5 cm al secondo

di Fiaba Di Martino
5 cm al secondo - recensione film

Sono i petali di ciliegio, a cadere 5 centimetri al secondo. La loro è una discesa lenta, quasi impercettibile nella distrazione di un colpo d'occhio, ma inesorabile. Che lascia scaturire una bellezza furtivamente struggente, una netta malinconia, che per Makoto Shinkai sono intrinseche alla condizione umana, al suo universo privato di illusioni, la cui caducità, il cui imbrunire, la cui caduta sono insfuggibili. E la cui presa di coscienza costituisce la prima ferita, irrimarginabile, dell'avvento della giovinezza.

5 cm al secondo è il secondo film di Shinkai, che vede il buio  delle sale italiane (finora era rimasto confinato al recinto dell'home video) a oltre dieci anni dal debutto in patria. Nell'epoca ante Your Name., era anche il film più amato del sensei, e resta oggi un ideale compendio della sua poetica, una summa precoce della sua visione autoriale tutta. 5 cm al secondo è pura poesia sentimentale, intimamente leopardiana, meditativa e laconica, anti-estetizzante nonostante la vertiginosità delle lucide immagini, la loro densità emotiva che si fa a tratti cosmica, persino eroica nel proprio tendere alla preservazione (più che alla ricerca) di una piccola felicità da sottrarre allo scorrere del tempo maligno. I personaggi di Shinkai, qui come nei suoi altri lavori, sono interscambiabili, tutti figli di un mal di vivere il presente, tutti vittime innocenti dell'incedere delle età della vita, agnelli sacrificali della sorte immutabile che tocca all'umano: la transitorietà dell'anima, del cuore, dei sentimenti. I quali, non importa quanto immensi, sfioriranno e toccheranno terra, fermandosi, come quei petali di ciliegio. Perciò i film di Shinkai, per quanto rassegnati, arresi in partenza, si configurano come portali dimensionali su quel che resta degli antichi giorni lieti, sulle memorie preziose, su quelle lovely bones irrecuperabili. Componimenti diaristici segreti, srotolati attraverso lunghi viaggi in cui si sta fermi: Takaki che rimane bloccato su un treno che pare correre per sempre nella notte e sotto la neve, ma anche Asuna che in Children who Chase Lost Voices (vero capodopera di Makoto) è smarrita in un sogno dantesco, nel cercare il suo Orfeo per dirgli addio (perché, come cantano i Pains of Being Pure at Heart, non smetterà mai di perderlo), e c'è poi  il giardino segreto di Takao e Yukino... Vivono ellitticamente, i fanciulli di Shinkai, fra la Terra e l’ignoto spazio profondo (entrambi luoghi di dispersione e perdita d’equilibrio sentimentale: La voce delle stelle, l’ucronia Oltre le nuvole, il luogo promessoci), in spazi custoditi e ben protetti, al di fuori della quotidianità alienante e metropolitana, lontani da terreni urbani tentacolari. Dolci stasi dove cullare degli amori che non si daranno mai completamente: quello di Shinaki è un lavoro sull’irrisolto, un ostinato operare contro i ritmi ansiosi e le tensioni in salita dei mélo.

Tutto in 5 cm al secondo (e altrove nei suoi film) è anticlimatico, lento, contemplativo, paesaggio interiore immobile come un dipinto, privo di sterzate catartiche, agnizioni, epifaniche scene madri. Gli basta "esserci", abbandonarsi a un poema visivo circolare, all'epica della solitudine e della tristesse, che ha il sapore di una prima volta, di una rottura dell'innocenza, di un mesto spleen. Come un Kar-Way animato ma scevro di vibrazioni visionarie, più composto, più intimidito, nella carrellata di souvenirs de jeuness incorniciati dal senso inconsolabile dell’inaffidabilità del presente, dell’incomunicabilità col mondo e con la vita adulta, con le sue ingiustizie e i suoi doveri rigidamente eteroimposti.
Quella di Shinkai è una cosmogonia decadente di volti e anime che si sfiorano senza mai trovarsi, senza risolversi in un effettivo compimento – e, se lo trovano, tale culminatio avviene fuori campo, in un’immaginazione offscreen, come accade nel sopraccitato Your Name., che è, dopotutto, una sorta di espansione e un tentativo di scioglimento dell’ultimo capitolo di 5 cm al secondo: il fanta-twist del film, assente dall'opera seconda dell'autore, allentava il carico pesante della condizione esistenziale tipica di tutti i suoi personaggi, trovando una scappatoia alla croce del tempus fugit e manipolandone fantasticamente il corso, per qualche momento regalando – come in un astratto crossover, certificando l'universo condiviso – un sollievo agli amanti infelici all'ombra del ciliegio.

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Makoto Shinkai 63 minuti
Giappone 2007
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Hanna - La serie

di Rosario Gallone
hanna recensione serie tv amazon

C’erano due motivi, tra tutti, per guardare con interesse la serie Hanna, disponibile su Amazon Prime Video dal 3 febbraio. Il primo era l’affezione verso l’universo narrativo di partenza, non particolarmente originale (gli esperimenti su ragazzi a scopo militare non sono certo una novità) ma messo in scena con la solita (e, diciamocelo, finora sottovalutata) maestria da Joe Wright per il grande schermo, nel 2011.

Il secondo era rivedere insieme, per la prima volta dai tempi di The Killing, Joel Kinnaman e Mireille Enos, le cui singole carriere, fuori dalla serie creata da Veena Sud, non sono mai state all’altezza (al cinema Kinnaman ha partecipato a Suicide Squad ed è stato il nuovo Robocop, sul piccolo schermo ha incarnato il protagonista di Altered Carbon oltre a fare da ultimo avversario politico di Frank Underwood in House of Cards; alla Enos è andata decisamente peggio, col bruttino Sabotage di David Ayer più un paio di pellicole rimaste inedite in Italia).

C’è da dire, a proposito del primo dei motivi, che la prudenza del creatore David Farr (prudenza del tutto motivata sia chiaro) nei confronti di quanti non abbiano visto il film del 2011 si rivela, al contrario, per chi quella pellicola l’ha vista e amata, un mezzo boomerang, conferendo ai primi due episodi della serie un che di pleonastico e un’allure di dejà-vu che mette a rischio la prosecuzione. Fortunatamente, una volta esaurita la pratica, quell’universo viene espanso sicché la serie riesce ad approfondire le personalità di tutti e tre i protagonisti, che svestono i panni degli attanti per trasformarsi davanti ai nostri occhi in persone a tutto tondo. La Marissa Wiegler della Enos, rispetto a quella algida e spietata disegnata da Cate Blanchett, è una donna ligia ma tormentata da un senso di colpa che mal si concilia col desiderio di maternità; più o meno la stessa cosa si può dire di Erik Heller, sebbene anche quello di Eric Bana lasciasse intravedere, per motivi narrativi, barlumi di amore paterno, per quanto surrogato. Il maggior sviluppo è ovviamente (e fortunatamente) riservato ad Hanna, che nel film era Saoirse Ronan e qui è, senza sfigurare rispetto alla prima, Esme Creed-Miles (figlia di Samantha Morton e di Charlie Creed-Miles, il Billy Kimber di Peaky Blinders). L’incontro con la famiglia di turisti si sviluppa ulteriormente ed è uno snodo importante nella dinamica della scoperta di sé intrapresa dalla ragazza.

Sia chiaro: Hanna non aggiunge nulla di nuovo al panorama della serialità, ma è un prodotto fatto con cura e convinzione, recitato decisamente bene. E qui rientra in gioco il secondo dei motivi: l’alchimia tra Kinnaman e Enos è palpabile e insieme funzionano come nessuno dei due, singolarmente, fa. Le otto puntate sono dirette da quattro registi tra cui Sarah Adina Smith (sua la regia di Buster's Mal Heart del 2017 con Rami Malek) e Anders Engström, finlandese giunto negli Usa dopo aver diretto, tra le altre cose, episodi di Wallander e che ha al suo attivo anche diverse puntate di Taboo.

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Piercing

di Andreina Di Sanzo
piercing-2018-nicolaspesce

I am very happy / So please hit me / I am very, very happy/ So please hurt me cantava Antony nella sua Cripple and the Starfish, uno dei pezzi più tragicamente innamorati del dolore. L’amore e la violenza, questi due illustri conosciuti, su cui tanto si è scritto e visto, i giapponesi, maestri del dittico, hanno raggiunto vette con registi come Oshima, Miike e Ryū Murakami. Proprio lui, autore del romanzo da cui è tratto Piercing. Il freddo latex di Tokyo Decadence lascia spazio alla voluttuosa pelliccia della venere Jackie, interpretata da Mia Wasikowska, crudele vittima e dolce carnefice del suo rapitore.

Reed è un uomo distinto che con meticolosa normalità e accurata eleganza sta per lasciare sua moglie e sua figlia, preparandosi per un apparente viaggio di lavoro, un senso di incontrollata violenza già si percepisce dai primi minuti del film di Nicolas Pesce, classe 1990. Un film che come tanto horror contemporaneo ancora una volta si guarda allo specchio, tentando da un lato di sovraccaricare la forma, dall’altro svelandone subito i meccanismi, aggrovigliandosi nei rimandi e nell’aspetto più squisitamente ludico ma aprendo un discorso più ampio sull’eredità del cinema di genere.

Una prostituta un po’ annoiata viene chiamata da un cliente, forse un serial killer, forse un sadomasochista dei più raffinati e brutali. Nessuno sa cosa nasconde l’altro, nessuno sa quanto può essere rassicurante e pericoloso allo stesso tempo chi si ha di fronte. La commedia va in scena, il gioco tra la Venere e il suo Severin inizia. Ognuno nel suo ruolo che diventa dell’altro. Split screen, rossi accesi e Goblin, il regista non fa mistero della sua devozione al nostro cinema più efferato e abbagliante e, così come la coppia belga Cattet-Forzani (Amer, L’étrange couleur des larmes de ton corps e Laissez bronzer les cadavres!), si inchina al dio Argento e saccheggia con una certa spavalderia musiche, dettagli, messa in scena, cromatismi.

Reed e Jackie, necessitano di quella commedia, il gioco di ruoli diventa linfa e, più riconoscono sé stessi nell’altro, più danno sfogo al desiderio, favorendolo e assecondandolo.  
Ma se per Paul Thomas Anderson la battaglia per l’affermazione e la sottomissione diventa una questione tutta mentale tra i fili nascosti, qui si dà libero sfogo a torture fisiche che non lasciano spazio all’immaginazione. Corpi legati, imbavagliati, drogati fino a impedirne qualsiasi movimento, ripetute ferite autoinferte, allucinazioni visive, tutto quello che il sadomasochismo e il feticismo più estremo contemplano e prevedono. Reed e Jackie si incontrano per ritrovarsi.
Non vuole neanche sorprendere con twist inaspettati Piercing, quello che accade ai protagonisti è già un topos ampiamente conosciuto. Da rimandi alti come von Sacher-Masoch, il divin Marchese, Pauline Réage, a tanto cinema che ha reso celebri storie di vittime e carnefici, dipendenza e (e dal) dolore: Maîtresse di Barbet Schroeder, Bad Timing di Nicolas Roeg, fino all’ultima prodezza appunto di Paul Thomas Anderson. La storia di Reed e Jackie è già lì nonostante il futuro resti sempre incerto.

Dramma d’interni quello di Piercing, prima la camera d’albergo poi la casa della ragazza, la città solo per pochi attimi. La storia d’amore tra i due germoglia nel dolore e nella dolcezza che ne scaturisce subito dopo, ma accade lontano da tutti, fuori dalle luci della metropoli e nascosti tra le mura dei desideri e delle pulsioni più inconfessabili.
Humor nero e grottesco sono la cifra di un film che non si sofferma alla mera superficie di un omaggio allo splendore di quell’horror che non c’è più, Piercing è sì un esercizio smaliziato e accattivante, ma è anche una tenera storia di disperato bisogno di comunione.
L’ostentato manierismo estetico che volutamente infastidisce è solo il contraltare di una più semplice voglia di utilizzare quella superficie scintillante per inoltrarsi nei più neri, ma talvolta basilari, istinti.
Il bisogno primordiale di ritrovare in quella preda, il padrone che possa sfamare la necessità di godimento e che sia anche qualcuno a cui poter dire “Mangiamo prima?”

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Nicolas Pesce Mia Wasikowska Christopher Abbott 81 minuti
USA 2018
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Takara - La notte che ho nuotato

di Domenico Saracino
takara - recensione film Manivel e Igarashi

È un film breve (meno di 80 minuti) ma fascinosamente dilatato, Takara – La notte che ho imparato a nuotare, opera a quattro mani realizzata da un insolito duo franco-nipponico, composto da due giovani registi selezionati e apprezzati nei grandi festival internazionali: Damien Manivel, autore con alle spalle diversi cortometraggi e due lunghi  (Un jeune poète e Le parc) e Kohei Igarashi, creatore di Hold Your Breath Like a Lover, in concorso a Locarno diversi anni fa nella sezione Cineasti del presente.

Dilatato, si diceva, in virtù di una certa tendenza a godere della durata dell’inquadratura e della generale distensione ritmica, riconducibile ad un montaggio modico, limitatissimo, alla camera fissa e ai prolungati silenzi (i dialoghi sono del tutto assenti); e quindi audace nella relazione tutt’altro che consueta che cerca con lo spettatore, come certo slow cinema a cui alcuni grandi autori (Lav Diaz, Tsai Ming-liang, Chantal Akerman, Pedro Costa, Béla Tarr, Andrej Tarkovskij, Nuri Bilge Ceylan, Šarūnas Bartas, Lisandro Alonso e molti altri) hanno nel tempo abituato i cinefili di tutto il mondo.

Un'affinità, quella tra Takara e molte delle opere realizzate dai succitati cineasti, che – è bene precisarlo – riguarda, esclusivamente, una comparabile concezione del tempo e del ritmo della (non) narrazione, un’analoga concezione del cinema come dispositivo capace di imporre la durata, di imprimere lo scorrere del tempo nello schiudersi dell’immagine, di scolpirlo, come avrebbe detto Tarvoskij.
Nel raccontare la singolare giornata di un bambino ritrovatosi accidentalmente alla scoperta dei dintorni della sua casa, tra le montagne innevate del Giappone, per via del senso di solitudine in cui l’assenza del padre lo ha relegato e di un coraggioso tentativo di ricongiungersi con lui al mercato del pesce in cui lavora sin da tarda notte, il film di Manivel e Igarashi si sofferma deliberatamente sui momenti drammaticamente più marginali, quelli che potremmo definire i tempi morti del racconto: i lenti spostamenti a piedi (che fanno pensare, pur con tutt’altra estetica e più radicale sperimentazione, alle interminabili passeggiate sotto la pioggia di Sátántangó), le sigarette fumate e le patatine sgranocchiate nella casa silente, all’alba, un mandarino sbucciato con la calma serena dell’infanzia.

È un cinema, questo, che mette a dura prova lo spettatore assuefatto ai fast cut, all’azione frenetica e sfavillanti effetti speciali, chiedendogli, piuttosto, di imparare a star dentro quadri filmici semplici, svuotati da ogni spettacolarizzazione e persino drammatizzazione, di godersi il puro svolgersi delle cose, istante per istante. Con l’azzardo consapevole di flirtare con la noia o meglio con la deliberata intenzione di farne buon uso, essendo l’otium, come inteso dai nostri ben più saggi avi, uno spazio di liberazione dalle frenesie mondane, di esplorazione dell’interiorità, di contemplazione. Che è poi ciò che consente agli occhi di vedere le cose in tutta la loro quiddità, nella loro esistenza più vera, affrancata dalle deformazioni del pensiero. Cinema del nulla (il “Mu” inscritto sulla lapide di Ozu, uno dei grandi precursori nipponici, insieme a Mizoguchi, dello slow cinema), cinema che non fa violenza al pensiero incalzandolo e ingabbiandolo tra le maglie di fitti intrecci di avvenimenti, cinema della mindfulness.

In questo (r)allentamento delle tensioni drammatiche, in questa assenza di elementi di distrazione dall’immagine e dalla sua durata, lo spettatore può così sperimentare un accrescimento della propria sensibilità, un potenziamento della capacità percettiva, il godimento del cinema pienamente dispiegato, non più asservito alla dittatura dell’intrattenimento.

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Damien Manivel Kohei Igarashi Takara Kogawa Keiki Kogawa Chisato Kogawa Takashi Kogawa 79 minuti
Francia, Giappone 2017
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Destroyer

di Mattia Caruso
Destroyer - recensione film kusama

In tempi di revenge movie tutti giocati in chiave action e adrenalinica (da Taken a John Wick), è curiosa la scelta intrapresa da un prodotto a questi solo apparentemente assimilabile come Destroyer, ultima fatica della regista statunitense Karyn Kusama. Perché la discesa agli inferi del detective Erin Bell (Nicole Kidman), ex agente federale tormentata dal peso del passato e da una missione sotto copertura finita in tragedia, è quanto di più lontano si possa immaginare da qualsiasi fiero prodotto di serie b, quanto di più distante da un approccio fumettistico e rabbioso a una materia che pare comunque inesauribile.

Alla sua sesta regia, Kusama sceglie così, per la sua storia fatta di sensi di colpa e redenzione, di percorrere una strada più riflessiva e sofferta, contaminando la spirale di violenza scatenata (involontariamente?) dalla sua protagonista con tinte cupe e crepuscolari, prendendosi tutto il tempo che serve per svelare un mistero a questa legato indissolubilmente.
Per farlo mette in scena tutti gli elementi del più classico dei noir metropolitani - da una Los Angeles fatta di ville e bettole a un passato che ritorna con il suo carico di rimpianti e di crimini insoluti - scomponendoli, però, attraverso il proprio sguardo peculiare e costruendoci attorno un film in cui è proprio il peso del passato a dettare regole e sezionare l'azione, in una struttura circolare dove i diversi livelli temporali e narrativi (così come gli stessi generi cinematografici: dal poliziesco all'heist movie) si alternano senza sosta fino a far collassare il tempo su se stesso.

E se poco o niente rimane del precedente (e sorprendente) The Invitation (fatta eccezione per le dinamiche quasi settarie della banda di criminali capeggiata dal mansoniano Silas di Toby Kebbell), è alle origini del proprio cinema e all'esordio di Girlfight, con quella donna forte e sola in mezzo a un mondo di uomini, che pare guardare ancora una volta Kusama, mantenendosi, però, questa volta, lontana da qualsivoglia discorso di genere (segnando così le distanze anche da prodotti recenti come il Revenge di Coralie Fargeat) e dando vita a un personaggio decisamente negativo, un antieroe irrimediabilmente compromesso ma desideroso di riscattarsi da un male che, in definitiva, ha contribuito a creare.
È qui, dove Dirty Harry incontra l'Abel Ferrara de Il cattivo tenente, che Destroyer dà vita a un calvario sofferto e degenerato, un tentativo di espiazione incapace, però, di andare al di là delle più abusate convenzioni del genere, perso com'è attorno alla sua camaleontica interprete, una Nicole Kidman invecchiata e imbruttita sopra le cui esili e malconce spalle pare posato tutto il peso dell'operazione.

Il risultato è un'opera suggestiva ma scostante, forte delle sue atmosfere e del suo nichilismo senza speranza, dove gli ideali precipitano nel baratro dell'avidità e la fascinazione per il male diventa una condanna che si mangia amori, affetti e qualsiasi possibilità di una vita normale, ma anche dove la suspense (a differenza di un film costruito proprio sull'attesa e sul disvelamento progressivo come era The Invitation) rischia di perdersi lungo la strada, penalizzata da un minutaggio eccessivo e da rallentamenti dell'azione a tratti gratuiti ed estetizzanti, fino a un epilogo che ha tutto il sentore di un prevedibile ed esibito martirio laico, tutta la consapevolezza di un'occasione (in parte) mancata.

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Karyn Kusama Nicole Kidman Toby Kebbel Sebastian Stan Tatiana Maslany Bradley Whitford 123 minuti
USA 2018
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Likemeback

di Arianna Pagliara
Likemeback di Leonardo Guerra Seragnoli

Difficile, dopo un esordio insolitamente maturo, limpido ed elegante come Last Summer (2014), realizzare un’opera seconda che possa superare – o quantomeno eguagliare – l’espressività e la sorprendente compiutezza, non solo formale, della prima. Perché oltre all’ottima intuizione di base – la storia, tutta girata su un’imbarcazione, di una madre che ha quattro giorni di tempo per dire addio al suo bambino – il primo film di Leonardo Guerra Seràgnoli vanta la collaborazione alla sceneggiatura di Banana Yoshimoto, i costumi di Milena Canonero e la progettazione dello yacht – spazio fisico che si fa emotivo, racconto di una claustrofobia che è anzitutto interiore – di Odile Decq.

Difficile, ma non impossibile. Con Likemeback il regista mette in campo un discorso attualissimo e scottante, che è – di conseguenza – territorio più che noto, fin troppo esplorato, descritto, raccontato: il rapporto delle nuove generazioni con il web e i social network e dunque, per traslato, con le modalità di costruzione, rappresentazione e veicolazione della propria immagine, divenuta in questo senso un perno identitario irrinunciabile.

Il rischio era, come è facile intuire, quello della ripetizione, della banalizzazione, della programmaticità. Tuttavia Seràgnoli riesce a eludere queste potenziali insidie con una regia fresca e ricca d’immediatezza, grazie a una macchina presa il cui sguardo aderisce quasi sensualmente ai corpi e ai volti delle tre protagoniste femminili. Lo spettatore viene così trascinato dentro allo spazio ovattato e avvolgente di questa intimità condivisa fin quasi a violarla. Intimità che, qui come nel precedente film, è a tratti forzata e dunque claustrofobica: perché anche Likemeback è girato quasi interamente su una barca. All’interno di questo perimetro ristretto è impossibile celare o elaborare privatamente le emozioni, e l’estrema prossimità fisica spalanca distanze interiori, quasi fosse un detonatore che fa esplodere contrasti e impulsi che altrimenti sarebbero forse rimasti sopiti.

Il pretesto per questo viaggio in barca lungo le coste della Croazia è l’esame di maturità che le ragazze – Lavinia, Danila e Carla – si sono lasciate alle spalle. Ma la realtà – fatti di luoghi, colori, odori, persone – per le protagoniste è solo inerte sfondo su cui fotografarsi nella speranza di ampliare il numero dei followers su Instagram. Solo Carla, infine, farà eccezione: più silenziosa e sensibile, all’apparenza remissiva e spesso schiacciata dalle prepotenze e dall’egocentrismo delle (presunte) amiche, si rivela invece l’unica in grado di vivere serenamente e spontaneamente le proprie esperienze (l’amore) e gestire con equilibrio e coraggio le proprie emozioni (la rabbia, la delusione).

Likemeback è un film sul presente, sull’alienazione, sul narcisismo, sulla “vetrinizzazione” dell’io e del corpo ricercata e voluta da un soggetto (Laviania, Danila) che si autoesalta oggettivandosi; è un film sul cortocircuito tra reale e virtuale, tra presenza e assenza (“i followers non sono persone reali”); è una spietata messa a nudo del terribile e irreversibile meccanismo con cui, sovraesponendo la nostra immagine, sovraesponiamo anche la nostra – fragile – interiorità. Ma è anche un coming-of-age in grado di travalicare i confini entro i quali, in un primo tempo, sembra voler svilupparsi. Perché al di là dell’attenta ed efficace analisi delle tendenze quasi autistiche e monomaniacali derivanti dall’utilizzo esasperato e compulsivo dei social, Likemeback sa sviluppare un’accurata disamina, per nulla scontata, dei sentimenti: l’invidia, vero input pulsionale che spinge le protagoniste alle azioni più abiette, l’insicurezza, l’affetto, il desiderio.

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Leonardo Guerra Seragnoli Durata: 80 minuti
Italia, Croazia, 2018
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Last Summer

di Riccardo Bellini
Last summer - recensione film Serragnoli

In Last Summer (2014), verso la fine, e più precisamente appena dopo che si è finalmente stabilito quel contatto tra madre e figlio faticosamente inseguito, anelato per tutto il film, Naomi (Rinko Kikuchi) racconta al figlio Ken (Ken Brady) la leggenda di un’isola giapponese secondo cui, stando stesi sulla spiaggia e fissando il sole a una data ora del giorno, è possibile incontrare il Dio del mare. Chiunque lo incontri riceve in dono la facoltà di viaggiare per tutto il mondo in un istante. Il lungometraggio d’esordio di Leonardo Guerra Seràgnoli è appunto un film sul superamento dei confini spazio-temporali attraverso la forza dei sentimenti. Naomi ha solo quattro giorni su uno yacht, assediata da un equipaggio silenzioso ma invadente, per riconquistare l’affetto del piccolo figlio Ken, sottratto alla madre e affidato alle cure del padre che non vediamo mai, per una colpa commessa dalla donna tempo fa e di cui non sapremo mai nulla. Terminate queste poche ore, Naomi dovrà allontanarsi dal figlio per undici anni, prima di poterlo rivedere.

Opera di barriere fisiche ma soprattutto emotive, dove distanza e separazione determinano e configurano la messa in scena a partire da un calibrato lavoro sullo spazio che si fa totalizzante, cuore pulsante di un’operazione registica rivolta con intensità a un cinema di silenzi e gesti quotidiani vivo soprattutto nel panorama asiatico, e in particolare in quello coreano (assieme al graphic novelist italiano Igort, contribuisce alla sceneggiatura anche la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto). Seragnoli sfrutta abilmente la costrizione imposta dagli spazi angusti dello yacht, in cui si dipana la ricerca d’amore materno di Naomi, per ingigantire la distanza affettiva - e culturale - tra una madre e un figlio separati da tempo. Alla vicinanza estrema determinata dalla logica dell’ambiente corrisponde il massimo della distanza sentimentale che andrà limata sempre più, ora dopo ora, tentativo dopo tentativo, fino a risvegliare quel rapporto sopito, mai totalmente dimenticato. Specchi e superfici riflettenti producono a più riprese effetti illusori che disorientano la prospettiva, - così come alcune false soggettive -, suggerendo lo spaesamento provato da Naomi, la cui identità di madre lotta per riaffermare sé stessa e riconoscersi attraverso il contatto a lungo inseguito col figlio. Quasi tutto comunica in assenza (le telefonate del nonno paterno di Ken che non compare mai) o attraverso ostacoli (Naomi e poi lo stesso Ken origliano sovente ciò che accade in altre stanze).

In Last Summer, all’isolamento in cui sono costretti i personaggi, a partire dal micro mondo familiare creato dai confini che la barca e la sconfinata distesa d’acqua segnano intorno a loro, corrisponde un secondo e più subdolo isolamento, quello a cui l’equipaggio dello yacht, istruito dal padre di Ken, tenta di relegare Naomi, allontanando la donna dalle simpatie del figlio. L’unica risposta possibile a questa strategia di esclusione è allora trovare le coordinate emotive per rifugiarsi in un altro tipo di rapporto esclusivo, basato però su legami più profondi rispetto alla semplice educazione impartita e subita, quello tra una madre e figlio in cui ad essere lasciato fuori è il resto del mondo. Una progressione precisa che porta, dalla comunicazione degli sguardi, passando per la lingua giapponese sconosciuta ai membri dell’equipaggio con cui Naomi inizia a rivolgersi a Ken, fino al contatto fisico in riva al mare, quando il film comincia a respirare liberandosi, anche se forse solo per un attimo, dalla logica angusta dettata fino a quel momento dallo spazio.

I quattro giorni volgono al termine, ineluttabili, lasciando davanti a sé la consapevolezza della crudeltà del tempo, ma, al tempo stesso, la riconquistata fiducia in un legame pronto a superarne la prova. Per Naomi la breccia è stata aperta e non solo nel figlio Ken. Seràgnoli, con sguardo delicato e millimetrico, ci regala prima del congedo definitivo della protagonista, un ultimo e insperato contatto umano, rigorosamente silente, tra la donna e il capitano dell’equipaggio, in una stretta di mano che ha il sapore di una speranzosa e commossa conquista.

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Leonardo Guerra Seragnoli Rinko Kikuchi Ken Brady 94 minuti
USA 2014
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John Wick 3 - Parabellum

di Matteo Berardini
john wick 3 parabellum - recensione film

Bossoli che piovono sul pavimento, lame che trapassano le carni, l’impatto violento di corpo su corpo, lividi, fratture, urla, l’odore acre di cordite sospeso nell’aria. Prosegue con Parabellum la lunga notte di John Wick, il killer malinconico con cui Keanu Reeves, Chad Stahelski e David Leitch hanno conquistato nel 2014 il mondo action hollywoodiano riportando al centro della scena la spettacolarità degli stunt e l’eleganza del kung fu. È ancora l’onda lunga di The Raid, la lezione di una violenza dalle coreografie raffinate e assieme brutali restituite spesso in camera fissa e tempi di montaggio più dilatati, se non piani sequenza che diventano vere e proprie composizioni musicali di combattimenti e conflitti a fuoco. Non a caso John Wick 2 porta con sé lo stesso limite di The Raid 2: Berandal, il tentativo fallito di replicare la stilizzazione action unendola al respiro epico di una narrazione criminale più vasta e complessa; mancava di incisività e immaginazione visiva John Wick 2, lontano dalla coerenza impeccabilmente b movie del primo capitolo. Tanto di cappello a Reeves e Stahelski allora, perché Parabellum è una fenomenale rinascita della saga, il capitolo finora più riuscito, affascinante e sorprendente, che trova la quadra del cerchio equilibrando perfettamente parossismo visivo e fiducia cieca nel personaggio.

Dopo un lungo incipit notturno che si collega direttamente al capitolo precedente, Parabellum riprende l’esplorazione dell’underworld criminale abitato da John Wick, regole e rituali di un mondo che sembra sempre meno sotterraneo ma piuttosto parallelo e contiguo al nostro, tanto è ramificato e onnipresente e globalmente pervasivo. Dietro ogni barbone si nasconde un informatore, dietro ogni ristorante cinese una squadra di killer dai talenti marziali, la violenza può esplodere nel mezzo delle strade e degli spazi pubblici ma in qualche modo è sempre non vista, nascosta in pieno sole. Parabellum approfondisce l’indagine di quest’organizzazione criminale ma riesce a farlo sempre e comunque attraverso l’azione, concatenando tra loro sequenze memorabili che pompano adrenalina e stupore mentre si gioca sempre meglio con i limiti del fisicamente possibile. Certo, il film gira su sé stesso e su quanto accaduto in precedenza, reitera situazioni e soluzioni narrative, non sfugge a una certa macchinosità dell’intreccio, seppur basilare, eppure tutto resta magnificamente in piedi e di più, vola a livelli inediti di spettacolarità e creatività visiva in un’escalation adrenalinica che non rinuncia mai al movimento per raccontare la sua storia. Tra cavalli, moto, sale wellesiani di specchi e inganni riflettenti, Parabellum è anche un film assai generoso con i suoi personaggi, cui regala momenti e spazi consistenti: Ian McShane, accompagnato perfettamente dal compassato Lance Reddick, ben incarna lo spirito elegantemente indomito del Continental, mentre Laurence Fishburne si ritaglia uno spazio che, con tanto di citazione iconica e urlatissima, ammicca all’esperienza condivisa con Reeves di Matrix; a sorprendere è invece Halle Berry, rediviva, che assieme a due mortali cani-velociraptor si prende per sé un lungo momento d’azione relegando John Wick in un angolo.

Scisso tra passato e presente, tra la violenza lunga una vita e il ricordo di un amore da conservare a ogni costo, John Wick è quanto di meglio possa regalare il genere duro e puro, un personaggio oscuro orgogliosamente bidimensionale ma coerente e ben delineato nelle sue linee guida, dotato di un carisma immenso e della consapevolezza ludica di vivere un mondo al limite; Parabellum in questo senso è il capitolo più autoironico e eccessivo, un film che abbraccia l’intensità sopra le righe di scene e situazioni e si dimostra  in grado di reggere ogni esagerazione, come solo il miglior cinema d’azione è in grado di fare. John Wick è ormai una figura epica, puro cinema spettacolare di fronte il quale poco o nulla contano le banali necessità e limiti del reale.

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Chad Stahelski Keanu Reeves Ian McShane Halle Berry Asia Kate Dillon Jerome Flynn Lance Reddick Laurence Fishburne 130 minuti
USA 2019
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Lo spietato

di Riccardo Bellini
Lo spietato - recensione film De Maria

Già dal milanese fittizio e caricaturale di Riccardo Scamarcio abbiamo una sintesi di quella che è in definitiva l’arma migliore al servizio de Lo spietato: il suo non prendersi (troppo) seriamente. Prodotto da Bibi Film e Rai Cinema e approdato il 19 aprile su Netflix, l’ultimo film di Renato De Maria (già autore del documentario Italian Gangsters) racconta scorsesianamente ascesa e caduta di Santo Russo (Scamarcio), immigrato calabrese nella Milano degli anni Sessanta che, a partire da una giovinezza travagliata, capisce subito come sfruttare il proprio talento criminale, arrivando nel giro di vent’anni a toccare i vertici della malavita milanese. Liberamente ispirato al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, al cui centro ci sono le testimonianze del pentito Saverio Morabito, Lo spietato guarda a una sensibilità transoceanica e all’epopea gangster come a una risorsa cinematografica cui attingere ma non certo da celebrare.

La scelta di cucire addosso al genere gangster una chiara veste comedy, soprattutto nella prima parte, gioca a favore di un film che non ha nessuna pretesa di rinnovare il genere e che anzi, al contrario, segue piuttosto pedissequamente un collaudato percorso di ascesa e caduta criminale. La demenzialità di certi momenti - una chicca la sequenza del matrimonio di Santo, turbato ma non troppo dall’arrivo dei carabinieri con tanto di foto di gruppo annessa - è altra cosa rispetto alla necessità di creare attimi di distensione per irrobustire la carica empatica dello spettatore; piuttosto finisce qui con l’essere il tono generale di una rappresentazione in cui l’assurdo sconfina nel patetico. Questo grazie soprattutto a un ottimo Scamarcio, convincente nel ruolo del parvenu cafone e inconsapevole (utilizza l’espressione «ça va sans dire» senza conoscerne il significato, emula con ostentazione un dialetto non suo) arricchitosi in un’Italia spregiudicata di disastrosi e inaccessibili modelli identitari, di cui finisce col diventare un riflesso.

Una parabola negativa di larga fruibilità che per fortuna rinuncia in modo intelligente a sentimentalismi ricattatori e potenzialmente ambigui, a partire dall’assenza di una storia d’amore, a fronte al contrario di un lavoro sui due personaggi femminili determinante per la riflessione del film. Da una parte Mariangela (Sara Serraiocco), mogliettina casa e chiesa di Santo calata nella Milano arrampicatrice direttamente dalla Calabria degli anni Cinquanta, dall’altra Annabelle (Marie-Ange Casta), artista francese che frequenta i salotti della Milano radical chic. Nessuna delle due si salva da uno sguardo impietoso. La seconda finisce con l’infatuarsi del volgare protagonista, nel momento stesso in cui questo rivela la propria animalità violenta, salvo scappare a gambe levate dopo un colloquio chiarificatore con Mariangela. Quest’ultima è la vera svolta del film. La sua trasformazione, nel finale, da femmineo retaggio di un Sud secolare, alla cinica moglie del boss in tacchi a spillo completa il quadro di un Paese in mutamento e dei desideri di una fetta dell’Italia pre-berlusconiana.  

A non funzionare sono invece alcuni snodi narrativi, troppo sfilacciata la seconda parte, in cui tra l’altro il ritmo cala in più punti all’interno di un prodotto che già di per sé non mira all’originalità. L’ellissi che va dall’arresto di Russo alle sue speculazioni in campo edilizio, anni dopo il carcere, è un’occasione mancata per riflettere su una svolta cruciale nel campo della malavita e della nostra Storia recente. Film soprattutto di maschere e di personaggi, con qualche punta di gustoso estro comico, Lo spietato è niente più che un’esperienza godibile, che se non altro ha il pregio di non scadere nell’eccessivo autocompiacimento di tanto cinema crime.

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Renato De Maria Riccardo Scamarcio Sara Serraiocco Alessio Praticò 111 minuti
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Pet Semetary

di Saverio Felici
Pet Semetary - Recensione film Kolsh e Widmyer

In Pet Semetary c'è probabilmente la storia più rappresentativa di tutto il canone kinghiano. Ripresa da chiunque, oggetto di parodie, canzoni, lodata da Stephen King in persona, oggetto di un adattamento tra i migliori dello sfortunato catalogo cinematografico dell'autore (Cimitero vivente, Mary Lambert, 1989), l'immagine del cimitero indiano capace di riportare in vita le bestie sepolte è ormai di pubblico dominio. Gli autori Kevin Kolsh e Dennis Widmyer, a lavoro su commissione dopo l'apprezzato indie horror Starry Eyes, si approcciano a un simile tesoro nella maniera più prudente: quella della trasposizione analogica, step by step. Con un'unica, colossale variazione interna, paradossalmente capace di sabotare quanto di buono messo insieme.

La storia di Pet Semetary mette da quarant'anni la razionale e traumatizzata famiglia Creed alle prese con il luogo del titolo (typo sulla C voluto). Papà Louis (Jason Clarke), medico illuminista, e mamma Rachel (Amy Seimetz), perseguitata da un ricordo d'infanzia allucinante, si trasferiscono a Ludlow, Maine, insieme ai piccoli Eilie e Gage, di dieci e due anni. Ubicato in una foresta poco lontano la loro nuova abitazione, sonnecchia il cupo sacrario del titolo, dedicato agli animaletti defunti della cittadina. Come scopriranno presto tramite il vecchio custode-Caronte Jud (John Lithgow), il luogo è in realtà la porta per un territorio arcano, maledetto dalle tribù Mikmaq e capace di restituire la vita alle carcasse che vi vengono sepolte. Nonostante lo scetticismo del patriarca, alla morte del gattone di famiglia Church i Creed cadranno nella tentazione di mettere alla prova i Grandi Antichi del bosco. Sarà il punto di non ritorno: quando la morte verrà a prendersi un membro della famiglia, il potere del cimitero porterà Louis ad un gesto folle.

L'idea più forte del romanzo alla base di Pet Semetary, sta nella sua versione del mito del "ritornante". Nell'opera kinghiana, un apologo cupissimo e disperato sul lutto e la perdita, a subire suo malgrado il potere del terreno "inquinato" (tema fondamentale in moltissime opere del maestro di Portland), è il piccolo Gage Creed: il parto di questa aberrazione, la figura del duenne zombie, è un coacervo di orrore edipico e di tabù infranti (il massimo dell'innocenza pervertito dal massimo dell'innaturale) e rappresenta l'intuizione più indimenticabile del materiale di partenza. Per motivi insondabili (che presumibilmente vanno dalla necessità di bilanciare protagonisti maschili e femminili, alla banale paura di mettere in scena la morte brutale di un infante), il copione di Jeff Buhler decide di cambiare l'identità del cadavere. A morire, e a tornare, è allora un personaggio molto più "ovvio", molto meno disturbante, e soprattutto molto più serenamente inserito in una tradizione horror battuta e ribattuta (che passa per Mario Bava, l'Esorcista e mille altri J-Horror). E così, l'unica idea originale di un adattamento letterale, è un'idea sbagliata. Che sabota quanto di radicale ci fosse nel materiale di partenza, e lo riporta sui binari del già visto.

Azzoppato da questo errore concettuale, il Pet Semetary 2019 fa comunque il possibile per concludere la sua corsa in posizione accettabile. Il risultato, a onor del vero, è tutt'altro che tragico: in un campionato come quello degli adattamenti kinghiani, un campionato che vede centinaia di partecipanti e quasi nessun vincitore, il film di Kolsh e Widmyer evita quantomeno la retrocessione. Se, come detto, il climax del film soffre la codardia della produzione, è inevitabile che il meglio arrivi in fase di costruzione. Il lavoro competente sulla tensione e l'atmosfera della prima ora non è male: tra presagi infernali e ritmi compassati (il film si prende i suoi tempi), un cast di discreto livello (ancora ottimo il sempre dolente Clarke; simpatico Lithgow, di supporto il resto), e un immaginario di fondo a cui, se si è fan, è inevitabile ritrovarsi immediatamente affezionati, il film cammina. Gli ormai inevitabili easter eggs ispirati all'opera dello scrittore hanno poi il loro ruolo nella furba captatio benevolentiae dello spettatore, che di fronte alle citazioni di Derry e La torre nera finisce sempre per abbassare le difese. Alla fine, a venir fuori è più che altro il tono da fiaba triste: il film lascia fuori spiegazioni e divagazioni mostruose, e sembra voler raccontare soprattutto di un gruppo di persone incapaci di affrontare la perdita.

Per il resto, c'è molto poco di cui discutere. Visivamente il film si presenta come il più tipico dei prodotti horror mainstream di questi anni: molto dimesso, visivamente sciatto (troppo digitale inutile nelle scenografie), pretenziosamente "realistico" e avvolto da una fastidiosa patina Netflix che tradisce le vere ambizioni del progetto su commissione: bruciarsi il weekend di apertura e finire il prima possibile nelle playlist a tema di qualche piattaforma streaming. E se rispetto ad altri adattamenti recenti ne esce tutto sommato dignitosamente, è il confronto con la versione 1989 a mettere davvero ko Kolsh e Widmyer. Dagli effetti al look, da Zelda a Gage, non c'è confronto con il film di Mary Lambert che questo cimitero 2019 non riesca a perdere. Non un granché, come biglietto da visita.

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Kevin Kolsh Dennis Widmyer Jason Clarke Amy Seimetz John Lithgow Jeté Laurence 101 minuti
USA 2019
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