisterà al rigenerarsi eterno del bene e del male e alla comparsa del demone Judy, causa una bomba atomica scoppiata nel Nuovo Messico, – ancora e forse in modo definitivo l’esistenza legata a una prospettiva macchinica, dove in più si fondono e si confondono atomi e spirito. Ma se, dice la Genesi, «in principio era il Verbo», qui il linguaggio è ancora una volta scardinato, insufficiente e, ancora una volta, usato soprattutto per intimorire. Dapprima i due esseri umani riescono a esprimersi soltanto latrando come cani. Poi, l’unica espressione che riusciranno ad articolare sarà un incomprensibile rimprovero ringhiato al figlio della coppia. Il vero evento generatore, però, è la nascita della nonna del titolo, nata come un fungo da una sorta di tronco d’albero, tra gli umori viscosi che escono dalle cavità vaginali dell’arbusto, in una commistione qui triplice di elementi umani, vegetali e sintetici (un effetto quest’ultimo forse non voluto ma ottenuto comunque dalla scultura utilizzata). Una presenza rassicurante per il bambino, ma impossibilitata a risolverne gli incubi giornalieri. Non è forse un caso che nonna e nipote comunico soltanto attraverso i gesti. Eraserhead avrà una produzione travagliatissima e tempi biblici prima di vedere la luce, ma i lavori iniziano già nel 1971, un anno dopo The Grandmother. I germi – e le spore – sono già stati gettati. Basta aspettare che germoglino.               

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David Lynch David Lynch Peggy Reavey
USA
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Space Dogs

di Leonardo Strano
Space Dogs - recensione film kremser e peter

Nello spazio non c’è prospettiva, non c’è punto di fuga. Il campo di Space Dogs che inquadra l’atmosfera spaziale, il nero galattico sterminato senza direzioni e senza coordinate, è un campo che non è organizzabile dalla prospettiva e quindi non appartiene all’uomo: la prospettiva è l’unità di misura dello sguardo dell’uomo, sempre teso a "prospettivizzare" il visivo per renderlo visibile, comprensibile, misurabile, vivibile. Proprio perché la prospettiva non può nulla nel luogo spazio, questo luogo a-prospettico è la casa designata per la riflessione sui limiti, sulle condizioni, sui modi dello sguardo umano, e quindi, per quanto paradossale possa sembrare, anche l’ambientazione d’elezione per una riflessione tutta terrestre, in termini di riferimenti spaziali, sullo sguardo della specie umana rispetto alle altre specie: la sospensione delle possibilità (cioè del poter-fare, del produrre, dell’utilizzare tecnico) dello sguardo umano provocata dallo spazio extra-terrestre schiaccia lo sguardo su se stesso, problematizza la sua tranquillità verso i referenti abituali e lo incastra in uno spazio disabituale e disabitato, quello del mondo non umano non solo in quanto spaziale, ma anche in quanto animale. Perché non è solo il luogo spaziale lontano e alto a essere extra-umano ma anche il luogo animale vicino e basso a essere fuori dalla cornice dello sguardo dell’uomo: i due luoghi, i due mondi, coincidono perché condividono la qualità dell’a-prospettico, una costituzione non-umana che non è strettamente rappresentabile in quanto non originata dalla dimensione dello sguardo umano. 

Dov’è il posto del cinema in questa equazione? Qual è la sua possibilità, cosa può fare come rappresentazione di fronte all’inalienabilità di questi due spazi irrappresentabili? Per rispondere alla domanda il cinema deve rilevare il problema dell’irrappresentabile, quindi problematizzarsi in quanto rappresentazione umana limitata e poi dissolvere la questione e il suo limite in una nuova e più consapevole struttura formale: siccome non può semplicemente annullarsi, deve rendere produttivo il suo negativo, il limite che la costituisce, trasformandolo in un positivo attivo, in una de-limitazione creativa. Il processo non è semplice, perché il cinema deve uscire da se stesso attraverso se stesso per guardarsi e il cinema è legatissimo all’animale non umano, anzi, si può dire che le prime dimostrazioni di cosa possa fare il cinema, di che cosa sia il cinema, provengano proprio dall’uso dell’animale come immagine – si pensi agli esperimenti di Muybridge e Marey sulla logica senso-motoria del mezzo fotografico. Il cinema nasce quindi idealmente da un’idea di rappresentabilità del movimento dell’animale e paradossalmente si scopre limitato proprio per questa idea: per uscire da sé deve annullare questo sguardo costitutivo sull’animale come prova del senso motorio e scoprire in esso un’irrappresentabile che lo delimiti.

space dogs film recensione mubi

Space Dogs è costituito all’interno, nel corpo cavo sotto la sua superficie compiuta, dal dissolversi dei problemi della rappresentazione in una forma nuova, che ha ri-compreso se stessa: nel documentario di Kremser e Peter si rintraccia il susseguirsi di queste dissolvenze che bruciano dentro all’immagine come problema, la scorticano e infine producono, perché conducono fuori da essa, un qualcosa di originale ma anche di originario, un primo vedere, uno slancio vitale che a posteriori si può dire pensiero, ma al momento sembra essere soprattutto solo movimento. In questo movimento è sciolto un passaggio dialettico che è quello espresso sopra: il rilevamento dell’irrappresentabile a-prospettico e il dissolvimento di questa consapevolezza in una nuova forma. Space Dogs interpreta questo passaggio obbligato per prima cosa sospendendo i referenti prospettici dello sguardo umano, aprendosi in una scena senza coordinate. Inquadrato, per quanto possibile, è lo spazio extra terrestre, in un’elevazione galleggiante a cui comunque non manca un senso strettamente narrativo – è l’evocazione della tragica storia di Laika. 

Nell’apertura allo spazio il film annuncia il totale disorientamento delle figure prospettiche e così dello sguardo spettatoriale, che è appunto sganciato dalle sicurezze della rappresentazione e lasciato nel vuoto. Lo sguardo è in questo momento non sguardo della cosa messa in prospettiva ma sguardo soltanto. Quando il film poi effettivamente comincia, con il pedinamento di cani randagi di Mosca – contrappuntato dalle sequenze sulla festa con la scimmia sfruttata e sulla camminata reinquadrata della tartaruga, e dai materiali di repertorio sui cani mandati nello spazio – lo sguardo resta disorientato perché dalla sfera non umana spaziale si è passati alla sfera non umana terrestre: la macchina da presa che insegue i randagi è tenuta all’altezza dei cani, il mondo è visto alla loro altezza, al loro passo, dalla loro prospettiva. La rappresentazione si costringe a una reinterpretazione della visione del mondo, e quindi di sé, e si allunga in una proiezione dell’inesplorato in cui è questo, l’imprevedibilità sempre deviante del mondo nuovo, a informare la rappresentazione e non viceversa: il solo sguardo, la sola visione, non produce oggetti, siccome il concetto di oggetto scompare, ma diventa progettato dal nuovo mondo, pro-gettato all’inseguimento di questo mondo che sfugge in avanti, rallenta, si ferma, guarda all’indietro, guarda chi guarda ridescrivendo lo sguardo. 

Questo ripiegamento dello sconosciuto si sente particolarmente nella scena più celebre del film, quella dell’uccisione da parte di uno dei cani di un gatto. In questa scena – che, a differenza delle altre, non è avvenuta sotto il “controllo”, per quanto limitato, della regista e del regista - la sospensione dei referenti prospettici diventa sospensione dei referenti morali: di fronte all’azione dell’animale è necessario sospendere la morale, entrare in una sfera extra morale. La moralità dello sguardo, che giudica l’atto dell’animale come sbagliato o violento, è sospesa, disorientata, perché non si applica e non può applicarsi a questo mondo: la morale è un costrutto non naturale, l’etica è originaria dell’umano e per questo le sue categorie non possono spiegare o giudicare un evento non umano. Il confronto con l'altro, così lontano dalle costruzioni rappresentative e in particolare dall’antropomorfizzazione con cui ci si misura rispetto agli animali (la trasfigurazione antropomorfa pervasiva che comporta l’eclisse dell’animale come altro è la misura standard della rappresentazione animale), causa una forte problematizzazione dello sguardo umano e una sospensione dell’etica. Non c’è forse altro modo per consegnare la rappresentazione a un limite invalicabile che mostrare la sospensione della rappresentazione migliore: in questo caso la rappresentazione migliore è quella etica, cioè quella che si sospende e riconosce l’alterità completa dell’animale. Alterità incomprensibile.

space

Nella misura in cui l’altro è davvero altro, lo sguardo di fronte all’altro è una possibilità di incontro e non un prolungamento del sé: la distinzione tra soggetto e oggetto, in cui l’oggetto è oggetto da utilizzare, utensile in prospettiva d’uso o prospettiva comprensibile, non è più l’orizzonte in cui si inscrive la visione. La sospensione, cioè il disorientamento, dello sguardo non è però l’unico momento costitutivo del film, perché come si diceva il limite è reso produttivo, non porta all’annullamento ma alla trasfigurazione della rappresentazione, al suo riorientamento. Questa trasfigurazione è opposta a quanto si vede nelle scene d’archivio che raffigurano gli esperimenti sui cani mandati nello spazio e nel racconto sulle tartarughe lanciate in orbita: mentre in queste scene gli animali sono ancora oggetti idealizzati, utilizzati in nome del progresso scientifico per scopi umani (progresso che si pone in contrasto con la natura mitologica dell’animale, con il precipitato iconografico divino, come nel caso della tartaruga, che si pensava sostenesse il mondo) nelle ultime sequenze del film lo sguardo antropocentrico e prospettico disorientato viene riorientato dalla consapevolezza del suo limite. Questo processo concettuale è dissolto in una soluzione formale, in uno zoom che lentamente trasforma un campo lungo ad altezza umana in cui una tartaruga al centro è quasi invisibile in un campo dominato dalla tartaruga stessa: nel processo in cui lo sguardo spettatoriale si trasfigura di metro in metro, è ridefinito, ri-formato. 

Se in questa scena si squaderna il senso estetico, sensibile, scopico, dell’esperienza di trasfigurazione, nel finale del film si sente il contraccolpo etico di una rappresentazione che si è annullata per riformularsi: perché nella ultime scene in cui dei cuccioli di cane vengono uccisi da un mondo disabitato e avvelenato, in cui solo uno di loro sopravvive, ultimo e primo assieme, e compie pochi passi nel mondo di fronte a sé, si sente il peso tragico della storia dell’annullamento di un'alterità, la storia di una sopraffazione (quella degli “space dogs”, riletta tramite il segno vittima dei cani randagi abbandonati), e l’interrogarsi del cinema di fronte a essa, l’interrogarsi sul proprio ruolo di partecipazione in questa storia tragica di sofferenza e rappresentazione di questa sofferenza. Un interrogarsi dello sguardo cinema che prende la forma paradossale dell’uscita da sé attraverso se stesso, in una continua proiezione, come si scriveva, disorientata, sospesa, quindi aperta, gettata nel mondo, e poi formata da questo mondo, attraversata da esso, prima di essere di nuovo visione. 

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Elsa Kremser Levin Peter 91 minuti
Austria, Germania
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Pieces of a Woman

di Andreina Di Sanzo
pieces-of-a-woman-recensione

Il profumo di una mela è l’ultima traccia che Martha (Vanessa Kirby) conserva della sua perdita. Una tragedia con tutte le conseguenze che può avere, un lutto che si riflette nella città, con il passare delle stagioni e nel fiume che attraversa Boston, come fosse il custode di quel tumulto familiare. Pieces of a Woman è il dramma di una donna che deve sopravvivere al dolore per la perdita della sua bambina, ma è anche il percorso di accettazione e di liberazione dalle imposizioni esterne, sociali e familiari. 

Martha vuole fortemente partorire in casa, assistita dalla sua ostetrica di fiducia e dal suo compagno Sean (Shia LaBeouf). Per una serie di circostanze però, l’ostetrica viene sostituita da Eva (Molly Parker) che dovrà affrontare le complicazioni del parto.
La prima mezz’ora del film si regge su un lungo piano sequenza che mostra il travaglio di Martha e il parto. Kornél Mundruczó decide di seguire tutti i passaggi che la donna deve affrontare, la macchina da presa è vicina ai corpi ed entra così in un dramma familiare indelebile che porterà delle inevitabili fratture e vite sgretolate. Pieces of a Woman, scritto da Kata Wéber, compagna del regista, proviene da una pièce in continua evoluzione che nasce a sua volta dalle testimonianze di diverse donne che hanno subito la perdita dei propri neonati. Il film è diviso infatti in due atti, il primo costituito dalla sequenza del parto e il secondo che comprende tutto il blocco del film in cui Martha, Sean e la famiglia affrontano il lutto in ogni sottigliezza. Il titolo lo vediamo comparire proprio alla fine della sequenza del parto, quando la morte della piccola Yvette frantuma la protagonista e la donna diventa pezzi di donna, piccole parti di dolore.

Oltre alla struttura in due atti però, il film di Mundruczó procede in un’ulteriore suddivisione per date dei momenti che seguono la vicenda, ma soprattutto la tragedia viene mostrata e scandita dal passare delle stagioni che quasi riflettono il punto di elaborazione. L’arrivo dell’autunno con la morte, l’inverno e le sue gelate, punto massimo del dolore, la primavera con l’accettazione e infine l’estate con la rinascita e il fluire verso un nuovo ciclo vitale. Mundruczó realizza un dramma che da un lato ha una sua potenza nella forza espressiva della prima parte, con un esplicito riferimento al primo Cassavetes, dall’altro prosegue nel melodramma da impianto teatrale nel secondo atto, più vicino così a La sera della prima. Poi abbiamo le meravigliose performance attoriali di Kirby, LaBeouf, Parker e soprattutto di Ellen Burstyn che interpreta la madre di Martha, tutte superbe e indimenticabili. Ma nonostante questi punti così solidi e centrali, Pieces of a woman colpisce appunto nei piccoli pezzi. Nei dettagli e nei gesti degli personaggi, negli elementi che ritornano come il fiume, i semi di una mela, le piante da interno appassite e quelle rigogliose, gli occhiali di Eva, il cappello di Sean. Se tra le sequenze più significative troviamo quella del pranzo nel giorno del Ringraziamento, in cui tutto l’irrisolto di una famiglia viene a galla, tra le più penetranti e dolorose c’è sicuramente il tentativo di fare sesso da parte della coppia distrutta dalla perdita. I due protagonisti, goffi e arrabbiati, lottano l’uno contro l’altra nel tentativo di ricucire un rapporto ormai distrutto.

Pieces of a Woman riflette inoltre anche sul discorso di classe: Martha, raffinata di famiglia benestante, incasellata in certe dinamiche familiari che la vogliono perfetta e mai fallita; Sean, operaio, ex tossicodipendente e alcolizzato, più burbero e istintivo, umiliato dall'atteggiamento della madre di Martha, che non lo ritiene capace di affrontare economicamente la vita di coppia; Elizabeth, la donna privilegiata, ebrea, portatrice di memoria del dolore ma nonostante questo completamente risucchiata in un’élite arrogante. Solo la tragedia porta allo stravolgimento e all’evoluzione da quelle dinamiche: certa stanchezza nei confronti delle convenzioni e il dover dare agli altri ciò che si aspettano. Solo così Martha, rinunciando alla ricerca forzata di un colpevole, accetta la casualità della vita, si assume le proprie responsabilità ponendo l’ascia da guerra della vendetta contro la madre e abbracciando la perdita che si risolve nel nuovo eterno ciclo vitale.

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Kornél Mundruczó Vanessa Kirby Shia LaBeouf Ellen Burstyn Molly Parker Benny Safdie 128 minuti
USA, CANADA 2020
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The Undoing

di Emanuele Di Nicola
The Undoing di Susanne Bier

Non tutti possono essere un “autore”, come lo intendevano i Cahiers nel secolo scorso: Susanne Bier non lo è. Non tutti possono fare cinema raffinato e stiloso, corteggiando il pubblico con una serialità elegante, cesellata e tutto sommato rassicurante: Susanne Bier non lo fa. È la premessa per avvicinarsi a The Undoing, miniserie in sei puntate tra i prodotti più discussi di questo inizio 2021: tratta dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz, creata e scritta da David E. Kelly, già responsabile di Big Little Lies, e interamente diretta dalla regista danese. La storia è la solita storia: c’è una famiglia alto-borghese di New York composta da un noto oncologo infantile, Jonathan Fraser interpretato da Hugh Grant, sua moglie Grace raffigurata in Nicole Kidman, il figlio pre-adolescente col volto di Noah Jupe. La comoda routine dei ricchi viene “disturbata” da una ragazza di classe sociale inferiore, Elena Alves ovvero una splendida Matilda De Angelis, che si avvicina a Grace per motivi di beneficenza e poco dopo viene trovata morta: si scopre allora che conosceva anche Jonathan (piuttosto bene) e la ridda dei segreti inizia a venire in superficie.

Fin dalla sua apparizione sulla rete HBO le stroncature sono piovute sull’opera e, diciamolo subito, tutte legittime: le inesattezze e gli inciampi sono molteplici in questo racconto di 340 minuti, che chiede una continua sospensione dell’incredulità a chi vorrà sostenerlo. A partire dalla premessa che reimpagina un archetipo primario di tanto cinema e letteratura, la famiglia ultraricca con un segreto, l’adulterio nascosto sotto il tappeto, tra una New York softcore alla Adrian Lyne e lo scandaglio nel rimosso borghese di Chabrol, che fa sempre rima con morte. Vi sono poi alcuni segni grafici che segnalano un’ambizione folle e smisurata: innanzitutto la presenza di Nicole Kidman che si interroga sulla reale natura del marito, vent'anni dopo Eyes Wide Shut ma alle prese con un simile dilemma, naturalmente senza evocare l’ambiguità, l’indecidibilità e la traccia onirica del film di Kubrick. Al contrario The Undoing è un giallo che si nutre di stereotipi: l’omicidio della bella ragazza, i sospetti, il velo gradualmente squarciato, il rapporto tra moglie e marito da ricodificare, con lei che non sa più come porsi e costituisce l’essenza psicologica della serie. E poi ci sono gli indizi, le false piste, gli avvocati, il processo, il legal thriller. Solo che le motivazioni dei caratteri non vengono approfondite né sfaccettate, Grant e Kidman fanno Grant e Kidman, ovvero pronunciano le rispettive battute contraendo le rughe del volto (lui) e sgranando gli occhi umidi (lei). Donald Sutherland è il padre di lei che buca lo schermo, ma allo stesso modo veste tratti tipici. All'operazione si possono tranquillamente imputare una regia convenzionale, una cattiva direzione degli attori, una scrittura automatica della suspense.

The Undoing di Susanne Bier

Unendo i puntini The Undoing sarebbe quindi un “normale” fallimento. Pero c’è Susanne Bier. Ex regista del Dogma di fine anni Novanta, duramente criticata da Lars von Trier che la odia, capace di una svolta commerciale che l’ha portata perfino all’Oscar come migliore film straniero (In un mondo migliore, 2011, titolo originale: “vendetta”), la Bier porta avanti una sua idea personale di come si fa cinema: eccessivo, sguaiato, urlato in ogni fotogramma. Se farà la tragedia sarà irredimibile e senza speranza: si svolgerà tra traumi e tumori, morti violente, situazioni irrecuperabili, oscenità in campo, come il bambino morto di Second Chance, etica discutibile, come il neonato che viene sostituito nello stesso film. Se invece si applicherà alla commedia, questa si giocherà tra balli e baci, tramonti esangui, segreti da scoprire. I limoni di Sorrento sono l’oggetto-simbolo di Love is all you need, titolo in sé già sintomatico, come tutti i titoli della Bier che si rifanno spesso a pulsioni basiche (amore, vendetta, e così via). The Undoing non fa eccezione. Come poteva la danese dedicarsi a una tale miniserie? Semplice: schierando le armi dello stereotipo elevato all’ennesima potenza. È una regista maleducata, Susanne, al contrario di tanto cinema “preciso” è una scapigliata: ecco che l’esagerazione si impone fin dall’inizio, con la sequenza di nudo di Matilda De Angelis che svolge una precisa funzione narrativa, di provocazione, ma anche di rivelazione, perché la ninfetta dopo il marito si “mostra” alla moglie, in modo teoremico, conquistando di fatto anche lei (il bacio in ascensore). È il presagio, ovviamente eccessivo, dell’omicidio.

Susanne Bier mette il genere in iperbole: tutto può succedere, colpi di scena improbabili si susseguono, ogni finale di puntata contiene un cliffhanger parossistico. I sospettati infatti sono tutti, perfino un bambino: la regista sposta vorticosamente l'attenzione dall’uno all’altro, fa pensare che chiunque può essere il colpevole, salvo infine rivelarlo (no spoiler) con un epilogo che è prova decisiva della sua concezione. D’altronde, col senno di poi, un indizio sulla soluzione era contenuto nella sigla della serie, con quella bambina che scorre sulle note di Dream a Little Dream cantata da Nicole Kidman, e che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi. L’operazione è risaputa, non può dirsi “riuscita” nel senso tradizionale del termine, d’accordo, eppure seguendo il racconto emerge una strana sensazione: e se la Bier l'avesse fatto apposta? Se ci stesse fregando tutti? Vedendo la Kidman che cammina per la città avvolta nei suoi cappotti senza un capello fuori posto, ottimo lavoro di costumi e make up, il dubbio viene: se questa fosse una meta-Kidman che fa una meta-sfilata a 53 anni? Vedendo un giallo assurdo che passa da un sospetto all’altro, non stiamo forse guardando un giallo assurdo che riflette sulle assurdità del giallo? E, più in generale, una serie ricattatoria che fa la parodia del ricatto intrinseco in ogni serie, della dipendenza che provoca nello spettatore?

The Undoing di Susanne Bier

Da sempre Susanne Bier manovra il potere distorsivo delle immagini con profonda consapevolezza: in The Undoing non sta solo praticando un genere, ma lo sta sabotando attraverso l’esagerazione, con la sua sfacciataggine ne isola i lati ridicoli e parodici. Nel nostro tempo post-tutto, chi se ne importa di sapere chi è l’assassino, meglio godere di Grant e Kidman in un perenne confronto volgare e senza pudore. A proposito di The Undoing, un commento ricorrente è stato: «Bruttissima, ma non riesco a smettere». Allora rispettiamola, questa serie: nella stessa misura in cui rispettiamo il nostro piacere che non è mai colpevole, tanto il colpevole non importa, conta solo il meccanismo.

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Susanne Bier Nicole Kidman Hugh Grant Matilda De Angelis Donald Sutherland 6 puntate
Stati Uniti
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Lasciali parlare

di Pietro Lafiandra
Let Them All talk - recensione film soderbergh hbo

C’è una scena in Panama Papers – secondo film Netflix di Steven Soderbergh e sua terzultima opera, per quanto uscita soltanto nel 2019 – che da sola potrebbe servire a descrivere tutto il suo cinema. Siamo all’inizio del film, Gary Oldman e Antonio Banderas stanno spiegando la nascita della valuta guardando negli occhi lo spettatore, rompendo la quarta parete e ripercorrendo il modello della scena della vasca ne La grande scommessa di Adam McKay. Oldman e Banderas (che incarnano rispettivamente i due avvocati panamensi Jürgen Mossack e Ramón Fonseca) camminano e mentre camminano il discorso si fa sempre più complesso tra il concetto di credito e la dematerializzazione del denaro. Poi, il futuro. Quel futuro che è il nostro presente, il panorama impalpabile di criptovalute, «merci di prima necessità, prestiti, azioni, bond, fondi e fondi di fondi… parole invisibili, astratte, molto diverse dalle mucche». E allora i due entrano in una discoteca, alzano il tono di voce, urlano, quasi. Le luci al neon, il vociare, le persone, la musica. Il rumore. Soderbergh – a differenza di McKay, che utilizza il potere erotico dell’immagine (Selena Gomez al tavolo da poker, Margot Robbie seminuda nella vasca) per imprimere nella memoria concetti complessi – non smette mai di informare, di far dialogare suono, quadro e sceneggiatura. Parola e immagine nei suoi film scorrono su linee parallele in cui nessuna delle due prende mai il sopravvento sull’altra. Il suo è un cinema politico, a volte persino militante, pedagogico ma mai moralista, dove narrazione, attivismo ed estetica raggiungono una sintesi perfetta.
Non fa eccezione il suo ultimo Let Them All Talk, film HBO Max che, se sembra parzialmente accantonare l’analisi sociologica dei precedenti Panama Papers  e High Flying Bird per abbandonarsi al microcosmo intellettuale di una nave (un non luogo dove una scrittrice affermata fa i conti con le proprie radici, gli amici perduti e traditi, la famiglia, gli amori, le ambizioni e lo spettro della morte), al contempo resta fedele a un’idea di cinema talmente sincera e talmente matura, ragionata e puntigliosa, da potersi mostrare in maniera mite e dimessa, come se non stesse succedendo niente.

Soderbergh, e questo è il grande pregio del suo cinema politico-oggettivo, lascia che i personaggi si mostrino per quello che sono e delega a noi il compito di giudicare. Rifiuto dei barocchismi. Mai un punto macchina sperticato, mai un’angolazione antinaturalistica. Talmente perfetto e consapevole da potersi concedere anche la semplicità e qualche voluta goffaggine (cosa che solo i grandissimi…). Uso del grandangolo, a volte molto accentuato, certo, ma più per restituire gli ambienti nella loro interezza e i personaggi inseriti al loro interno piuttosto che per deformare e inquietare a ogni costo (con Unsane come piacevole eccezione). Niente piani olandesi, banditi i carrelli, pochi piani sequenza, la macchina da presa sempre all’altezza dei personaggi. This is what you get. Meryl Streep libera di fare Meryl Streep e al contempo di farci dimenticare che è Meryl Streep (cosa non facile, quando sei un’icona del cinema). Amori che non sbocciano. Litigi. Amicizie che nascono, altre che muoiono definitivamente. Morti delicate, notturne. Pranzi. Cene. Cuori infranti, ma neanche troppo. La vita che scorre. Praticamente niente, fondamentalmente tutto. Sembra di leggere Flaubert.

Va da sé che di una regia così precisa ed educata a beneficiarne sono soprattutto gli attori. E Let Them All Talk non è solamente la chiave di lettura per un film che indaga il concetto stesso di narrazione e letteratura, che sia il romanzo della propria vita, il fraintendimento dovuto all’uso impreciso delle parole, il dialogo, lo scontro, né una meta-dichiarazione di intenti sul metodo di lavorazione della sceneggiatura (gli attori sono per la maggior parte stati liberi di improvvisare i dialoghi) e del profilmico (a parlare senza imposizioni sono anche le luci naturalistiche del set, a ulteriore prova della rilevanza data dal regista a entrambe le dimensioni). Let Them All Talk è soprattutto un manifesto poetico, il simbolo di un cinema talmente innamorato dei suoi personaggi da non voler essere tirato in causa in nessun tipo di critica o giudizio, così affascinato dalle proprie storie da voler centellinare e intrecciare parole e immagini nella maniera più naturale e fluente possibile. È cinema al tempo presente e del tempo presente.

Se Soderbergh è stato il regista del 2020 (difficilmente la continua trasmissione televisiva di Contagion durante il Lockdown verrà dimenticata) non sarà certo per delle fantomatiche abilità nella divinazione. È il regista del 2020 perché il suo è un cinema talmente informato (inquietante, che questa sua qualità stupisca), pensato, dettagliato, onesto, ricercato e radicato nel reale da poter, sì, risultare predittivo, ma soprattutto – sarò melò – emozionato ed emozionante. E penso che conti ancora. Voglio immaginare e sperare che il cinema possa ripartire – o meglio, continuare – da qui: fateli parlare tutti. Cento anni ancora di Steven Soderbergh.

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Steven Soderbergh Meryl Streep Candice Bergen Dianne Wiest Gemma Chan Lucas Hedges 113 minuti
USA 2020
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SanPa – Luci e ombre di San Patrignano

di Alessio Baronci
SanPa – Luci e ombre di San Patrignano - recensione serie tv netflix

Forse l’approccio giusto per entrare in profondità in SanPa – Luci e ombre di San Patrignano, il documentario Netflix ideato da Gianluca Neri e dedicato a Vincenzo Muccioli e alla comunità di recupero da lui fondata, consiste nel partire dal progetto seriale senza però perdere mai di vista l’ecosistema della piattaforma in cui si è sviluppato.
A posteriori, colpisce in effetti quanto SanPa sia inscindibile dalla dimensione digitale che lo contiene rappresentando al contempo un unicum per il modo in cui si interfaccia con quello stesso spazio, attraverso uno sguardo clinico e una concretezza che sono alle fondamenta del linguaggio documentario. Si tratta di un dualismo tanto stilistico, con il documentario che si muove liberamente tra la tradizione Rai e il netflixiano Wild Wild Country, quanto ideologico, legato allo sguardo con cui gli autori scelgono di osservare il caso Muccioli. Perché se è vero che il modo in cui la diegesi lascia che a ricostruire la vicenda siano le parti coinvolte (senza forzature e con grande oggettività) è quasi spiazzante, non bisogna credere che il racconto di SanPa non sia orientato.

A prendere posizione è infatti lo spazio digitale, che accoglie il progetto e che reattivamente struttura segni, spunti, ideologie in un dialogo costante, una dimensione che la diegesi modella e direziona per svelare le ambiguità di strutture apparentemente perfette. E dunque se è chiaro che SanPa non perde mai il suo approccio eminentemente biologico, che lo porta a osservare la comunità come si farebbe con un essere vivente che nasce, matura e muore, è altrettanto vero che il digitale viene usato alla stregua di un bisturi utile a svelare il male oltre le apparenze. Del resto lo spazio comunitario di San Patrignano si sviluppa già a partire da un coacervo di immaginari deviati, tra le ceneri dei libertari anni ’70 e il lato oscuro dell’edonismo anni ’80, ma colpiscono soprattutto le argomentazioni che SanPa sviluppa nel momento in cui si concentra sul corpo di Muccioli.

La diegesi sottolinea di continuo come il destino della comunità si rifletta sulla fisicità del suo fondatore. Imponente nel momento di massimo splendore della sua creatura, sempre più esile e smunto negli anni della decadenza, il corpo di Muccioli cresce in maniera direttamente proporzionale alla sua tracotanza, assorbendo e rilanciando schegge di un’ideologia italiana passata e inquietanti presagi della forma mentis che verrà. In Muccioli trovano spazio tanto l’autoritarismo reazionario pre ‘68 quanto quella pervasività dei media, quella manipolazione dell’informazione, quel populismo, quella vetrinizzazione della propria identità che saranno alla base di certa ideologia degli anni ’00. Con lungimiranza, SanPa porta alla luce il paradosso di Muccioli, un uomo che diventerà egli stesso un’immagine della cultura di massa pronto a manipolare altre immagini, quelle legate alla percezione che la società ha della sua comunità, nascondendo tanto le torture agli ospiti quanto i sospetti sulla sua sieropositività.

sanpa muccioli

È poi evidente quanto il dialogo tra racconto, linguaggio e libera interazione con gli immaginari coinvolga anche il modo in cui la vicenda viene raccontata. Man mano che ci si avvicina alle tesi centrali di SanPa, infatti, le forme del documentario si assottigliano fino a diventare altro, quasi fossero alla costante ricerca di una struttura adatta a mediare una verità complessa da metabolizzare. La storia di Muccioli e di San Patrignano parte dunque seguendo le coordinate di una storia di ascesa e caduta all’americana, vira improvvisamente sui sentieri del thriller e si conclude in un ultimo atto che ha tutti i crismi di un mafia movie.
Sebbene alcuni commentatori abbiano messo in luce quanto proprio attraverso SanPa Netflix abbia assunto lo status di divoratore di immaginari, capace di risucchiare persone, fatti, tragedie ma anche vecchi statuti della comunicazione, è impossibile non soffermarsi sul versante più luminoso di quest’interazione tra Storia, cronaca, piattaforme e dimensione digitale: è indubbio infatti che SanPa legga Netflix e lo spazio digitale da un punto di vista quasi pre-internet, come zone franche, luoghi di confronto ideali per sviluppare argomentazioni complesse e sfaccettate senza costrizioni ideologiche.

Al di là della cura attraverso cui ricostruisce un rapporto maturo con i fatti e le opinioni, ciò che colpisce di SanPa è la sua anima duplice come il linguaggio che ha scelto di adottare, vivacissima nel rapportarsi alla duttilità del digitale ma anche lucida nell’ammettere la propria finitezza. SanPa sa che la sua è solo una delle verità possibili, solo una tra le versioni di una storia, magari la più plausibile ma costantemente rilanciabile, precisabile, degna di approfondimento, a suo modo malleabile, forse essa stessa ambigua, come quel digitale che la sostanzia ma anche come le parole di coloro che negli anni hanno considerato Muccioli tanto una minaccia quanto un salvatore.

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Gianluca Neri Cosima Spender Miniserie da 6 episodi
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Soul

di Alessio Baronci
Soul - recensione film pixar  netflix

Soul  è forse il tassello più maturo del percorso autoriale organizzato da Pixar fin dagli esordi, ma intrapreso con evidenza solo negli ultimi anni. Da Toy Story 3, l’azienda di Emeryville ha infatti approfondito il modo in cui si rapporta al suo pubblico, sviluppando prodotti tematicamente stratificati e dalla complessità crescente, caratterizzati da una morale sfaccettata. In questo modo il cinema della Pixar diventa un’entità viva, che interagisce con ampi strati di pubblico, cresce con i suoi spettatori e sviluppa riflessioni in un continuo rimpallo tra testo e sottotesto.

All’interno di questo percorso emerge la personalità di Pete Docter, che da Inside Out, da un film che invita il suo spettatore ad accettare la tristezza come elemento fondamentale della propria vita, ha iniziato una personale ricerca all’interno di una sorta di spazio taboo, lavorando su tematiche complesse che lo spettatore solitamente tende a rifiutare (e certo cinema a evitare). Da questo punto di vista, Soul, che Docter dirige con Kemp Powers, è anche un primo approdo del suo studio, un film tanto coraggioso quanto incosciente, che forse, estraniandoci per un attimo dal sistema, ha amplificato la sua portata attraverso la distribuzione in streaming.
L’intimità della visione casalinga ha creato infatti lo spazio protetto ideale per ricevere un film che è un’antologia di quell’indicibile a cui si è accennato, un racconto in cui la morte è sempre in scena, mai negata, una narrazione che si popola di personaggi ambigui, di ossessioni, di follia, di anime perdute alla ricerca di uno scopo.

Soul sviluppa una narrazione inquieta al servizio di una morale tanto evidente quanto impietosa, che se da un lato invita a vivere il momento, ad abbracciare il reale e la sua concretezza, dall’altro ridimensiona il ruolo di elementi rassicuranti come il destino e il talento, invitando gli spettatori ad accettare il cambiamento e a maturare affrontando percorsi di vita imprevisti. Attraverso Soul la Pixar abbraccia, senza scappare, i lati oscuri dell’esistenza ma soprattutto utilizza la griglia tematica da lei stessa tracciata per avviare un’autoanalisi del suo immaginario, del suo rapporto con il medium, alla ricerca di quella concretezza, di quella tangibilità che è il centro tematico di Soul. Il film di Docter e Powers diventa dunque un inno al mondo reale, alla grana analogica che ci circonda, ricercata, ritrovata e amplificata attraverso il medium.
Soul verrà dunque ricordato per il suo insolito passo realista, per il modo in cui cattura l’anima complessa di New York, per come la regia dialoga con la liveness dell’esibizione musicale ma anche per l’ambizione che lo muove, per la volontà di riordinare un intero immaginario nel tentativo di spogliare un’immagine stratificata dal digitale fino a quella concretezza che la faccia tornare in contatto con il reale.

soul pixar recensione film1

Non è casuale che il viaggio di Joe inizi in uno spazio asettico e malleabile, corrispettivo di una realtà che, plasmata dal digitale, può assumere qualsiasi forma l’utente voglia. A partire da questa dimensione iperconnotata, la diegesi mina costantemente l’immagine, ne modifica i tratti essenziali sporcandola di spunti a bassa definizione (dal montaggio rapido tipico dei video virali al tratto essenziale di Osvaldo Cavandoli) tentando al contempo di ricostruire un’archeologia dello spazio digitale, che si sposta tra passato e futuro del medium, tra la guida Spargivento, santone New Age, al comando di una rete interconnessa di anime che parla come uno dei primi teorici di internet, e l’immersione dell’anima di Joe nel corpo di un gatto, momento che ricorda il download dal sapore cyberpunk di una coscienza in un altro corpo. Emblematico, a margine, quanto il viaggio di Joe sia puntellato di momenti che evocano l’atto del guardare e l’immagine cinematografica, simboli guida che ricordano, costantemente, l’oggetto dell’analisi. Da questo punto di vista è evidente quanto la fine del viaggio di Joe, il momento in cui l’uomo riabbraccia la concretezza della vita, sia anche il momento in cui l’immagine riprende di nuovo contatto fruttuoso con il reale.

Soul è forse il progetto più maturo della Pixar, un film attraverso cui lo studio sposta verso nuove coordinate il proprio stile e si spinge fino a interrogare il medium stesso. Soprattutto, il film di Docter e Kempers stupisce per la lucidità delle sue argomentazioni e per la volontà di abbracciare la sua stessa morale accettando le contraddizioni del suo essere. Soul si riappropria del reale ma nel frattempo negozia, senza mai rifiutarlo, con quello spazio digitale che media il suo rapporto con la realtà, una dimensione che al massimo il film può riordinare ma mai escludere, alla stregua di una parte essenziale del proprio essere.

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Pete Docter Jamie Foxx Tina Fey 100 minuti
USA 2020
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Ieri/oggi - Tornare a "The Social Network"

di Saverio Felici
The Social Netwrk recensione film David Fincher

Il facile bilancio di vita, il the way we were nostalgico che si accompagna puntuale al recupero di vecchi classici, suona straniante parlando di un oggetto come The Social Network. Il film che, tra le altre cose, testimonia l'inizio della scomparsa di una temporalità storica in favore del nuovo eterno presente dei media digitali (dove la velocità è decuplicata e, al contempo, tutto si dissolve in un magma atemporale), non era un film “previdente” allora e non è infatti invecchiato adesso. Dire che sembra uscito ieri non è una frase fatta, ma la constatazione del suo stesso discorso. Pensare a cosa fossero le nostre vite prima dei social media dà quasi le vertigini, come si trattasse di rievocare un tempo impossibile; il decimo film di David Fincher è uscito appena dieci anni fa, ma l'era tecnologica che racconta ci appare più lontana del Muro.

Tutte quelle patologie sociali cui lo scorso decennio ha dedicato fior di analisi sociologiche a tinte strutturaliste/materialiste/cognitiviste sono a loro modo presenti nel vangelo del nuovo secolo di Sorkin e Fincher. Uno spartiacque, se vogliamo, nonché unico film ad aver inquadrato in tempo reale quelle mutazioni cui si sarebbe iniziato a dedicare la dovuta attenzione soltanto negli anni successivi – ma che già andavano manifestandosi nei prodotti più commerciali del cinema americano. Più che un acido-algido racconto gatsbyano, il testo pare quindi un manuale diagnostico, dove tutto è catalogato: la ricollocazione mostruosa e faustiana del Nerd all'interno del tessuto sociale; la nascita delle nuove élite imprenditoriali californiane della Silicon Valley; lo scontro a perdere dei vecchi padroni del mondo contro gli imperi computazionali dei nativi digitali; lo spegnersi degli impulsi edonistici dei nuovi yuppies in felpa, sostituiti da un'inedita frigidità esistenziale; la deflagrazione delle dinamiche relazionali (e classiste e sessuali) proprie dei college privati americani, oltre i muri delle università, e dentro il quotidiano personale e lavorativo di ogni fascia demografica.

La maniera in cui lo script di Sorkin serve davvero l'approccio da neurochirurgo delle immagini di Fincher, si coglie però nel lucido lavoro di dissezione che The Social Network applica alla mente rettilea del suo eroe, dei piccoli parassiti attaccati simbioticamente alla sua cancerosa figura - e di riflesso dell'umanità intera. L'epica base di tutta la narrativa americana è un'epica dell'autodannazione, e quella di Mark Zuckerberg sviscera la nevrosi di un personaggio tra il patetico e il vampiresco, un Charles Foster Kane del Sesto Potere in grado di anticipare, predatorio, le ossessioni annidatesi nel subconscio della connettività e dei flussi di informazione. Un new world order, quello da lui battezzato, indistinguibile dall'immenso corridoio di un'accademia privata ed elitaria, i cui feroci rituali di inclusione-esclusione sono ora traslati sulla Persona online – entità sì artificiale, ma depositaria di quel capitale di popolarità costituente la nuova valuta nell'era della messa a mercato del privato.

L'accentramento di questi flussi nelle mani di pochi miliardari, avremmo imparato col tempo, è questione intrinsecamente politica; ma la lettura del film al riguardo è volutamente interiore, individualista, masturbatoria come la mente del suo Uomo dal Sottosuolo. Attorno alla psiche dell'algoritmo umano Zuckerberg, iperstizione vivente auto-generatasi (chi è? da dove viene? cosa vuole davvero?) capace di spingere all'ultimo stadio le nuove tecnologie del controllo, decadono e si riassemblano i rapporti umani del ventunesimo secolo.

Il film inizialmente bollato come la cosa più vicina a un lavoro su commissione per David Fincher è quindi semmai il suo testamento teoretico: il discorso è sempre quello dell'identità, dell'immagine, e del mostrarsi e dissimularsi attraverso di queste. L'algoritmo-Zuckerberg è presentato come un grado zero dell'umano, anello di congiunzione con quella Macchina di cui sembra quasi un'emanazione inconsapevole – e che continua a servire, dietro una fragile maschera di filantropia. In apparenza, il suo Facebook restituisce agli individui una sorta di arbitrio sulla narrazione di sé stessi - ma c'è differenza tra i vecchi mogul dell'informazione centralizzata, e quelli moderni della liquidità? È qui che il cerchio si chiude, dieci anni dopo, ancora sul succitato Quarto potere. E sul filo trasparente che da Zuckerberg torna all'altro grande magnate della comunicazione al Cinema, convitato di pietra in nero e bianco troneggiante sull'ultimo stupendo film del regista, ancora dedicato ad apparenza, informazione, manipolazione.

Dieci anni dopo The Social Network, acquisire il controllo delle immagini e delle narrazioni non è più l'ambizione segreta di un giovane vampiro, ma l'ultima via di fuga di un outsider sconfitto. L'artificio sistematico operato sul reale, in questo caso non dai social media, dai blog o dalla stampa, ma dai film stessi (da Mank su Herman Mankiewicz, da Quarto potere su William Randolph Hearst, da The Social Network su Zuckerberg), arriva agli occhi del regista maturo non come mortifero esercizio di dominio, ma come arma di rivalsa – ultima chiamata per astrarsi dalle maglie brutali e fasciste dell'impero americano, di cui il vecchio e triste Mank è stato utile giullare. Dove il 2010 si apriva sulla voracità di Zuckerberg, invasato dall'urgenza isterica di assimilare e possedere l'altro-da-sé nella persona disperata di Erica Albright, il 2020 è un amarissimo commiato di addio; e la fame di storie e vite e immagini è diventata saturazione, nausea. Ma ripudiare il racconto deformato e deformante del Cinema non è possibile, neanche per denunciarne le contraddizioni: si può solo provare a riappropriarsene, come fa Mankiewicz, dopo averlo per decenni asservito a un potere senza volto. Strumento di controllo come di liberazione, è l'unico padrone in cui Fincher ancora creda.

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David Fincher Jesse Eisenberg Andrew Garfield Armie Hammer Justin Timberlake Rooney Mara 121 minuti
USA 2010
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