A herdade

di Damiano Garofalo
A Herdade - recensione film

Il fiume Tago attraversa e taglia in due la penisola iberica: nasce in Spagna, nella Sierra de Albarracín, e sfocia in Portogallo, nell’oceano Atlantico, presso la città di Lisbona. Sulle rive meridionali portoghesi, la famiglia Fernandes possiede una tenuta, una delle più grandi proprietà fondiarie di Europa. Le vite che la abitano si dipanano narrativamente a partire dal punto di vista del capofamiglia João che, tra il 1973 e il 1991 (con un breve preambolo sul 1946), attraversa tangenzialmente la recente storia del Portogallo.
Selezionato in Concorso a Venezia 76, A herdade di Tiago Guedes si presenta subito come un film molto classico, nei temi come nella messa in scena. Nonostante la produzione di Paulo Branco, però, il film non richiama quasi mai la tradizione del cinema moderno portoghese, quanto invece le forme del racconto melodrammatico e l’immaginario europeo/americano del grande dramma familiare (e vengono soprattutto in mente Novecento di Bernardo Bertolucci e La valle dell’Eden di Elia Kazan).

I cambiamenti relativi alla storia del Portogallo (la fase terminale dell’Estado novo di António de Oliveira Salazar, la caduta di Marcelo Caetano, la rivoluzione dei Garofani del 1974 e la crisi economica dei primi anni novanta) svolgono una funzione puramente contestuale. Guedes si dimostra più interessato a raccontare le conflittualità familiari, i tormenti di João Fernandes, le difficoltà nel gestire e coordinare i rapporti con la sua famiglia “allargata”. Per questo, A herdade finisce per non uscire quasi mai dal ranch di famiglia: si percepiscono, attorno a esso, i cambiamenti sociali e politici che toccano tangenzialmente le vicende personali di alcuni protagonisti, le cui personalità non vengono costruite in relazione alla soggettività politica. Quando João si reca al commissariato di Lisbona per recuperare un suo lavoratore, arrestato a causa del proprio credo politico, ribadisce di non voler mai più mettere piede nella capitale. Disinteressato alla politica, poco disposto ad appoggiare pubblicamente sia il regime di Salazar che le opposizioni progressiste, s’illude così di riuscire a mantenere un’armonia nel suo mondo.

Il dramma familiare, dunque, viene tutto costruito attorno all’impossibilità di João di gestire il potere, di tenere salde le redini della famiglia, di mantenere il controllo sulla sua tenuta mentre il mondo intorno a lui sta crollando: crisi politiche, sociali ed economiche si avvicendano nella storia, alcuni lavoratori se ne vanno alla ricerca di migliori fortune, i piccoli protagonisti crescono e diventano adulti, mentre João, sempre più inadeguato, continua a isolare e rendere impermeabile all’esterno il suo piccolo mondo antico. Guedes, allo stesso modo, tenta di gestire l’armonia formale costruita fin dalle prime sequenze del film senza mai osare: viaggia per circa 160 minuti a velocità di crociera, senza accelerare o esplodere nei territori sconosciuti del conflitto. Eppure questo A herdade, in tutta la sua leggerezza e prevedibile classicità, riesce comunque a emozionare. Come quando, nella sequenza finale, il ricongiungimento di João con se stesso, nell’atto di attraversare ancora una volta il fiume Tago, da bambino (trasportato da una struttura in legno galleggiante) come da adulto (a piedi nell’acqua), per rifugiarsi coi suoi pensieri nell’ennesima “casa” (allegoricamente diroccata), apre una traiettoria nostalgica e circolare, fornendo al protagonista la possibilità di ripensare alle scelte del passato.

Articolo pubblicato in collaborazione con Cinema e Storia - Rivista di studi interdisciplinari.

Categoria
Tiago Guedes Albano Jerónimo Sandra Faleiro Miguel Borges Ana Vilela da Costa 164 minuti
Francia, Portogallo 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Martin Eden

di Andreina Di Sanzo
MartinEden - recensioen film Pietro Marcello

Non è Oakland, città della baia di San Francisco, ma Napoli e quello che vi è intorno. Un Novecento indefinito, confuso, quel secolo breve di guerre, grandi ideologie e dittature. Come nel romanzo di Jack London, Martin Eden però è marinaio in terra ferma, l’irrequieto donnaiolo che salva da un’aggressione un giovane borghese che gli consente l’accesso a un mondo a lui lontano. Così Martin entra nella casa della famiglia Orsini, subito accecato dal candore di Elena se ne innamora, un amore che non si ferma alla purezza di quel volto ma si trasforma in sete di conoscenza, per emanciparsi da quella che crede sia la gabbia dell’infelicità, l’ignoranza. Inizia la sua trasformazione, legge, accumula sapere, nozioni, implementa il suo vocabolario cercando di raggiungere l’altezza intellettuale della donna che ama. È quella wilderness tanto cara a London che Martin vuole sopprimere a favore di un linguaggio forbito, modi sofisticati e la cultura come emancipazione ma anche come mezzo di lotta, forse poi fallimentare. Da qui una delle prime ambiguità del nostro personaggio: il Martin rozzo ma genuino e poi lo scrittore di successo, solo, infelice e autodistruttivo. Perché una volta messosi sullo stesso livello di quella classe che dapprima invidiava, il protagonista inizia la sua discesa verso il vuoto, realizzando quella condizione di continuo fallimento a cui l’individuo è destinato. E mentre fuori scoppiano i fuochi del desiderio di rivoluzione, Martin ormai acuto osservatore di quel mondo tanto ingiusto, esprime il suo scetticismo verso l’utopia socialista, abbracciando l’individualismo che lo porterà alla sua feroce e romantica caduta. Sceglie l’intellettuale Briss come suo mentore, alter-ego e padre di questo giovane e impetuoso alieno.

Dal romanzo più autobiografico di Jack London, Pietro Marcello realizza un film di purificazione e decadenza, un film stratificato che, partendo dal romanzo, mette in campo l’attualità: i migranti, la precarietà del lavoro, tutto attraverso invasioni di situazioni o individui apparentemente in contrasto con il film, negli abiti, nelle automobili o negli scorci della città. E lo fa anche nella forma: la classicità hollywoodiana, le rotture europee degli anni ‘60, incursioni di immagini d’archivio, i quadri che raffigurano navi, ora in viaggio ora che affondano, e i falsi found footage familiari che ritornano per spezzare il blocco del protagonista nella sua graduale consunzione.
La bellezza non salverà il nostro eroe romantico, uomo appassionato che lentamente comprende quanto sia effimera l’essenza della vita, l’artista che ha fatto della sua poetica qualcosa che si muove tra l’utopia socialista e l’individualismo anarchico; è l’emblema di quella ambiguità che lo porta alla sua distruzione. Martin il puro, Eden il mostro. L’ignorante felice, l’intellettuale incontentabile. Il marinaio sognatore, lo scrittore disincantato.

Martin Eden è un film di rifiniture, ramificato, un’opera che si muove tra i dettagli per comporre la sua ambiziosa totalità. Bisogna incantarsi davanti al film di Pietro Marcello, perdersi e poi ricomporre tutti i particolari che il regista dissemina per andare oltre le pagine del romanzo di London. Un riadattamento che non tradisce l’intento del grande scrittore americano, pur diramando una serie di questioni che si affacciano sulla contemporaneità.

Ciò che più colpisce del protagonista è la sua ossessione per il richiamo, come se da malinconico sognatore (ruolo perfetto per Luca Marinelli), tendesse sempre a qualcosa che non può ottenere. Il suo slancio verso il nuovo, lo sconosciuto, l’infinito: ora per l’amore, ora per il sapere e per il mare. Quel mare in cui non lo vediamo mai navigare ma a cui rivendica con forza la sua appartenenza, «quello che avete davanti è un malandrino, un marinaio» dice dalla cattedra di un’università. Ormai deturpato anche fisicamente dal suo dolore, dalla sua infelicità, persino nella sua bellissima casa, nei suoi abiti da ricco intellettuale, Martin non riesce a ignorare quel richiamo, si promette di andare in America, la terra del sogno ma resta ancorato alla sua indole selvaggia. Seduto sulla spiaggia come in estasi, ritorna a quel candore iniziale, con gli occhi lucidi, forse cercando ancora l’ultimo bagliore di emozione che solo l’orizzonte può dargli. D’altronde, lui appartiene al mare.

Categoria
Pietro Marcello Luca Marinelli Carlo Cecchi Jessica Cressy 127 minuti
Italia, Francia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Adults In the Room

di Giovanni Bottiglieri
Adults in the room - recensione film

P.I.G.S. (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) è l’acronimo presente in uno dei fotogrammi chiave di Adults in the Room, ultimo film del regista greco naturalizzato francese Costa-Gavras, presentato nel Fuori Concorso a Venezia 76. L’acronimo, appuntato su un pezzo di carta durante una riunione del Consiglio Europeo, è sintomatico della forte contrapposizione e dell’odio aprioristico nei confronti dei paesi latini d’Europa.

La pellicola ricostruisce, in maniera dettagliata e largamente comprensibile, i complessi meccanismi economico-politici che nel 2015 hanno accompagnato la gestione delle politiche di austerity da parte della coalizione della sinistra radicale di Tsipras. Questo film, tratto dall’omonimo libro dell’allora Ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (interpretato da Christos Lulis) adattato per lo schermo dallo stesso Costa-Gavras, sottolinea l’impossibilità di un vero dialogo tra le forze politiche nella “ristrutturazione” del debito e la gestione della dimensione mediatica che caratterizzarono quei forti scontri istituzionali, e gli enormi dilemmi vissuti dall’entourage del governo ellenico. L’immensa impalcatura della comunicazione pubblica si inserisce in una macchinazione surreale che favorisce la semplificazione delle vicende e l’immediata identificazione dei “buoni” e dei “cattivi” agli occhi delle popolazioni (e degli spettatori). Attraverso questa operazione, il regista non fa mistero della direzione delle sue convinzioni. Tuttavia, il pensiero si muove attraverso la scissione tra le promesse elettorali e le azioni pragmatiche da compiere che, nella “stanza degli adulti”, hanno la necessità di divenire soluzioni prodotte da accordi comuni (e non da diktat).

Il titolo dell’opera, che richiama il mondo adulto, sortisce un effetto ossimorico rispetto ai caratteri narrativi ed evidenzia in modo incisivo le tragiche responsabilità del Consiglio Europeo, in cui vige la legge del più forte: durante quei momenti, gli organismi di controllo ebbero una impropria rigidità, vanificando qualunque ricerca di un compromesso. Il terzo governo Merkel, che allora esprimeva Wolfgang Schäuble alle Finanze, appare come un nemico della sinistra di Tsipras, accecato dall’odio e dal pregiudizio per questi ultimi; il Ministro Schäuble (interpretato da Ulrich Tukur), con cui Varoufakis tenta invano di costruire un discorso risolutivo del ripianamento del debito greco nei confronti di BCE e FMI, è la figura più rigorosa e a cui sembra ricadere la maggior parte del peso in Consiglio.

Adults in the Room è un’opera densa e ricca di sfumature in continuo movimento, in cui la tangibilità dei personaggi e il susseguirsi degli eventi arricchisce l’apprendimento. Se dunque l’intento divulgativo è palese, la dimensione rarefatta delle immagini e la freddezza degli ambienti istituzionali restituiscono un chiaroscuro che tende al metafisico. Le brevi incursioni allegoriche risultano quasi del tutto scisse dalla narrazione principale, ma si integrano a livello ideale con il tono utilizzato durante tutto il film e ne arricchiscono il valore espressivo. Ciò che ne esce è un film poco emozionante, rivolto soprattutto a stimolare la dimensione cerebrale dello spettatore.

Articolo pubblicato in collaborazione con "Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari".

Categoria
Costa-Gavras Valeria Golino Georges Corraface Daan Schuurmans Colin Stinton 124 minuti
Francia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il Re

di Matteo Marescalco
Recensione The King - Point Blank

Nonostante le sue debolezze, questo nuovo originale Netflix contribuisce a rendere la carriera di Joel Edgerton sempre più interessante e ad affermare l’attore come uno dei più autoriali della sua generazione. Dopo le incursioni alla regia e alla produzione in Regali da uno sconosciuto – The Gift e in It comes at night, l’attore australiano si è reso protagonista di una riscrittura del mondo shakespeariano. Il re, infatti, ha offerto ad Edgerton la possibilità di affiancare David Michod nella stesura della sceneggiatura e di interpretare John, fidato consigliere di Enrico V e modellato sulla figura di Falstaff.

Dopo la morte del Re d’Inghilterra, Enrico IV, tocca al giovane figlio prendere le redini del suo Paese. Hal è un ribelle e non ne vuole sapere di alimentare le complesse dinamiche guerrafondaie della sua nazione. Eppure, sarà proprio in guerra che il ragazzo si “trasformerà” in Enrico V e dimostrerà ai suoi sudditi di essere in grado di ereditare il potere paterno.

Come si evince dal volto del giovane Timothee Chalamet, Il re è un prodotto Netflix costruito tenendo in considerazione un target ben preciso. I protagonisti del singolare adattamento, infatti, sono giovani alle prese con un complesso percorso di formazione, che, sulla carta, dovrebbe portarli a posizioni differenti rispetto a quelle di partenze. E, in effetti, a destare sospetti non sono tanto le conclusioni quanto il cammino poco convincente intrapreso da personaggi che non sembrano mai dilaniati dal peso e dalle conseguenze delle loro decisioni. La guerra è mostrata come un destino che si tramanda da padre e in figlio e da cui quest’ultimo è impossibilitato a fuggire. Ogni dinamica territoriale e geopolitica deve essere necessariamente risolta nel fango e nel sangue. Tuttavia, è molto probabile che la principale responsabile della costruzione di questo percorso poco convincente sia stata proprio la semplificazione applicata alle dinamiche del racconto.

Se, da un lato, la scelta di rinverdire il contenuto con il dichiarato obiettivo di conquistare un target giovanile porterà a compimento il suo proposito, dall’altro le ricadute relative allo svolgimento di un compito privo di particolari guizzi ed energia restituisce la sensazione di un compito svolto in modo diligente ma senza l’ambiguità e la sfrenatezza che avrebbe meritato. Nella restituzione di un racconto di formazione avvinghiato alla complessa dinamica degli intrighi di corte, Il re fallisce perché mette in atto una politica placida ed innocua, più attenta a fornire un vademecum sui modi in cui evitare di trasformarsi nei propri padri che a costruire un racconto forte e coinvolgente.

Considerando la presenza di un attore intelligente come Joel Edgerton, partito dall’interessante spunto di giovanilizzazione del progetto, è un peccato che il risultato definitivo, nonostante un apparato visivo degno di nota ed in grado di saper maneggiare l’immaginario di genere, si risolva in modo così sufficiente e privo di mordente.

Etichette
Categoria
David Michod Timothée Chalamet Joel Edgerton Ben Mendelsohn Lily-Rose Depp Robert Pattinson 133 minuti
Australia, USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Blanco en blanco

di Riccardo Bellini
blanco en blanco - recensione film court

Se la cinematografia cilena di Pablo Larraín, Patricio Guzmán e Miguel Littín si è spesso confrontata con il trauma recente del regime di Pinochet, Théo Court sceglie invece di affrontare il grande rimosso del proprio Paese, affondando lo sguardo tra le ombre del colonialismo, quando nella Terra del Fuoco, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si consumò il genocidio del popolo Selk’nam. Presentato alla 76 Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, Blanco en blanco racconta il viaggio nel cuore di tenebra della Terra del Fuoco di Pedro (Alfredo Castro), fotografo chiamato dal misterioso e potente Mr. Porter a immortalare il matrimonio di questi con la sposa promessa ancora bambina. Il corpo della giovane, inerme di fronte alla macchina fotografica di Pedro, fomenta nell’uomo un interesse morboso. Quando Mr. Porter lo viene a sapere costringe il protagonista ad accompagnare un gruppo di spietati coloni per documentarne le barbarie. Per Pedro sarà l’occasione di dare sfogo al proprio talento artistico, per i posteri invece la possibilità di confrontarsi con una pagina indelebile nella storia del colonialismo sudamericano.  

Théo Court è partito da un’immagine per il suo esordio nel lungometraggio. Un’immagine nata per glorificare le mire suprematiste dei latifondisti cileni e argentini (sostenuti dalle autorità statali) e oggi riconsegnataci come documento che attesta la vergogna del massacro. Da qui l’idea vincente di immaginare cosa potesse essere accaduto all’uomo che scattò quelle fotografie. È nella distanza percettiva tra il momento in cui sono state prodotte quelle immagini e quello in cui ci vengono restituite oggi, tra la sensibilità di chi si è reso complice e quella di chi ora osserva quell’orrore - e in questo Blanco en blanco è anche un film sul tempo - che si impernia infatti la crasi e l’interesse di Court per una vicenda ancora in cerca di un riconoscimento ufficiale da parte del parlamento cileno, dopo le proteste del 2007, quando il governo cominciò a parlarne minimizzando l’accaduto. Nelle due sequenze più importanti si sovrappongono così tre sguardi, quello freddo, oggettivo della macchina fotografica, quello partecipe e deformante di Pedro e quello di noi spettatori, chiamati a conferire un valore testimoniale a quelle immagini.

Due scene a macchina fissa con lo schermo in 4:3, a restituire il formato delle fotografie d’epoca. Nella prima, a inizio film, il corpo della sposa bambina pronto a essere impresso su pellicola da Pedro, il quale ne predispone lascivamente la postura; nella seconda, sul finale, i meticolosi e agghiaccianti preparativi con cui viene allestita la foto dei coloni vittoriosi assieme ai cadaveri degli indigeni. In entrambi i casi un atto di colonizzazione del reale, emblematizzato dal corpo della ragazza, immagine di una terra vergine (blanca) che la rapacità latente di Pedro - pronta a rivelarsi alla fine del film - vorrebbe possedere e prosciugare. Un’estetizzazione del male, quella in chiusura, che produce però un cortocircuito e richiama alla memoria quanto accaduto nel 2004 alle immagini scattate nel carcere di Abu Ghraib da alcuni soldati americani ai danni di prigionieri iracheni, immagini pensate, scattate, rigorosamente composte con logica spettacolarizzante, per essere rappresentazione iconica di una rivalsa sul nemico, e finite invece con il rivolgersi contro i loro stessi autori. Immaginando e focalizzandosi sul processo che ha portato alla realizzazione di questi scatti (di cui non vediamo mai gli originali), Court è inoltre attento a sottolinearne, con notevole maestria, la componente perversamente erotica sottesa allo sguardo di chi se ne fece produttore, per arrivare al contrasto tra la bellezza formale di quell’ultima inquadratura e l’atrocità di quanto vi è contenuto.  

Tra queste due immagini, Alpha e Omega di un percorso da Eros a Thanatos, si dipana la discesa morale di un uomo in quelle terre ancora selvagge ma già avvelenate dalla corruzione del conquistatore, riprese con un’estetica che talvolta cede il passo al western, dove il bianco abbacinante della neve sembra solo l’ultimo flebile grido di resistenza che invoca una luce (fisica e morale) che ne rischiari le ombre. A sostenere la prova di questo individuo inizialmente contrario ai piani degli sterminatori e poi sempre più invischiato nella macchina distruttrice, un Alfredo Castro che torna ai ruoli pruriginosi interpretati nei film di Larraín. Pedro potrebbe essere infatti un embrione del Tony Manero dell’omonimo film o del protagonista di Post Mortem, uomini che hanno smesso di vedere la realtà che li circonda, o perché soverchiati da una indifferenza alimentata dalla paura (Post Mortem) o alienati a tal punto da sovrapporre al reale il filtro allucinato delle proprie illusioni (Tony Manero). Uomini ossessionati da qualcosa, che hanno maturato un rapporto disturbato con l’immagine, e la cui mitezza occulta un animo rimodellato dalla violenza. Tre tappe di un percorso involutivo votato a un’escalation di brutalità che racconta, attraverso la nascita di un uomo nuovo, la storia del Cile. A conferire al film uno sguardo più aperto su orizzonti esistenziali, su Pedro incombe inoltre lo spettro del kafkiano Mr. Porter, potente burattinaio che né lo spettatore, né lo stesso protagonista (forse) conosceranno mai. La verità invece, quella sì, verrà un giorno, letteralmente, alla luce.

Categoria
Théo Court Alfredo Castro 100 minuti
Cile, 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

IT Capitolo 2

di Saverio Felici
It capitolo 2 - recensione film Muschietti

Forse la lettura migliore da dare a IT Capitolo 2 sta nel considerarlo un testamento sull'impossibilità sistematica di adattare determinate opere alla forma del lungometraggio visivo. Tale impossibilità, propria di mille capolavori letterari del passato, può essere forse aggirata, ma solo attraverso il tradimento, o la “riduzione”: il processo di ridurre, appunto, un racconto scritto indecifrabile alle sue componenti filmabili. Esaltando così i militanti della fedeltà, ma scontentando chi di tale racconto aveva amato altro. È ciò che fin da subito hanno fatto Andy Muschietti e Gary Dauberman, riuscendo nella spericolata impresa di fornire una controparte cinematografica quantomeno credibile all'opera più inavvicinabile del canone kinghiano.

I tantissimi che avevano amato il primo film del regista argentino per via della sua aderenza al materiale di partenza (un'aderenza comunque in sottrazione, limitata più che altro alle componenti estetiche), troveranno in IT Capitolo 2 il proseguimento perfetto, millimetricamente calibrato per un'ideale visione d'insieme da cinque ore. Un anno e mezzo separa le due lavorazioni, ma ad eccezione dell'improvvisa crescita fisica dei ragazzini adolescenti, la complementarietà delle due opere è tale da far pensare ad una lavorazione in back-to-back.
Dunque, riprendiamo dove ci eravamo lasciati, con ventisette anni di differenza. Nel 2016, sei dei sette ex Perdenti hanno abbandonato Derry, e vivono vite di discreto successo nelle metropoli industriali americane. Una chiamata li riporterà a casa, a ritrovare il tempo perduto dell'estate 1989, e affrontare il mostro senza forma che da bambini credevano di aver sconfitto.

L'approccio con cui Dauberman e Muschietti si sono mossi per scalare le 1400 pagine della montagna è sempre lo stesso, l'unico possibile. Le ventiquattro linee narrative del mastodonte simil-joyciano vengono portate a due, le diciotto chiavi di lettura intrecciate diventano una e mezza; il mostro c'è, è potente e cattivo, bisogna scovarlo e ucciderlo a sassate. Tutto sommato, una maniera onesta di (non) affrontare pozzi neri di cosmogonia metafisica e magia sexualis. Il linguaggio visivo non lo permette, o almeno non lo permette quello del mainstream americano contemporaneo: gli autori neanche ci provano, ed è giusto così.

In fondo, il problema taciuto alla base della patologica incapacità dell'opera kinghiana nell'adattarsi allo schermo, sta nell'intrinseca letteralità del maestro di Portland. Per essere lo scrittore forse più filmato del canone occidentale, Stephen King è straordinariamente lontano dal cinema. IT in particolare, in quanto suo lavoro più emblematico, è un romanzo che vive di parole. Digressioni, ricordi, memoria condivisa: biografie di personaggi immaginari, Storia di una città che non esiste. Un lavoro narrativo così totale è possibile attraverso l'accumulo diaristico di migliaia di pagine scritte, ma trasposto in fotogrammi qualcosa finisce lost in translation. Nel film del 2019, l'esempio più calzante di questo equivoco è Derry stessa: la cittadina del Maine è il vero protagonista dell'epica scritta, e il lettore impara a conoscerne ogni vicolo, ogni piazza, apprendendo la storia demografica e politica del suo passato, arrivando a sovrapporre la patria dei personaggi alla propria stessa città natale. In un film, tutto ciò non è possibile: il luogo-Derry è probabilmente l'assenza più triste del dittico di Muschietti, relegata sullo sfondo, a un paio di riprese aeree, ma essenzialmente muta agli occhi di uno spettatore che, banalmente, non la (ri)conosce.

Data per assunta questa intraducibilità (che tocca ovviamente svariate altre componenti del dittico: per analizzarle tutte ci vorrebbe un saggio grande quante il romanzo stesso), IT Capitolo 2 resta fedele alla sua lettura epidermica della storia dei Perdenti. Cercare temi che il film non può e non vuole affrontare è disonesto; lo spazio di analisi che resta chiede di valutare cosa c'è al di là di cosa non c'è, e se questo IT “letterale” faccia la sua figura per quello che vuole essere. In questa sua incarnazione, il film è quasi perfetto, e una degna seconda parte al già ottimo primo capitolo. Certo, è reso meno scorrevole da alcuni inevitabili problemi di assestamento (una certa ripetitività della struttura, il sacrificio in sala montaggio di una serie di comprimari storici ridotti a cameo – Bowers su tutti). Ma Muschietti ha trovato il suo IT, e nonostante le tre ore il film vola come un Annabelle.
La cosa migliore, quasi incredibile in un film come questo, è la perfezione del casting. Uno sciattissimo Ben - Jay Ryan a parte, i sette eroi sono meravigliosi, e da James McAvoy a Jessica Chastain filtra la consapevolezza di stare cimentandosi con personaggi classici della letteratura, e non con semplici pupazzi slasher: ne nascono interpretazioni complesse, pensate, come molto di rado capita di vedere nel cinema dell'orrore commerciale. In particolare, la coppia Bill Hader - James Ransone fa letteralmente suo il film, conferendogli la sua anima più forte e personale: non a caso, l'evoluzione del rapporto tra Ritchie e Eddie è l'unico vero tradimento imposto da Dauberman a King, e ciò per cui forse sarà veramente ricordato questo IT.

Di deludente c'è invece il personaggio del titolo: “It”, appunto, qui interamente associato alla sua incarnazione Pennywise. Al netto di qualche confusissimo rimando, la natura lovecraftiana e para-religiosa del “divoratore di mondi” viene messa da parte: resta il classico mostriciattolo che “può colpirti solo se ne hai paura”, una lettura alla Harry Potter già presente nel primo film e di per sé piuttosto avvilente. Anche visivamente, il Pennywise di Skarsagard avrà “più budget”per le sue fantasmagorie infernali, ma resta per lo più un fumoso pastrocchio di pixel e trasformazioni digitali, senza un briciolo della personalità che Tim Curry impose alla sua versione. Le sue scene sono in linea con il tono spensierato dell'insieme, da grosso Scooby-Doo ad alto budget: più jumpscare che tortura psicologica, più colori che trauma. Arrivati al finale, la criticità emerge in un ultimo duello fracassone che pare più che altro la sfida ad un generico supervillain Marvel. E serve a poco far scherzare i personaggi su come “il finale del libro era brutto”. Sappiamo tutti che non è vero.
Il resto del gioco è caccia agli easter egg per i fan (per lo più gratuiti, vedasi il non-ruolo di Silver), e il disperato tentativo di raccapezzarsi tra flusso di eventi e spiegoni per i non-iniziati. Tre ore in un grande Luna Park horror, con attori immensi e un cuore grande e triste a battere sotto. Mettendosi l'anima in pace, è il massimo che potrà mai essere IT al cinema.

Categoria
Andy Muschietti James McAvoy Jessica Chastain Bill Hader Jay Ryan James Ransone Isaiah Mustafa Andy Bean Bill Skarsgård 170 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Mosul

di Matteo Berardini
mosul recensione film

In arabo il termine “Mosul” significa congiunzione, incontro, nomen omen per una città sfaccettata nata dall’interazione tra popoli e culture diverse. Oggi Mosul si trova nell’Iraq nordoccidentale, poco distante dai confini con la Siria, la Turchia e l’Iran, ed è la terza città del palese dopo Baghdad e Bassora. O almeno lo è fino al 2014, quando i miliziani dello Stato Islamico prendono la città e instaurano un regime brutale lungo tre anni. La città sarà dichiarata libera solo nel luglio del 2017, dopo 40mila vittime lasciate sul campo, devastazione urbana e incalcolabili sofferenze. Una parte di questa storia viene raccontata oggi in Mosul, sorprendente debutto alla regia dello sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, che firma un film di genere robusto, tradizionale e assieme profondamente innovativo.

A memoria non è facile trovare un’opera come Mosul, ovvero un film hollywoodiano ad alto budget girato totalmente in lingua madre e interpretato da un cast rigorosamente mediorientale, in gran parte iracheno. Questo perché la brillante intuizione di Carnahan è quella di non snaturare l’identità culturale del racconto e di valorizzare così la specificità locale degli elementi a disposizione e dei temi affrontati. All’origine del film troviamo un reportage scritto dal giornalista Luke Morgelson per il New Yorker, un saggio che affronta l’inedito argomento del team militare Ninevah SWAT, un’unità di polizia irachena che agisce al di fuori degli ordini e compie operazioni di guerriglia contro le forze ISIS occupanti Mosul. L’obiettivo è colpire elementi sensibili, ricoquistare le proprie case e difendere quel che resta delle proprie famiglie, in un tentativo estremo, spesso fatale, di soffocare la presenza di Daesh in città. A riservarsi i diritti di questa ricostruzione arrivano presto i fratelli Russo, proprio quelli di Marvel e degli Anvengers, che decidono di inaugurare la loro personale casa di produzione raccontando la storia dei Ninevah SWAT.

Il percorso di iniziazione, rapido e brutale, di una recluta appena unita alla squadra; il leader carismatico che li guida, pronto a tutto per compiere la missione e assieme proteggere i suoi “figli”; la sporca dozzina di soldati, rinnegati dall’apparato militare ma intenzionati a completare le loro missioni a ogni costo. Il tutto raccontato con lo sguardo adrenalinico e iperrealista del miglior cinema bellico hollywoodiano, che universalizza la storia locale assorbendola nelle griglie rodate del genere. Il risultato è spiazzante e unico: Mosul ha tutto l’aspetto e la struttura del war movie ma l’identità è altra, ed è ancorata a soldati iracheni che combattono per liberare il proprio paese e vogliono farlo da soli, in prima persona, perché «gli Americani si limitano a bombardare ogni cosa, dato non saranno loro a dover ricostruire». Del resto a fare la forza del film, oltre gli indiscutibili meriti tecnici e di regia, è proprio la tenuta umana della squadra protagonista, vicina e assieme lontana, coinvolta in un’ultima missione che svela una natura intima e sentimentale e smorza così la parabola di iniziazione alla violenza che soggiace al racconto.

Affiancato da comparto produttivo di primo livello, a partire dal nostrano dop Mauro Fiore, premio Oscar per Avatar, Carnahan scrive e dirige un film importante, che sfrutta dall’interno le modalità del racconto hollywoodiano per portare alla luce una vicenda e soprattutto un punto di vista che necessita di trovare un suo spazio espressivo. Certo, manico, sguardo e stilemi narrativi sono quelli americani trapiantati sul contesto altro, ma sarebbe davvero anacronistico e limitante leggere in questo una seconda forma di invasione. Meglio piuttosto guardare al film come a un primo cavallo di Troia, a un piccolo gesto alternativo che lavora ben dentro l’immaginario collettivo per farvi nuovo spazio.

Categoria
Matthew Michael Carnahan Hayat Kamille Thaer Al-Shayei Waleed Elgadi Anouar H. Smaine 101 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Atlantis

di Damiano Garofalo
La recensione di Atlantis

Una classica immagine dronica filtrata dai thermal infrared sensors mostra, dall’alto, l’esecuzione e il seppellimento di un soldato ucraino da parte di due militari russi. I sensori, che risaltano il calore dei tre corpi nel buio della notte, dipingono sullo schermo un quadro astratto di macchie rosse e violacee. Siamo in Ucraina orientale, nel pieno della guerra del Donbass, conflitto tutt’ora in corso che, al momento, conta circa 15.000 morti in poco meno di 5 anni. Con questa sequenza si apre Atlantis di Valentyn Vasyanovych, presentato a Venezia 76 nella sezione Orizzonti.
Al contrario di quanto si possa immediatamente pensare, il quarto film del regista ucraino non è un war movie, ma un desolante racconto post-atomico delle scorie rilasciate sul territorio dalla guerra tra russi e ucraini. Atlantis, non a caso, è un film che viene dal futuro: a parte la primissima sequenza, infatti, il film è ambientato nel 2025, e racconta la vita di Sergeij, ex-militare ucraino che soffre di stress post-traumatico e non riesce ad adattarsi alla vita dopo la guerra. Il Donbass è una waste land, un deserto del tutto inadatto alla natura e alla vita umana o animale. La vegetazione non cresce più, le acque sono state contaminate, l’ambiente è intossicato da tonnelalte di rifiuti tossici, le persone sono morte o scappate. L’immaginario post-apocalittico di una nuova Chernobyl nell’Ucraina orientale viene ben reso dai luoghi reali in cui il film è ambientato: si tratta d’immagini provenienti direttamente dalle zone di guerra che, girate nel presente ma collocate narrativamente nel futuro, assumono  una valenza documentale e una resa testimioniale che genera un cortocircuito tra presente, passato e futuro possibile.

Dopo il suicidio di un amico e collega di lavoro, quando la fonderia dove lavora chiude a causa di problemi economici, Sergeij decide di unirsi alla missione volontaria dell’organizzazione no-profit denominata Tulipano Nero, specializzata nella riesumazione e nel recupero dei cadaveri di guerra dalle fosse comuni. Si tratta di corpi di militari e civili ucraini uccisi durante il conflitto, che rappresentano, metaforicamente, il cadavere della storia disseppellito dal velo dell’oblio. Sergeij partecipa agli scavi che resuscitano questi corpi allegorici, alla ricerca di una civiltà scomparsa, l’Atlantis sottomarina che si nasconde negli abissi del passato. In questa operazione archeologica di smaltimento dei “rifiuti” della storia, vaga tra i palazzi distrutti e le macerie delle città, alla ricerca di memorie dal futuro che possano permettergli di sopravvivere al presente. Quando gli chiedono «perché non te ne vai da qui?», lui risponde che non avrebbe nessun posto dove andare, e che quelli come lui sono «diversi», non potrebbeto adattarsi a un ambiente «normale». Sergeij osserva imperterrito la costruzione di un enorme muro divisorio tra i due paesi, segno dell’irrisolutezza e dell’inutilità di questa guerra (e di tutte le altre che si sono susseguite nella storia). Capisce che per lottare contro il disfacimento dell’ambiente e la desolazione dell’umano bisogna far rinascere la vita laddove c’è la morte, infrangendo i muri  e oltrepassando i confini costruiti artificialmente dall’uomo. «Almeno fino ai prossimi cento anni, su questo territorio non ricrescerà più niente», lo avvertono. Ma è proprio nel rapporto con la sua nuova collega Katya, dunque nella rinascita e in un nuovo amore, che Sergeij troverà nutrimento per cambiare il suo (e il nostro) presente.

Composto per lo più da inquadrature fisse e simmetriche, Vasyanovych non cade mai nel rischio di estetizzare all’eccesso la costruzione delle sue immagini. Decide di rimanere molto su Sergeij, che entra ed esce fuori campo, sconfinando le cornici delle inquadrature e rompendo il rigore della forma. In questa direzione, le tre sequenze conclusive rappresentano una rottura del dispositivo fin a quel momento accuratamente costruito. La prima parte dall’ennesima inquadratura fissa del muso di un camion che si ferma per strada, in panne, nel nubifragio. La mdp opera uno zoom in avanti verso il parabrezza coperto dalla pioggia, dietro cui intuiamo un timido approccio tra i due. Vasyanovych, qui, decide di proseguire il suo zoom, rompendo idealmente il confine tra il fuori e il dentro del camion, dove assistiamo a un amplesso, filmato in chiaroscuro con misura e leggerezza. Alla fine della scena, Sergeij apre il portellone posteriore dietro di loro, che affaccia sulla strada di campagna. Il cinema, ancora una volta, permette un attraversamento di confini materiali (i muri, i vetri, le porte, i corpi) e immateriali (il tempo, l’amore, l’umanità). Nella sequenza successiva, i due chiacchierano sul divano di fronte a una tazza di tè. Quando Sergeij  spegne la fiammella che illumina la stanza, il buio circostante viene improvvisamente colorato dalle stesse macchie rosse e violacee della prima sequenza: si tratta, ancora una volta, dei thermal infrared sensors che arrossiscono le temperature dei corpi di Katya e Sergeij, stavolta abbracciati. La struttura circolare combina, in contrappunto, il calore in esaurimento del corpo del cadavere del soldato (prima scena, presente) con quello rigenerante dei corpi vivi degli amanti (penultima scena, futuro). Lo stesso squarcio di speranza sul futuro di un’umanità che torna a vivere, ad amarsi malgrado tutto, riproposto nella brevissima sequenza finale, dove Katya e Sergeij osservano, sui tetti, l’orizzonte delle loro vite: la fonderia, sullo sfondo, in smaltimento, e gli uccelli, in stormi, che torneranno a volare.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e Storia - Rivista di studi interdisciplinari.

Categoria
Valentyn Vasyanovych Andriy Rymaruk Liudmyla Bileka Vasyl Antoniak 106 minuti
Ucraina
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

No.7 Cherry Lane

di Emanuele Di Nicola
No.7 Cherry Lane - recensione film

Hong Kong, fine anni Sessanta. Ziming è uno studente combattuto tra i sentimenti che nutre per la signora Yu, una donna in esilio da Taiwan a causa del Terrore Bianco, e la sua bellissima figlia Meiling. Il ragazzo impartisce ripetizioni alla figlia e in questo modo si avvicina sia a lei che alla madre...

Con No.7 Cherry Lane Yonfan mette subito sul tavolo i suoi riferimenti: Alla ricerca del tempo perduto, prima di tutto, con il capolavoro proustiano che viene ripetutamente citato dal protagonista, soprattutto in riferimento alle note quaranta pagine che descrivono una notte insonne di Marcel; l'inizio di Anna Karenina di Tolstoj, in cui Anna non appare mai. Qui viene postulato l’assunto di fondo: la pratica della “lentezza come eleganza”, affermata proprio da Ziming, che così chiarisce le regole del racconto. Una “lentezza” raffigurata nel simbolo del gatto grigio, figura fantasmatica e leziosa che attraversa il nostro sguardo al rallentatore.
Il regista sfida la ridondanza letteraria, ma a ben guardare la sua è una forma di onestà: si prenderà il suo tempo, lo sappiamo dall'inizio, e sarà un racconto del ricordo (proustiano, appunto) con tutto ciò che ne consegue. Per esempio la percezione filtrata dalla memoria riscrive la realtà e la drammatizza, non si riferisce al vero svolgimento dei fatti ma alla sua rievocazione nella mente: ecco che lo studente si muove non solo su un terreno plausibile, ma anche tra sogni, immaginazioni, fantasticherie.

Per Yonfan l'animazione è lo spazio del ricordo. Cosi´ si spiega il ricorso a questa tecnica, usata per la prima volta dal regista di Hong Kong: nell'impossibilità di ricostruire le memorie attraverso la finzione tradizionale egli guarda da un´altra parte e lo fa con il disegno. Hong Kong, lo stesso luogo di Wong Kar-wai, si “anima” di manifestazioni maoiste nelle strade, mentre nel privato il giovane allestisce un possibile triangolo con madre e figlia. Wong appare apertamente citato in un incrocio sentimentale in ralenti, a chiasmo, il primo incontro che apre il balletto dei personaggi.

Ma Yonfan fa anche di più: nel riallestire questa società fine anni '60 egli riscrive in animazione i film dell'epoca, quelli che si vedono al cinema, prima in bianco e nero e poi a colori. Meiling chiama sempre la madre “signora Yu”, connotandola come la sua Mrs. Robinson proprio mentre Il laureato di Mike Nichols invade le sale. Il regista non si limita alla realtà, seppure filtrata da un immaginario cine-letterario, ma avvolge l'intreccio in un tratto onirico: ecco che la scena del sogno, con i volti che cambiano, si impone come disvelamento dei veri desideri dei protagonisti; ecco che l'eros prima trattenuto esplode nella memorabile sequenza del sesso con i gatti. Nella non esaltante competizione di Venezia 76, insomma, No.7 Cherry Lane si offre come uno dei titoli più significativi grazie alla forza delle idee, alla sorpresa delle immagini, al discorso visivo peculiare che resta impresso oltre lo schermo.

Categoria
Yonfan 125 minuti
Hong Kong 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Wasp Network

di Damiano Garofalo
La recensione di Wasp Network

La Habana, 1990. Il pilota cubano René González (Edgar Ramirez) sequestra un aereo per attraversare il golfo del Messico e raggiungere Miami, dove si trasferisce come dissidente al regime castrista. Lascia a casa la moglie Olga (Penélope Cruz) e una figlia, cui non anticipa la sua fuga da Cuba. Alcuni mesi dopo, stavolta via mare, lo segue Juan Pablo Roque (Wagner Moura), pilota come lui. Entrambi iniziano a frequentare un’organizzazione anti-castrista, per cui compiono una serie di azioni dimostrative per destabilizzare il governo cubano. Tuttavia, nell’apparente ricostruzione armoniosa del loro nuovo american way of life, qualcosa non torna. Quando entra in gioco Manuel Viramontez (Gael Garcia Bernal), un giovane diplomatico cubano inviato a Miami per coordinare una cellula di spie castriste sul territorio nordamericano, i dubbi vengono fugati: René, Juan Pablo e Manuel fanno parte della Wasp Network, letteralmente “rete di vespe”, un  gruppo di agenti segreti castristi addestrati in madrepatria per infiltrare alcune organizzazioni di dissidenti cubani attive negli Stati Uniti, come gli Hermanos al Rescate di Jose Basulto.

«This is based on a true story». Con questa frase in sovrimpressione si apre l’ultimo film di Olivier AssayasWasp Network, presentato in Concorso a Venezia 76. Tratto dal libro di Fernando Morais Os últimos soldados da Guerra Fría: A história dos agentes secretos infiltrados por Cuba em organizações de extrema direita dos Estados Unidos, a sua volta ispirato alle reali operazioni di intelligence e controspionaggio tra Cuba e Stati Uniti negli anni novanta, il film tenta una prima storicizzazione cinematografica della fase terminale della Guerra fredda. Pur mantenendo saldo lo spirito internazionalista che contraddistingue il suo cinema, Assayas osserva la storia tramite la lente d’ingrandimento dell’amore: inteso sia come sentimento relazionale tra uomini e donne (il film ruota prima attorno alla famiglia di René e al suo rapporto, a distanza e poi ricongiunto, con la moglie e le figlia, poi a un matrimonio di circostanza di Juan Pablo con una ragazza locale), sia come spirito di sacrificio nei confronti di un’idea (il socialismo in recessione, più che la dedizione verso la”patria”).

Il cinema, per Assayas, è sempre stato un modo per attraversare i confini: da quelli geopolitici (pensiamo soprattutto alla miniserie Carlos, sempre con Edgar Ramirez protagonista) a quelli tra il mondo dei vivi e l’aldilà (Sils Maria e Personal Shopper), fino a quelli tra realtà e finzione (Double Vies) e alla consueta fluidità dei rapporti umani (Apres Mais). Un cinema apolide, senza fissa dimora, che in Wasp Network valica registri e generi diversi. La spiazzante voce fuori campo che irrompe dopo un’ora di film, a rivelarne in modo manifesto la natura politica, ribalta completamente non solo il senso delle azioni dei personaggi ma, sopratutto, i regimi di verità fin qui instaurati. Si passa da un racconto puramente di finzione a un ibrido tra ricostruzione e documentario, con inserzioni archivistiche e reenactment mediati degli schermi televisivi, intenti a verificare tutte le possibilità di quella «true story» annunciata. Così, come già in Carlos, assieme alla colonna sonora non originale dell’epoca, l’utilizzo del materiale d’archivio, reale o ricostruito, serve a collocare dei confini spaziali, geografici e temporali da far attraversare ai suoi personaggi.

La sequenza in cui due MIG dell’aviazione cubana abbattono tre aerei civili americani, presi in prestito dagli Hermanos al Rescate per compiere una missione dimostrativa non autorizzata sui cieli de La Habana, oltre a richiamare un episodio realmente avvenuto il 24 febbraio 1996, contribuisce all’ulteriore espansione dei registri narrativi e dei generi solcati. Si passa, anche qui, dal cinema ludico e d’intrattenimento (le scene action e thriller, le esplosioni spettacolari, l’utilizzo degli split screen depalmiani) alla tradizione del cinema politico europeo (nella sequenza degli attentati terroristici anti-castristi, La Habana rimanda esplicitamente all’Algeri di Pontecorvo), dalle digressioni più intime sul rapporto tra René, che in carcere decide di non collaborare, e la sua famiglia, “in ostaggio” del governo americano, fino a quello zoom sul fermo-immagine conclusivo che allude, ancora una volta, al cinema di genere e alla serialità televisiva poliziesca degli anni ottanta e novanta. Un film-contenitore, in cui Assayas decide di frullare il suo cinema con tutto quello che gli piace (e lo diverte), senza rinunciare alla solita, recente riflessione teorica sul rapporto tra media e mondo: dai già citati schermi televisivi, che inquadrano la storia e funzionano da contesto, ai cercapersone con cui rintracciarsi a vicenda, fino ad arrivare ai personal computer, entro cui vengono installati chip e virus a fini di sorveglianza, per concludere con l’arrivo dei primi telefoni cellulari.

Il video dell’intervista a Fidel Castro con cui (quasi) si conclude il film ribadisce gli intenti politici del suo autore: il paradosso per cui gli Stati Uniti, «il paese che fa più spionaggio al mondo», accusa di terrorismo Cuba, «il paese più spiato», non lascia spazio ad alcuna ambiguità, invitando gli spettatori a posizionarsi apertamente dalla parte dei subalterni, sconfitti da una storia che, finalmente, possiamo cominciare a rileggere.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari.

Categoria
Olivier Assayas Penélope Cruz Edgar Ramirez Gael García Bernal Wagner Moura Ana de Armas 123 minuti
Brasile, Francia, Spagna, Belgio
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a