The Kamagasaki Cauldron War

di Fiaba Di Martino
THE KAMAGASAKI CAULDRON WAR - recensione film leo sato

Microcosmo a sé stante, coacervo indifferenziato di relitti umani rassegnati a una vita di stenti e privazioni nel degrado post-bellico di un Giappone indifferente, gli estratti d'umanità assemblati nel ghetto di Kagamasaki sono il focus - spoglio, malaugurato eppur battagliero, pervicace e baluginante di una qualche parvenza di riscatto - del primo lungometraggio di finzione di Leo Sato, impregnato in una celluloide anacronistica (16 magnifici mm) che aumenta la sensazione di uno scorrere esistenziale fuori dal tempo, estromesso dal contemporaneo, sempre cinque passi indietro dal quotidiano globalizzato.

Un'umanità messa all'angolo, quella raccontata da The Kamagasaki Cauldron War, che tuttavia persiste, insiste, resiste. Facendosi beffe dell'invisibilità punitiva a cui le istituzioni (polizia corrotta compresa, ça va sans dire) la costringono. Facendo squadra, facendo strambo gruppo anche nelle piccole faide interne, osservate da Sato con uno sguardo che tende a tonalità di commedia lunare, a bizzarrie corali, a singulti surreali, autoironici, mordaci, anche musicali (il momento del ballo in un cimitero sopraelevato, quasi un arto a sé stante dal corpo del film, è un fruscio imprevisto e tenerissimo, squisitamente e malinconicamente cullato dalla regia compartecipe).

I vari zigzag narrativi si concentrano sostanzialmente intorno a una famigliola per caso: un furfantello scombinato, una laconica e distaccata prostituta, un bimbo intristito rimasto improvvisamente orfano (la scena in cui suo padre, giullaresco e tutto pittato in faccia, gli promette che un giorno andrà a scuola, è esemplificativa del miracolo nonchalante del film, sempre a un misurato centimetro dall'angoscia e dalla tragedia). I tre rimangono coinvolti nei giri criminali della città, a causa nello specifico del furto di una pentola cerimoniale appartenente a un boss della yakuza (e sgraffignata dal genitore poi assassinato del ragazzino); e la girandola farsesca di scontri, fughe, complotti e piani orditi successivamente innesca un effetto domino episodico di inclassificabile categorizzazione, che saltella da citazioni marxiste («Non era mica male, questo Karl Marx!») a schizzi di comiche mute e speronamenti slapstick, da alleggerimenti romance (c'è un triangolo, che non si prende naturalmente mai sul serio) a tensioni disordinate fino a incantevoli porzioni di già citata surrealtà.

Un oggetto cinematografico non identificabile, un piccolo UFO (gian)burrascoso che un po' nobilita un po' schernisce (senza un filo di autoindulgenza, ma con grande dolcezza), e molto riscatta, questo mondo a parte. Ingrato, ma pur sempre un mondo, un postaccio per cui lottare, non importa se sullo sfondo di vicende disgraziate e antiepiche di un mucchio di poveracci e di altrettanto scombiccherati villain male in arnese: così The Kamagasaki Cauldron War riesce a imporre di soppiatto, sogghignando, inciampando, distraendosi, divertendosi, una rivincita sull'ambiente da parte degli ultimi della società (gran parte del cast è formata proprio da veri abitanti della zona), che si ammutinano al - e dirottano il - modus narrandi realista e denunciatario, piegando la bruttura della realtà alla loro arrembante, chiassosa, casinista autoconservazione.

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Leo Sato Yota Kawase Tumugi Monko Naori Ota Kiyohiko Shibukawa 115 minuti
Giappone 2019
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I morti non muoiono

di Matteo Berardini
I morti non muoiono - recensione film jarmusch

I morti non muoiono è probabilmente lo zombie movie più serafico della storia del cinema, una nuova decostruzione del genere da parte di Jim Jarmusch che accantona il romanticismo dei suoi ultimi, splendidi, film (Solo gli amanti sopravvivono e Paterson) per riflettere divertendosi sullo stato della cultura occidentale. The Dead Don’t Die – come canta in allitterazione la canzone tema e titolo del film, scritta dal musicista country Sturgill Thompson e calata nel mondo diegetico del racconto –  è infatti un horror popolato sì da cadaveri ambulanti in cerca di carne fresca ma soprattutto da personaggi compassati, eccentrici ma sempre controllati; esclusa la poliziotta interpretata da Chloë Sevigny (l’unica che reagisce alla situazione con l’incredulità e la disperazione che potrebbe provare lo spettatore), tutti i personaggi dimostrano distacco o indifferenza nei confronti di quest’invasione di non morti, come se fossero già rassegnati alla fine – anche quando la consapevolezza della loro sorte deriva dall'aver letto in anteprima, metacinematograficamente, tutto il copione del film.
Mettendo in scena personaggi già arresi e svuotati di vita, Jarmusch gioca con la materia orrorifica e come in passato ne rivisita la tradizione, impossessandosi degli ingredienti di base per reinterpretarli con i suoi tempi, canoni e giri a vuoto, con il suo umorismo sempre situazionista. Sarebbe un peccato però limitarsi a vedere I morti non muoiono come un grande divertissement realizzato assieme agli attori amici di una vita; il film è certamente anche questo, e diverte parecchio nell’esserlo, ma sotto la superficie del gioco Jarmusch rilascia un’amarezza nient’affatto scontata che merita un secondo livello di lettura. 

I morti non muoiono sfrutta il tema zombie per tornare a parlare di decadenza e crisi della cultura occidentale, la stessa che Jarmusch aveva posto al centro di Solo gli amanti sopravvivono, e nel farlo si ricollega, testualmente, al padre di tutti gli zombie, Romero, i cui figli mostruosi vengono oggi talmente reiterati dal cinema e dall’industria dell’intrattenimento da essersi svuotati di ogni carica politica. Per Jarmusch il potere eversivo dello zombie è soffocato dalla ripetizione a tal punto che della sua forza simbolica resta soltanto la retorica finale esplicitata dall’hobo di Tom Waits, sfacciata verbalizzazione di un messaggio un tempo sotterraneo e ora talmente depotenziato da non poter supportare alcuna metafora.
Di conseguenza  gli zombie di Jarmusch non possono che essere macchiette di sé stessi, ritornanti ossessionati da bisogni consumistici aggiornati a questi tempi chimicamente tormentati. I nuovi oggetti del desiderio sono Wi-Fi, caffè, benzodiazepine e narcotici, ma nonostante l'apparenza, le citazioni, la morale didascalica, questi morti viventi non sono più, o almeno non solo, quelli che assaltano il centro commerciale nel secondo capolavoro di Romero: in quel gioco a carte scoperte che è ormai il genere horror, lo zombie di Jarmusch non esemplifica più l’uomo mercificato del tardo capitalismo quanto la morte-in-vita dell’industria culturale nel suo complesso. Siamo oltre ogni intento sociopolitico, talmente ovvio da poter essere sorpassato, sbeffeggiato, esplicitato sfacciatamente, perché mentre il genere si ripete fagocitando sé stesso l’esercizio culturale ha una sola via di fuga, che risiede (come sempre in questo cinema) fuori dall’industria, fuori dal sistema. L’unica cura per una cultura che trasforma le sue icone in feticci, nutrendosi di sé e delle sue scorie, sta nell’indipendenza e nella vita artistica fuori dai margini, una prospettiva incarnata dalle uniche figure che sopravvivono alla mattanza zombie del film: le nuove generazioni dei ragazzi in riformatorio, l’aliena proveniente da mondi lontani (la Scozia?) e il barbone alla Thoreau che vive nei boschi.

Solo gli amanti sopravvivono lo diceva già con chiarezza assumendo la prospettiva del vampiro, un non morto in realtà vivo e dolente in un mondo di zombie condannati alla vera morte-in-vita dal solipsismo e dall’assenza di umanità e cultura; praticamente, «io sono vivo, voi siete morti», citando la più famosa frase di Philip Dick. Gli zombie che infestano I morti non muoiono quindi non sono altro che le scorie di umanità che già popolavano il film precedente, poste adesso al centro della scena e raccontate con irresistibile ironia.

In conclusione, I morti non muoiono è un film più leggero e divertito dei titoli precedenti, ma questo non può andare a suo discapito o, peggio, non può allontanarci da quello che è il suo discorso di fondo, coerente e tutt’altro che nuovo per Jarmusch ma di certo non superficiale o buttato via. E cioè che il cinema (e la cultura occidentale con lui) ha bisogno di amanti e sangue fresco, indipendenza e innocenza, mentre la rassegnazione, l’odio, il dolore e il distacco non possono che soccombere sotto le fauci plastificate di un’industria davvero mostruosa e bramosa di carne.

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Jim Jarmusch Adam Driver Bill Murray Tilda Swinton Chloë Sevigny Steve Buscemi Tom Waits Caleb Landry Jones Danny Glover Selena Gomez Iggy Pop 105 minuti
USA 2019
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When They See Us

di Matteo Berardini
When They See Us - recensione serie tv

Us and them.
Tra le tante linee di demarcazione che spezzano in gerarchie la società americana ce ne è una, invisibile e fondamentale, che contrappone i due volti della narrazione: chi racconta e chi viene raccontato. Non è un caso che tra i temi principali della recente mobilitazione civile che sta coinvolgendo gli Stati Uniti ci sia proprio il diritto all’autorappresentazione, al racconto di sé, rivendicazione anzitutto politica che nasce come reazione necessaria a un contesto socioculturale che crea, alimenta e costringe in posizione subalterna quella che considera alterità. Del resto, nel campo di battaglia della narrazione condivisa è solo quando l’oggetto del racconto inizia a coincidere con il suo soggetto che una comunità non viene più inquadrata dall’esterno ma inizia a definire da sé i termini della propria identità e della sua messa in scena. Per questo When They See Us è il titolo perfetto per questa importante miniserie creata, scritta e prodotta da Ava DuVernay, perfetto perché mette subito in chiaro tramite l’uso di dei pronomi soggetto (they) e oggetto (us) cosa può accadere in una società in cui ci sono soltanto loro che vedono noi, quando lo sguardo (e quindi il racconto) cade verticalmente da una comunità su un’altra.

Prodotta tra gli altri da Oprah Winfrey e Robert De Niro, questa miniserie Netflix – la prima così compatta, cinematografica, strutturata in pochi episodi da più di un’ora che suddividono in fasi il racconto come capitoli di un romanzo – ambisce a ricostruire la storia dei Central Park Five, i cinque adolescenti afroamericani condannati nel 1989 per stupro solo per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di questa vicenda di cronaca, tanto paradossale quanto ancora vicina alla realtà di oggi, DuVernay cerca di restituire i passaggi umani più significativi, dalla cattura al processo, dall’inizio della prigionia alla vita fuori additati come sex offenders, fino alla liberazione reale arrivata quasi 15 anni dopo e dovuta alla confessione del vero colpevole. Ma un arco di tempo simile, per di più incentrato su cinque personaggi e cinque complesse situazioni famigliari, è davvero molto materiale da gestire e comprimere in quattro episodi, seppur lunghi un’ora e più ciascuno; per questo When they See Us sposa le sue istanze di riappropriazione identitaria di uno spazio narrativo mettendo al centro della sua ricostruzione l’aspetto umano della vicenda e relegando al fuori campo tutto ciò che esula dalle parabole dei personaggi e dalle loro sofferenze.
Siamo ben lontani dall’American Crime Story dedicata a O.J. Simpson, DuVernay non prova neanche a ripresentare le fasi processuali, le svolte cronachistiche, la copertura mediatica (una delle maggiori per un caso criminale tra i più seguiti nella storia della città). Se il primo episodio, splendido e bruciante, può trarre in inganno nella sua vicinanza alle dinamiche poliziesche, di fatto quest’attenzione agli eventi è presente perché funzionale al registro drammatico adottato dallo show, per il quale l’empatia spettatoriale e la condivisione pubblica di un dramma razziale sono gli obiettivi chiave in quell’ottica di riscoperta dello sguardo altro di cui si è detto. When They Us non indaga la Storia né si interroga sui meccanismi socioculturali soggiacenti al fenomeno, talmente noti e famigliari all’us posto al centro della vicenda (la comunità afroamericana) da non aver bisogno di ulteriori illustrazioni; piuttosto lo show ci prende per lo stomaco e ci porta a contatto con il terrore e il trauma di cinque adolescenze spezzate, cinque famiglie infrante, cinque vite deviate, suscitando indignazione, rabbia, incredulità e angoscia con un approccio pensato per il grande pubblico, intelligente e necessario considerata l’urgenza del racconto e la necessità di ricorrere all’empatia drammatica per condividere nuove prospettive.

Per quanto calibrato e nobile, questo taglio narrativo però funziona a fasi alterne, portando a episodi più centrati ed efficaci (il primo e il quarto) e altri meno incisivi e più superficiali (il secondo e soprattutto il terzo). Del resto, anche escludendo le componenti sociologiche e giornalistiche, il materiale umano resta vastissimo e difficile da orchestrare, e la conseguenza più immediata è una forte superficialità e approssimazione ogni volta che il racconto cerca di farsi più corale; se come detto l’avvio dell’inchiesta è pressoché perfetto (tanto da essere difficile da guardare senza che l’indignazione e il disagio afferrino alla bocca dello stomaco), il processo a seguire e soprattutto l’esperienza della prigione con il passaggio all’età adulta sono i momenti più deboli del racconto, fasi cruciali in cui però la scrittura si fa approssimativa e poco incisiva. Nonostante vengano introdotti temi importanti nella psicologia dei personaggi, in particolare legati alla figura paterna, questi nodi drammatici  scivolano via senza che la narrazione riesca a trovare spazi, tempi e modi per andare veramente a fondo. Questo per fortuna non avviene nel finale, al quale non a caso arriviamo dopo aver seguito l’odissea giudiziaria di un solo personaggio, Korey Wise, l’unico condannato a scontare anni di galera effettiva in quanto già sedicenne al momento del processo. Il suo percorso all’interno delle carceri americane è toccante e straordinariamente efficace per impatto e forza espressiva, mostrando cosa sarebbe potuta essere la serie se DuVernay avesse calibrato meglio il materiale con gli spazi a disposizione.

Un aspetto chiave di When They See Us riguarda quindi le scelte estetiche messe in campo. Al registro drammatico popolare, scelto per veicolare con maggior fluidità possibile l’immedesimazione nell’altro, corrisponde una grammatica visiva molto stilizzata, densa di soluzioni forti e ricorrenti come la fotografia di un blu evanescente, gli sguardi in macchina, la costruzione di inquadrature simboliche e sequenze anti-narrative. Guardando la miniserie torna in mente l’autorialità esibita e ancora irrisolta di Barry Jenkins, o meglio ancora Dear White People, altra serie originale Netflix che dello stile ha fatto un marchio di fabbrica e in cui forma e contenuto sono perfettamente assemblati. Il risultato è che When They See Us spiazzerà facilmente lo spettatore poco avvezzo a nuove forme di racconto black, specie se consideriamo il fatto che questo tipo di storie (la ricostruzione giudiziaria e umana di un caso di ingiustizia) presentano ormai un linguaggio estremamente codificato e molto aderente alla tradizione classica (si pensi alla pulizia, elegante e cristallina, di miniserie superlative della HBO come The Night Of e Show Me a Hero). Quella offerta da When They See Us è invece un’estetica nuova, in via di definizione, sicuramente lungi dall’esser completa per equilibrio e portata espressiva ma comunque importante perché figlia di un’urgenza civile e della consapevolezza fondamentale che l’accesso alla definizione narrativa di sé non può passare solo per il cosa ma anche per il come.

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Ava DuVernay Asante Blackk Caleel Harris Ethan Herisse Jharrel Jerome Vera Farmiga Felicity Huffman Michael K. Williams Miniserie da 4 episodi
USA 2019
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Bring Me the Head of Carmen M.

di Tamara Gasparini
Bring me the head of Carmen M. - recensione film Felipe Bragança e Catarina Wallenstein

Il Brasile contemporaneo come messa in scena impossibile. Come canzone che non si riesce a intonare. Come flusso di coscienza che cerca di addentrarsi nel caos politico e nel mistero di un paese in tumulto - il Brasile del dopo Lula, alla viglia delle elezioni che porteranno il partito di ultra destra di Jair Bolsonaro alla vittoria -­ sulle tracce del fantasma di Carmen Miranda.

Ana -­ interpretata dalla co-­regista Catarina Wallenstein -­ è un’attrice portoghese a Rio de Janeiro, impegnata nelle prove di uno strampalato film in cui deve recitare la parte della cantante che, più di tutti, ha incarnato lo spirito del paese. Interpretare Carmen Miranda è interpretare il sogno del Brasile, imitarne la felicità e portare il peso dei tropici.
Nella ricerca di Ana sul corpo e sulla voce dell’icona si riflette l’esigenza dei due registi di raccontare il Brasile moderno. Ma il Brasile di oggi può essere raccontato solo come farsa o come autopsia, spiega ad Ana la regista. È un’amnesia. Un’utopia tropicale a colori sgargianti. Un labirinto in rovina, animato da spettri di un passato che non passa. Un incubo a ritmo di samba dove il mito si scontra con la realtà.

Bring Me the Head of Carmen M. ha la gravità del bianco nero nelle scene in cui seguiamo Ana alle prove e nel pedinamento del suo quotidiano. Come se la realtà fosse più irreale del mito, sempre a colori, sempre vivace.
La vediamo agghindata di perle e turbante, inquadrata di spalle, ricoperta d’oro e lustrini, come in una scena onirica ricorrente. La Carmen senza volto di un paese senza identità.
Oppure la ritroviamo come manichino inerte, senz’anima e senza vita, raccolto da un travestito dalle strade della Lapa, quartiere popolare dove la diva era cresciuta, abitato da un’umanità variopinta di malandros, musicisti e prostitute. Il Brasile come corpo dormiente, che dimentica le ferite di un passato costruito sul sangue, sulla schiavitù e l’esilio, racconta ancora Ana in uno dei suoi monologhi sulle immagini di una parata militare che echeggia un passato terrificante. La riflessione metalinguistica sull’allestimento del film si alterna a uno sguardo semi documentaristico, sui monumenti, le strade e i quartieri dove spari e fuochi d’artificio sembrano confondersi. Brasile come disordine e paura, dove i palloncini legati al costume di Ana esplodono come fossero colpi di arma da fuoco. Recuperando certe istanze del Tropicalismo e le celebrazioni della “cultura cannibale” dei tardi Sessanta, sorte anche come rivolta alle politiche di allora, il film sembra dare sostanza alla recente tesi del sociologo Ricardo Antunes, che vede nell’odierna crisi del paese il continuum del governo militare del ‘64.

Felipe Bragança e Catarina Wallenstein raccolgono tutta l’urgenza dell’attualità in un film girato in sei mesi per mostrarci la carcassa di un paese lacerato e raccontare l’incubo grottesco in cui è sprofondato. Un film politico e poetico. Sperimentale e libero. Fatto di camera a mano, primi piani allo specchio e voci off ricorrenti.
Uno sguardo aperto sul sogno (colorato) e uno sul dramma reale (in bianco e nero) ma uno sguardo che non si può sostanziare. E si scontra con l’impossibilità di definire la nuova identità del paese. Triste tropico che non riconosce se stesso e, come dice Ana, «ha bisogno di ricominciare da capo per perdonare il proprio cuore».

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Felipe Bragança Catarina Wallenstein Catarina Wallenstein Helena Ignez Higor Campagnaro 61 minuti
Brasile, Portogallo 2019
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GOLD - looking for Oz

di Carmen Albergo
Gold looking for oz - Fini

GOLD - looking for Oz è l'opera che Francesca Fini, video artista sperimentale e performer, ha scritto e diretto in Israele su invito della New Media Department of the Art School di Musrara . Un film d'arte basato su azioni simboliche ambientate nella città di Gerusalemme, interpretato dalla stessa Fini e da altri artisti locali secondo un metodo definito dalla stessa autrice "situazionismo" guerrigliero, allo scopo di coinvolgere la comunità in un gioco di ruoli, tanto provocatorio quanto poetico, rappresentativo e partecipativo, sempre volto all'interrogazione d'identità e d'appartenenza, proprio lì, nel luogo forse più conteso nel mondo e nella Storia.

L'artista ha concepito una performance site specific, ispirata alle contraddizioni di Gerusalemme, epicentro di conflitti e violenze, ancorandosi però al viaggio di Dorothy Gale nella Città di Smeraldo alla ricerca del grande e potente Oz. Una strada dorata ma ardua, che l'autrice stessa commenta così: "la mia strada è un percorso scivoloso. Non è facile per chi lavora con i simboli, affrontare un posto così leggendario. Il rischio è di cadere nella intollerabile banalità dell'arte o produrre qualcosa di debole. Dovevo mettere in evidenza le mie capacità acrobatiche e mantenere la mia storia in equilibrio tra significato e significato." In questa sfida la Fini, ormai comprovata demiurga della commistione dei linguaggi mediali, sfodera un'unica grande strategia, quella di mappare l'irrazionale immaginario di una eterogenea collettività, a partire dalla mistificazione della convenzionale geografia fisica del posto. Ancora una volta il linguaggio artistico si fa terra di transizione tra mappe immaginarie e memorie, mappe visuali e mappe polisensoriali, per cartografare la percezione autobiografica e sue rappresentazioni, così come vien generata dai corpi in movimento e dagli sguardi illogici e fluidi, che iscrivono nuove estensioni. Corpo-grafie.

La regista allestisce, pertanto, un gioco di tensione tra sospensione d'incredulità e complicità con i passanti, che questi la riconoscano o meno come "personaggio" negli abiti della famosa Dorothy Gale (con tanto di scarpe color rubino e cestino da pic- nic con cagnolino di peluche incorporato). Chiede tacitamente agli astanti di interpretare a loro volta un ruolo fiabesco, quello dell'aiutante, che possa indicare la strada, una strada qualsiasi in verità, agganciandosi all'appiglio pretestuoso di una mappa immaginaria, che ha nel letterario regno di Oz la celebre metafora di un percorso di formazione sognante, a picco nell'inconscio al valico dell'età adulta, attraverso il superamento delle paure dell'infanzia. Procede così, di confine in confine, di mappatura in nuova mappatura di convinzioni e credenze, che bussole guidano la vita intera sotto i cieli mitopoetici (che sia il cielo di carta pirandelliano, o quello solcato da misconosciute nuvole pasoliniane). In una estetica visiva soggettiva, quasi da candid camera (camera nascosta forse in un bottone o sovente piazzata a distanza ad altezza marciapiede) Dorothy-Fini esorta più che a tracciare col dito un riconoscimento sulla carta topografica, a saltare oltre quel grafico arcobaleno ( l' "over the rainbow" appunto, che torna nella colonna musicale direttamente dal capolavoro cinematografico del 39') per scavare dentro se stessi alla ricerca di quelle virtù soltanto sopite - coraggio, intelligenza, emozione - che nessun mago, a parte noi stessi, può conferire. Primo varco magico è non a caso il corpo, la prima e unica casa, la casa ancestrale, di cui aver maggior cura per sapersi sempre riconoscere. Corpo e sua materica riconfigurazione simbolica. Infatti l'altro dispositivo performativo usato, oltre l'esibizione della piantina topografica multicolore, sarà uno specchio, che sottoposto all'attenzione dei passanti servirà da piano di disegno per tratteggiare sulla propria immagine riflessa il ricordo geografico del paese d'appartenenza, Israele.

Questa l'utopia messa in scena dalla performance on the road, sublimata dagli intermezzi polisensoriali di copri danzanti o corpi effigiati e scolpiti, tutti a risemantizzare con movenze e presenze le strade, le piazze, spazi collettivi. Cosa manca a questi corpi (come quelli archetipici fantasticati di latta, di paglia?) quali mancanze denuncia questa eccentrica Dorothy? Su tutto proferisce "Non è un paese per ragazze innocenti!". Ed allora una giovane performer di bianco vestita, lontana in una dimensione interiore (dell'Io della protagonista?) si lascia imbrattare, come fosse un martirio, dalla vernice nera che esplode da palloni che essa stessa stringe violentemente al grembo. Pare quasi l'abbraccio furioso di una croce, che l'oscura alla vista culturale, la dissolve in un nero viscido, buio pesto ma tangibile. Per il resto la gente incontrata in questo peregrinare avrà poche e semplici reazioni di cortesia, se non di derisione. Negare di sapere, prima ancora di capire, oppure fornire indicazioni a casaccio pur di liberarsi di questa bizzarra figura, tanto in questa babele di pellegrinaggio un luogo vale l'altro, oppure nel crogiolo di lingue tutti cercano alla fine lo stesso monumento turistico religioso, il sentiero allora è sempre lo stesso per tutti, uno solo per mille richieste, come ad Oz. Ma la via verso se stessi (il sentiero di mattoni gialli) è estremamente scivolosa e impraticabile, percorribile solo a costo di ripetute cadute e dolori manifestamente corporali, come le ginocchiate che la stessa Dorothy-Fini si infligge, ipersensibli all'occhio che le percepisce e nevralgicamente riecheggia.

E c'è anche che il tempo per farsi male non è infinito, ma liquefatto e sfuggente, delicatissimo da scandire e trattenere, come viene mostrato in più occasioni dalle sculture di ghiaccio, clessidre di viaggio in ostensione: una chiave-ghiacciolo succhiata alternativamente da due amanti; un volto racchiuso tra i palmi delle mani che pian piano si squaglia e scarna. Il volto-maschera kitsch, artificioso, imbrattato da cosmetici, è quasi cifra stilistica della Fini, che sovente presta il proprio a questo macabro make up, ma per la sua Dorothy si limita ad indossare solo grandi occhiali da sole, a dire dei suoi occhi introversi, puntati nel Sè-Universo.

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Francesca Fini 64 minuti
Israele 2017
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Inland (Meseta)

di Giorgio Sedona
Inland (Meseta) di Juan Palacios

Il regista basco Jose Palacios ritrae la terra spagnola dell’entroterra tramite l’incanto di una sguardo ondivago, fluentemente marino, lasciando balenare il suo punto di vista tra un personaggio e un altro; ed ecco apparire profili di figure nascenti da una superficie arsa dal sole, come miraggi di identità trasparenti, fantasmi traslucidi di un territorio sconfinato e distante dalle coste, lontano, e lontani, da quella superficie di acqua salata che trasporta uomini, mezzi, pensieri e delusioni. Chi resta all’interno della nazione ha una definizione diversa, non è un’identità mossa, in perpetuo movimento marino, ma è un’anima il cui corpo pesa, radicata nella definizione della sua stessa presenza terrigna, viva su di una terra amica, da seminare e da coltivare. Uomini, donne, bambini, ragazzi che proiettano nello spessore delle ombre, catturate al suo più alto zenit solare, delle opache zone di luce che l’occhio cerca fugacemente di rilevare prima che queste possano dissolversi nell’ondeggiare rarefatto di un abbaglio. È con questo movimento di apparizioni e dissolvenze corporee che Inland (Meseta) traccia, ed individua, delle coordinate umane in congiunzioni geografiche, meridiani e paralleli che nell’intersezioni producono delle storie che sembrano sul punto di scomparire. È proprio al rischio della disgregazione, e della rispettiva scomparsa, che il regista vuole far resistere le immagini attraverso l’uso mnemonico dell’obiettivo e dell’archiviazione audiovisiva: storie, tradizioni, canti, identità culturali e sociali di un altipiano che tende a porgere i suoi abitanti alla funzione sbiadente del sole. Qual è il loro nesso con le dinamiche social, come si realizzano queste identità nella nostra epoca digital? Se da una parte l’utilizzo di strumenti informatici rende esplorabile il territorio, come si deduce dall’uso dell’applicazione Pokémon Go da smartphone nell’episodio delle due ragazze che, attraverso il dispositivo, si dirigono alla scoperta di una mappa geolocalizzata, dall’altra sarà proprio la dimensione ludica della simulazione a far proseguire il lavoro, dal concreto dei campi al lavoro simulato delle trebbiatrici rivissute, risentetizzate, e risemantizzate, su di un televisore post-working. Nodi di una rete che vengono a definirsi sia in una dimensione spaziale, e fisica, sia in una definizione simulata, e virtuale. Motivi questi di una resistenza allo svanire spaziale, oltre che un attrito all’oblio temporale, per una concretizzazione digitale delle loro realtà ed identità in quanto popolazione, e cultura, a cui è necessaria una (ri)combinazione di fattori temporali biologici, come la memoria del ricordo, e di fattori digitali, ludici ed interattivi, per non scomparire del tutto e definitivamente, e quindi per resistere in ombre, almeno, di un miraggio digitale su di una terra a loro appartenuta e vissuta.

Jose Palacios stringe le maglie di un network di identità a prima vista sfibrate ma, se osservate da un punto di vista panoramico - unica focale onnicomprensiva di un territorio posto sull’altipiano di un entroterra – in grado di apparire come nodi di una rete parlante, una stretta maglia di relazioni su di un territorio che lentamente – causa anche l’urbanizzazione – si sta disabitando. E non rimane quindi che contare le case serrate prima di addormentarsi, come praticamente vengono conteggiate dall’ultimo personaggio, ed identità fantasma, dal regista documentato.

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Juan Palacios 90 minuti
Spagna, 2019
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The Perfection

di Mattia Caruso
The Perfection - recensione film shepard

Chissà se, mentre assemblava e metteva in scena, tra trovate gore e immagini perturbanti, il suo The Perfection, Richard Shepard (regista, tra gli altri, di film come The Matador e The Hunting Party) abbia mai pensato all'Audition di Takashi Miike.
Di sicuro aveva ben in mente Il cigno nero di Darren Aronofsky quando ha deciso di riproporne dinamiche e immaginario, collocando il suo piccolo horror all'interno di quel filone (preferibilmente ambientato nel mondo della musica o dello spettacolo) fatto di individui talentuosi, rivalità striscianti e dell'intramontabile e abusatissimo tema del doppio.

Pare girare proprio attorno a questo l'ultima fatica produttiva di Netflix, piattaforma sempre attenta (soprattutto per quanto riguarda i prodotti di genere) a non allontanarsi mai troppo dai binari del già visto, riproponendo pedissequamente temi e strutture ben consolidate.
Eppure, superate le premesse iniziali – due violoncelliste enormemente dotate (le affiatate Logan Browning e la Allison Williams di Scappa – Get Out), una in caduta libera, l'altra in piena ascesa, entrambe determinate a tenersi stretta la stima del loro mentore/benefattore – e un primo atto decisamente convenzionale, The Perfection cambia brutalmente rotta, segna le distanze da Aronofsky e opere affini e fa dei colpi di scena e dei plot twist la sua cifra dominante, fino a toccare generi e sottogeneri solo apparentemente inconciliabili.

È proprio qui, nei territori anomali e allucinati dell'horror più grezzo e sadico, mentre il thriller passionale lascia bruscamente il passo all'incubo soprannaturale e la minaccia pandemica si tramuta presto nel revenge movie più estremo, che il film fa a pezzi le proprie premesse (e non solo), riscattandosi da una partenza piatta e ingannevole e buttandosi a capofitto in un dramma fatto di prevaricazione e ossessione, di inaspettate efferatezze e di rituali degenerati, dove il talento (sprecato, rubato, ottenuto a caro prezzo) e quella “perfezione” cui inevitabilmente tende, non sono più un traguardo da raggiungere ma un fardello ingombrante da cui liberarsi, da cui scappare o, in casi estremi, da mutilare, annientare, rendere una volta per tutte inoffensivo.

Accogliendo e facendo propri un gusto e un'estetica respingenti e, a tratti, insostenibili, fatti di amputazioni, sangue e rigurgiti vari, Shepard sparpaglia così le carte in tavola, dando vita a un prodotto spiazzante e sfacciato, persino assurdo nelle sue approssimazioni e nei suoi enormi buchi di sceneggiatura, ma capace comunque di bilanciare perfettamente toni e registri, forte di una tendenza a non prendersi mai veramente troppo sul serio.
Il risultato è quello di un film lontano da riflessioni o intellettualismi di sorta, che prende (rigorosamente dalla superficie) tutto ciò che può da esempi orrorifici anomali e distorti spesso lontani dal gusto occidentale (vedi Miike), riuscendo a essere un buon prodotto di intrattenimento, audace quanto basta per risplendere in un'offerta horror troppo spesso manchevole di sorprese, scossoni, sanguinose prese in giro.

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Richard Shepard Allison Williams Logan Browning Steven Weber Alaina Huffman 90 minuti
USA 2019
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Galveston

di Tamara Gasparini
Galveston - recensione film Laurent

L’attrice/regista francese Mélanie Laurent - al suo quinto lungometraggio dietro la mdp e già diretta da Tarantino in Bastardi senza gloria - lavora il debutto letterario di Nic Pizzolatto, autore e creatore dell’universo televisivo di True Detective, trascinandoci sin dalla scena iniziale nella natura inospitale del luogo, giù nel profondo degli Stati Uniti, a Galveston appunto, Texas. Qui percepiamo l’incombere di una violenta tempesta che scuote palme e infrange porte e finestre di una casa. Il mondo di Galveston è racchiuso tutto in questa immagine. Un mondo di rovine, disastri interiori e individui sbattuti violentemente dal vento di un destino implacabile, che da quelle parti sembra non dare scampo a nessuno.

Stacco ed ellissi: fine anni Ottanta, New Orleans. Roy (Ben Foster) è un sicario di professione, affetto da un male che lo sta lentamente uccidendo, in balia di se stesso e dei propri sbagli. Un individuo potenzialmente (auto)distruttivo, come l’uragano che vediamo nell’incipit. La gravità del paesaggio fa da contrappunto a un’umanità altrettanto rovinosa, composta da uomini di malaffare, killer spietati, piccoli criminali e giovani prostitute alle prime armi: un buon catalogo di anime perse e derelitte. É sulla strada del proprio personale fallimento, dopo aver scoperto di essere malato e apparentemente finito, che Roy trova la forza e la possibilità di guardarsi dentro grazie all’incontro con la diciannovenne Rocky (Elle Fanning), coinvolta in un giro di escort finito male, durante un’imboscata tesagli dal proprio boss che lo vuole morto. Rocky, come Roy, è alla deriva ed egualmente in fuga dal peso di un passato di miserie.

Inizia così - non prima di aver imbarcato a bordo anche la sorella più piccola della ragazza, strappandola agli abusi di un patrigno riprovevole - un road movie dall’aria greve, tra le strade assolate e le boscaglie nere del Texas che introietta su di sé gli accenti sanguinari del crime e quelli chiaroscurali e lividi del noir suburbano, capace di immergersi visceralmente nelle piaghe di un mondo sordido e nello squallore morale della natura umana. Con i suoi toni plumbei e le scene notturne il film affonda nell’oscurità dell’animo e lascia trasparire una realtà malata, un inferno privato dove ognuno cerca un modo disperato per salvare la pelle. Rocky e Roy sono dei sopravvissuti in questo mondo, sballottati dagli eventi, in cerca di un posto tranquillo, fuori e dentro di loro; laddove Rocky ha una vita davanti per riscattarsi a Roy rimane invece solo un incerto presente. La sua è la parabola classica dell’antieroe del noir, un uomo sconfitto, quasi un morto che cammina in un mondo di violenza. Totalmente disilluso e rassegnato a una fine ormai prossima ha, grazie a Rocky e la bambina, la possibilità di aggrapparsi a quel po’ di buono che gli è rimasto per espiare le proprie colpe, cercando per loro una salvezza che non può dare a se stesso e gettando così un ponte tra un passato di sfaceli e un futuro luminoso di speranze.

Il film della Laurent, sostenuto dall’ottima performance dei due attori principali - in particolare di Foster, una maschera impassibile di rabbia e dolore, tesissimo e muscolare - può vantare una regia equilibrata che si prende il tempo necessario ad emergere dal torpore di una certa convenzionalità per sparigliare le carte nel finale. È, infatti, nell’epilogo, aperto e quasi onirico, che il film, fino a quel momento soprattutto una storia abbastanza prevedibile di individui in fuga da se stessi e dai propri guai, trova finalmente respiro e slancio, trasformandosi nella definitiva pacificazione con il passato pesantissimo che i personaggi si sono portati appresso e sul significato del sacrificarsi per qualcuno. Qui l’uragano dell’incipit ritorna, con un balzo in avanti di vent’anni, a scuotere il protagonista ma come una  forza liberatoria e quasi catartica.

Laurent mostra l’abilità e il coraggio di dare una forma al non facile mondo letterario di Pizzolatto, strutturando un racconto che visivamente sembra polarizzarsi tra le zone oscure dei propri tormenti e la solarità di certe scene - in particolare quella sulle spiaggia davanti all’Oceano - tra l’interiorità dei personaggi sempre sottaciuta (Roy) e la crudeltà del mondo esterno. Tra sofferta rassegnazione e speranza di futuro. Nessuna novità ma un film apprezzabile che pur con qualche schematismo di troppo, riprende sì un repertorio già visto ma in verità ne fa un racconto profondo e fortemente introspettivo sulla natura umana.

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Mélanie Laurent Ben Foster Elle Fanning Robert Aramayo Beau Bridges 91 minuti
USA 2018
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That Cloud Never Left

di Arianna Pagliara
That Cloud Never Left di Yashaswini Raghunandan

Daspara è un piccolo villaggio indiano dove si costruiscono giocattoli fatti di plastica, creta, canne di bamboo e scarti di vecchie pellicole di Bollywood. La regista Yashaswini Raghunandan parte da qui per fondere assieme in That Cloud Never Left un approccio essenzialmente documentaristico - volto a raccontare una quotidianità semplice se non spartana – e un sentire fortemente lirico, tendente all’astrazione. Da un lato c’è il lavoro, lento, minuzioso, costante e ritmato: tagliare, pestare, tingere, incollare. Dall’altro le pellicole utilizzate come materia prima, che portano con sé tutto uno specifico immaginario – il cinema come sogno, vagheggiamento, fantasticheria – che di tanto in tanto riemerge, come un rimosso-non rimosso, nelle crepe della realtà. Ecco allora un bellissimo volto di donna proiettato su un muro scalcinato, mentre i grilli cantano nella caldissima notte indiana. Ecco l’immenso, calmo specchio d’acqua sempre attraversato dai pescatori che all’improvviso si tinge di rosso, forse visto attraverso un ritaglio di pellicola usata come lente.
Le vecchie pellicole sono soprattutto il pretesto per lasciare il campo alla purezza del colore: viola, gialli, grigi che sfarfallano e pulsano vividi saturando lo schermo, misteriose tracce di passato riconsegnate al presente che lasciano trapelare solo a tratti qualche fotogramma leggibile e poi si fondono dolcemente con le immagini della quotidianità del villaggio (una foresta, un fiume, una barca, gli uomini a lavoro).

Tra questi due poli – lo sguardo documentaristico e il desiderio di astrazione – c’è poi ancora un altro mondo, vero ma tutto intriso di fiaba: un gruppo di bambini, i loro giochi, le parole bisbigliate all’orecchio, la ricerca di un rubino perduto, rosso come un brandello di pellicola, rosso come la luna durante l’eclissi che tutti attendono con trepidazione, nella speranza che le nuvole infine si diradino. Quella di Yashaswini Raghunandan è, finalmente, non un’India metropolitana e ribollente, fatta di caos e sovraffollamento, ma un’India di boschi fitti e spazi aperti, silenzi, piogge, un’India notturna e magica. La natura è imponente, rigogliosa, è il verde che riempie l’inquadratura e suggerisce un fuori campo interminabile e altrettanto verde mentre i bambini, allegri, si arrampicano sugli alberi e si chiedono che fine abbia fatto il loro misterioso rubino: forse è nascosto nei capelli ben pettinati di una ragazzina, oppure nell’orecchio di un’altra compagna dalla voce incantevole, o forse è stato portato via dagli uccelli oppure, chissà, mangiato dalla luna.

Al di là della valenza etnografica che un’opera come questa assume agli occhi del pubblico occidentale, al dì la cioè del suo potenziale di sguardo saldamente ancorato al qui e ora – che pure possiede – That cloud never left affascina per la levità e la dolcezza del linguaggio, per la libertà con cui approcci di segno diverso vengono coniugati assieme dando luogo a un equilibrio espressivo non scontato; perché è un omaggio – simbolico, suggerito, appena sussurrato - al cinema come industria e immaginario espanso (Bollywood) che viene esplicitato, di contro, attraverso un cinema altro, che è invece minimalista, intimo, pieno di grazia.

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Yashaswini Raghunandan 65 minuti
India, 2019
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Beautiful Boy

di Riccardo Bellini
Beautiful boy - recensione film van groeningen

Tratto dalle autobiografie del giornalista David Sheff e del figlio Nicolas, Beautiful Boy di Felix Van Groeningen racconta il calvario attraverso la tossicodipendenza di un adolescente bello, talentuoso, di buona famiglia (Timothée Chalamet), e l’impotenza di un padre amorevole (Steve Carrell) di fronte alla parabola autodistruttiva del figlio. Tra innumerevoli tentativi di disintossicazione e altrettante ricadute, il viaggio nell’Inferno della droga di Nicolas segue le coordinate di un melodramma familiare, in cui la speranza per la salvezza del ragazzo diventa un orizzonte sempre più nebuloso.

Van Groeningen non ci spiega perché Nic abbia iniziato a drogarsi, né si dimostra interessato a individuare le cause di un malessere che sembra di natura esistenziale e a cui lo stesso ragazzo - appena diciottenne - non sa dare una spiegazione. Il regista belga non vuole sondare le origini della tossicodipendenza, quanto piuttosto esporre gli effetti di quest’ultima all’interno di una famiglia normale. Scelta legittima che se non altro evita a Beautiful Boy il rischio di incappare nella sociologia spicciola, lasciandoci al contrario di fronte a un male di vivere impenetrabile, e forse senza rimedio, che rende ancora più tremenda la lotta dei familiari di Nic. Ma è anche vero che uno sguardo più approfondito e centrato sull’insoddisfazione del ragazzo verso la realtà che lo circonda non avrebbe guastato, irrobustendo per lo meno il personaggio. Quello che invece ci lascia la sceneggiatura di Van Groeningen e Luke Davies al riguardo è una breve sequenza di giovanile furore, sulle note di Territorial Pissing dei Nirvana, e poco altro.

Ma compresi e accettati i suoi intenti, Beautiful Boy ha ben altri problemi di cui preoccuparsi, a cominciare da una ripetitività di situazioni e dialoghi che fanno delle sue due ore una durata davvero eccessiva. Ripetitività che il regista di Alabama Monroe cerca di spezzare inframmezzando la narrazione con frequenti salti temporali, accostando talvolta a un presente di degrado un passato di patinata felicità domestica, ricattatoria negli intenti ma fredda negli esiti - e in tal senso la locandina italiana del film non lasciava presagire nulla di buono. Nic si droga, poi smette di farlo, poi ci ricasca e poi smette ancora e ogni fallimento incide su padre e figlio, caratteri complementari intorno ai quali il film tenta di trovare il proprio cuore pulsante. E i due interpreti fanno del loro meglio. Ottimo come sempre Carrell, perfetto nei panni di personaggi che vivono il proprio dolore in silenzio, interiorizzandolo (Little Miss Sunshine o il recente Benvenuti a Marwen). Buona anche la prestazione della neo-star Chalamet. Ma la loro buona volontà e il loro talento non bastano a rivitalizzare una sceneggiatura tutt’altro che brillante, scritta a quattro mani assieme a Davies, già sceneggiatore di quell’altro mediocre melodramma sulla droga dal titolo Inferno + Paradiso. Nemmeno la regia di Van Groeningen spicca, concedendosi in più punti soluzioni facilmente retoriche, cui contribuiscono un commento sonoro manipolatore e fastidiosamente enfatico.

Beautiful Boy riesce comunque nell’intento di ricordarci che nemmeno l’amore di un padre disposto a tutto pur di salvare il figlio (persino ad assumere egli stesso della metanfetamina per conoscere meglio il nemico) è una garanzia. Il film bilancia l’ondata di retorica che lo contraddistingue mostrandoci i tormenti di un genitore che, ad un certo punto, accetta la dura verità che il cambiamento non può che iniziare da Nicolas stesso. Beautiful Boy è del resto un viaggio nell’incubo che non indora la pillola né vuole illuderci con la promessa di facili soluzioni. Ma l’ingenuità cui Van Groeningen rinuncia con questa scelta non basta comunque a fare del suo film poco più di un cupo monito - ribadito dalla didascalia finale - contro l’uso di sostanze stupefacenti.

Categoria
Felix Van Groeningen Steve Carell Timothée Chalamet 120 minuti
USA 2018
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