Planet B

di Alessio Baronci
Planet B - Recensione- Film - Rapin

Il punto di partenza, anche e forse soprattutto inconscio, di Planet B è probabilmente poco conosciuto ma affascinante. Giusto un paio d'anni fa Daniel Goldhaber gira How To Blow Up A Pipeline, storia (tratta dall’omonimo saggio di Andreas Malm) di un gruppo di giovani ambientalisti male in arnese che decide di far saltare un oleodotto americano. È quasi una rivelazione silenziosa, che colpisce soprattutto per il modo in cui Goldhaber tratta l’ecologia, tema di fondo ma anche prassi linguistica. Ecologia dei segni, della scrittura, quindi, ridotti all'osso in un action che al di là delle imperfezioni si crede un heist movie fino in fondo e crede soprattutto nel suo immaginario, nella sua sintassi, nei suoi rituali, che alla lunga quasi si mangiano il tema di fondo, si, ma allo stesso tempo proteggono il film dal rischio di scadere nella vuota retorica.
Come a voler immaginare il linguaggio di un action a tema ecologista e lasciar intendere, forse, tra le righe, che si dà importanza all'ambientalismo ma forse a sedurre irrimediabilmente chi guarda è soprattutto il fascino avventuroso del racconto puro del "colpo".

Ecco Planet B. il film di Auede Lèa Rapin presentato all’ultima Settimana Della Critica è probabilmente il passo successivo a quanto già si intravede nel film di Goldhaber, il tentativo di rispondere e approfondire i discorsi attorno a domande che già emergevano tra quelle immagini: come si crea un intero mondo attorno a un’urgenza tematica così profonda; come si gestiscono un ritmo, un respiro, una serie di motivi ricorrenti, un modo di approcciarsi alla sintassi legandolo a uno spazio da "cinema di genere"? E forse la vicinanza tra i due film la tradisce anche questo atteggiamento quasi giocoso nei confronti del tema ambientalista. È da lì in effetti che si parte, è su di esso che si costruisce un racconto teso tra la sci-fi e l’avventura pura, che segue un gruppo di ambientalisti impegnato in azioni di guerriglia contro il governo in un futuro vicinissimo alla nostra contemporaneità, ma proprio all’apice dell’operazione su cui si chiude il prologo, apparente centro narrativo del film, improvvisamente scarta, lascia intendere che più che nel primo piano, nella ribellione pura, il vero interesse stia tutto nello sfondo.

A risaltare, nella fuga a perdifiato dalle autorità del protagonista non è quasi più, allora, il gesto politico ma il linguaggio, i marcatori di immaginario con cui questa corsa a perdifiato viene raccontata, tra il cinema della sorveglianza, le inquadrature termiche dai droni come in Watch Dogs e il ritmo da action movie fatto e finito, per quanto pensato per un budget contenuto. Da lì Planet B pare affascinato dalla sua capacità mitopoietica, a tal punto che a tratti pare attardarsi nel racconto della sua storia per costruire in modo certosino il suo mondo futuro sull’orlo del baratro climatico, puntellato di riferimenti futuristici a bassa fedeltà eppure tutti centratissimi, affascinato dai suoi neon, dai suoi meccanismi, dai suoi rituali, dalla sua mitologia, tutti elementi raccontati con cura al di là della loro importanza nello spazio narrativo.

C’è talmente tanta passione, nella creazione del terreno d’azione di Planet B che a tratti la questione ambientalista sembra perdersi e il film di Rapin pare divenire a tutti gli effetti una sorta di esercizio di stile in forma saggistica sulle possibilità del world building nel cinema di genere europeo.

Planet B-recensione-film-Rapin

Ma se facesse tutto parte del gioco?

Planet B: come in "There Is No Planet B", lo slogan ambientalista mantra dei Fridays For Future fin dal 2019, slogan che evidentemente riemerge anche sul finale del film, rabbiosamente urlato in faccia ad alcuni agenti del potere centrale da una dei protagonisti. Non c’è un secondo pianeta, o forse c’è ma, nella distopia del racconto è uno spazio governativo, è la prigione virtuale dove verranno trasportati e torturati i giovani guerriglieri dopo l’azione fallita che ha aperto il film, ironico ribaltamento di fronte di un film che pare soprattutto, più che una resa, un tentativo di mettere le cose in prospettiva. È un po’ come se Planet B si posizionasse oltre l’ambientalismo, ragionando più come un’operetta morale che come un testo dal retrogusto apocalittico. Perché in fondo è inutile pensare all’ambiente se i meccanismi del potere e del sopruso sono ancora attivi e aggressivi. Ecco allora che Planet B dà il meglio di sé quando diviene lucidissimo saggetto sulla pervasività degli strumenti del controllo, sul biopotere e sulle questioni morali che si creano in un gruppo di soggetti costretti in una situazione estrema come la prigionia e la tortura.

Sia chiaro, Auede Lèa Rapin non inventa in realtà nulla di davvero nuovo, rimastica in modo personale influenze distopiche note e fa emergere in primo piano un tema che probabilmente altri prima di lei hanno trattato con più chiarezza argomentativa. Eppure, malgrado un passo a tratti malfermo, la scrittura non perde comunque occasione di raccontare senza remore le ambiguità del nostro rapporto con il potere, di ragionare, forse soprattutto, su forme eminentemente contemporanee di controllo, che passano per la virtualità, per la creazione di un visivo influenzato dalla (post)verità modellata dai dati, per l’importanza di apparire, forse non a caso, invisibili in rete per organizzare le giuste strategie di contrattacco. E il passo del racconto non è mai davvero consolatorio, piuttosto la scrittura sembra costantemente cercare qualche dettaglio che pesi sul nostro petto, ci spiazzi, per quanto possibile, ci privi di vere e proprie vie di fuga.

Probabilmente, soprattutto sulla lunga distanza, Planet B rischia di apparire fuori fuoco, di rimanere sulla superficie delle cose, di presentarsi come un testo apodittico, ma il film di Auede Lèa Rapin è comunque uno dei pochi, cinici, racconti morali per il nostro presente liquido: perché richiama costantemente i nemici da combattere e perché, soprattutto, racconta senza filtri quanta strada ci sia ancora da fare nello spazio della biopolitica.

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Aude Léa Rapin Adèle Exarchopoulos Souheila Yacoub Eliane Umuhire India Hair 119 minuti
Francia Belgio 2024
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Queer

di Leonardo Strano
Queer- recensione film guadagnino

Quando nel 1985 William Burroughs si trova di fronte alla pubblicazione di Queer, trent’anni dopo averlo scritto, la sua posizione come autore è curiosamente simile a quella che caratterizza Luca Guadagnino oggi nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio: affermata, autorevole, ma soprattutto attenta alla domanda del mercato americano. Negli anni ’80 Burroughs ha superato il culmine del proprio potere di scrittura, ed è invece in un momento apicale di potere commerciale: non è più una voce, è ormai una firma, che conta anche fuori della cricca beat che lo aveva fatto conoscere nella cultura indipendente. Proprio in quanto firma, allo scrittore viene chiesto di siglare la pubblicazione del proprio esperimento giovanile, lasciato indietro per irrisolte questioni più personali che stilistiche – in particolare l’omicidio involontario della moglie Joan, fonte generativa dello scritto. Borroughs è meno che disinteressato, ma scrive una nuova introduzione. La nuova veste editoriale, più istituzionale, più normalizzata, magari stona con la vertigine della sua scrittura, inizialmente pensata per la pubblicazione indipendente di Ginsberg, ma in fondo ha il pregio inconsapevole di allineare le forme ai contenuti più impliciti. Di fare emergere in particolare, dietro al magma confessionale sulle proprie pulsioni, la netta fede nell’imperialismo americano (garante per lui di assoluta libertà d’espressione) e nella sua aggressività, con cui lo scrittore contrastava le correnti di sinistra che all’epoca contrastavano a loro volta l’omofobia attraverso una democratica resilienza cristiana – come esemplificava la posizione di Donald Cory, teorico del porre l’altra guancia di fronte alle offese. 

La versione del romanzo che, nel 1988, il diciassettenne Guadagnino incontra (per sua ammissione) in una traduzione italiana che porta il titolo di “Diverso”, non è quindi quella originale, non è una versione più completa, non un retcon delle intenzioni, che anzi vengono esplicitate, ma un oggetto teorico complesso: una mossa di autorialità performativa (mentre il dibattito sulla morte dell’autore infuriava), che indirettamente o meno spiega come conservare la progressione teorica della propria ricerca autoriale e allo stesso tempo difenderla dalla condizione di dipendenza dalle ragioni mercantili, sfruttando quest’ultime per mettere un’esponente politico alla propria autorialità.  “Diverso” (poi “Checca” e infine “Queer”) è quindi una fonte d’ispirazione produttiva, un modello di politica dell’autore, o semplicemente di politica dell’espressione potremmo dire, con cui confrontarsi anche trent’anni dopo l’incontro adolescenziale epifanico con uno stile di scrittura, con una grafia, capace di porsi il problema della rappresentazione della carne, della materia vivente, e di rispondere trasformando il linguaggio in un’altra carne, in un crogiuolo di sangue ribollente. Trent’anni in cui Guadagnino ha forse inseguito la realizzazione del suo Queer proprio ricercando la stessa posizione di autore capace di contrattualizzare le proprie ragioni rendendosi (in)dipendente nell’industria hollywoodiana. 

Anche per il regista, come per Burroughs, non preoccuparsi e imparare ad amare l’imperialismo americano è diventato garanzia implicita di libertà di movimento e di espressione della propria scrittura sul corpo. Anche per Guadagnino, come per Burroughs, normalizzare e comprimere parte di questa espressione è il prezzo da pagare per vederla realizzata. Lo scrittore dovette alleggerirla di almeno trenta pagine; il regista invece ha presentato a Venezia una versione più corta di quella pensata inizialmente e già pronta per essere venduta al pubblico americano (via A24), ripulita dall’ora di esplicite peregrinazioni sessuali del personaggio di William Lee a Città del Messico - questa invece è stata un'ammissione di Alberto Barbera. Il simmetrico gesto di decurtazione è rivelatorio della capacità più o meno fallimentare di controllare e appropriarsi delle aggressioni del mercato, sintomo di un dislivello tra le due opere: se per il primo corrispose a una decisione volontaria, coerente con il proprio progetto formale, per il secondo è stata probabilmente una costrizione, fonte di inaspettate contrattazioni che portano il film ad altrettanto irrisolti sbilanciamenti. Per Burroughs rimuovere parti della sua opera significava d’altra parte in qualche modo continuare l’azione cardine della propria scrittura: la capitalizzazione del vuoto, del non detto, del gap tra le parole prodotte dal cut-up. Per Guadagnino invece si tratta di un indebolimento – che finisce per essere più interessante del film, sul piano testuale niente più che una sintesi trasparente e prevedibile di interessi autoriali ormai talmente chiari da necessitare, per generare immagini sempre nuove, più le sfide produttive di una commissione (come Challengers), che quelle dettate da sogni personali.

craig queer

Per quanto originato secondo gli stessi principi di teoria della produzione d’autore, il suo adattamento non ruota infatti sullo stesso principio formale (il vuoto), ma sul suo opposto (il pieno). Lo si capisce già dalle immagini iniziali, in cui proprio i fogli del manoscritto di Burroughs/Lee vengono prima ripresi come semplici superfici bidimensionali stesi su un letto e poi come pareti di casette di carta. Ancora una volta l’intenzione di Guadagnino è quella di usare il cinema come un catalizzatore di tridimensionalità, e cioè di profondità corporea, verità materica, corretta referenza d’essere, per le cose che la rappresentazione, letteraria ma anche audiovisiva, raffigura invece senza corpo. L’inizio di Bones and All funzionava allo stesso modo, e cioè usando uno scarto dimensionale – passando dalle pareti pitturate a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento – per dichiararsi ripensamento di un immaginario, quello del cinema americano anni 80. Qui lo scarto non invita solo a pensare, alla maniera di una postfazione critica fuori tempo massimo, alle parole di Burroughs come qualcosa che cerca di esprimere a forza un corpo senza riuscirci del tutto per limiti connaturati al medium della scrittura, ma spinge anche ad accogliere l’immagine cinematografica come un naturale completamento, un esito felice di quelle stesse parole.

Guadagnino pensa alle proprie immagini come la superficie, nel senso proprio come parte esterna delle pulsioni, dei desideri sessuali, dell’urgenza di contatto che trasuda dalla scrittura di Burroughs attraverso il tramite fittizio di William Lee – un Daniel Craig a cui viene chiesto uno sforzo di materializzazione degli stimoli mentali forse superiore al suo raggio d’espressione. Per questo sceglie di piegare le parole dello scrittore, o meglio, di piegare il vuoto che sempre le precede e le segue (nella scrittura di Queer c’è secca inconcludenza nella prosa, ogni frase è una meteora), e di farci degli angoli, dei segni di profondità appunto, intorno. Angoli di stanze, stanze di un set. Ecco, quindi, il viaggio esotico di Lee e della sua ossessione Alderton ricreato nell’interno di Cinecittà. Ecco in questi interni una serie di diorami d’ispirazione pressburgeriana, secondo un linguaggio massimalista, di decoro, molto lontano dalla rarefazione e dalla dispersione della scrittura originale. Ed ecco inscritti in questi diorami tentativi sempre più vari di mostrare l’imporsi e il darsi dei corpi, il loro stare, attraverso il movimento di macchina e l’uso del colore, la manipolazione della recitazione e la musica fuori tempo, tutto per liberare la massa plastica dalla camicia di forza letteraria e permetterle di farsi materia in movimento nello spazio.  

L’ambiziosa idea di riempire gli spazi-tra-le-cose prodotti dal cut-up burroughsiano trova nell’invenzione di un finale alternativo, non scritto, il suo momento decisivo. Lee e Alderton, sono immersi nella ricerca dello yage. Nel romanzo non lo trovano e la chiusura è brusca. Nel film Guadagnino sembra incapace di decidere tra la necessità di esorcizzare l’horror vacui, dando un esito narrativo al viaggio dei protagonisti, e quella invece di abbracciare la sperimentazione anti-drammaturgica, evocata anche dalla presenza in scena di Lisandro Alonso, araldo dell’accesso a una zona cinematografica altra. Alla fine, è scelta una via mediana, rappresentata dalla messa in scena degli effetti psicotropi dello yage sui corpi dei due protagonisti. L’occasione per il regista di dare sfogo figurativo alle sue idee sull’immagine cinematografica come segno indessicale (prodotto dalla frizione del passaggio del corpo desiderante tra le maglie della realtà) è però anche un punto limite sintomatico: nella trasformazione totale e totalizzante delle parole negate al lettore da Burroughs in carne e materia offerte alla vista si ritorna a uno stadio di puro colore, e cioè a quella bidimensionalità inizialmente rifuggita. Si ritorna cioè a uno stadio prefigurativo che oltre a rivelare la difficile condizione espressiva del corpo (elemento paradossale che manda sempre in cortocircuito le strategie rappresentative) dice anche qualcosa rispetto all’effettiva funzione del vuoto (Gombrich la chiamava espressività dell’assenza) come modalità di espressione “positiva”.

C’è più corpo, c’è più materia (e tutto ciò di cui essa è allegoria, tra cui anche l’affermazione politica rispetto all’imperialismo) nella capitalizzazione autoriale del non detto piuttosto che nell’estenuante ed estenuata ricerca del pieno. E Guadagnino, di fronte alla compressione mercantile delle proprie immagini esplicite, di fronte cioè a un altro vuoto, forse avrebbe dovuto cogliere la costrizione come un’occasione per ripensare da capo le proprie strategie critofilmiche e farle del tutto coincidere al loro modello burroughsiano (così lungimirante), piuttosto che ribaltarle attraverso continui ossimori. Non per copiare il maestro, ma per risolvere con i suoi stessi strumenti la propria impasse produttiva e poi eventualmente tradirlo sul piano formale. Invece ecco che lo vediamo percorrere, con uno sforzo certo ammirevole ma in fondo estenuato, tutta la Storia del Cinema per dialogare con il mutismo del suo modello. Come nell’epilogo, nel controfinale di “Ritorno a città del Messico”, che cerca con nostalgia lo scrittore attraverso il massimalismo del Kubrick di 2001: Odissea nello SpazioE cioè fino alla resa, come si diceva, nei confronti di un’immagine oltre le immagini, una sfumatura oltre il cinema che dica tutto, che parli in senso esauriente, e che tuttavia ha le fattezze di un nuovo testo: “I’m not queer, I’m disembodied” si ripete ancora il protagonista mentre la sua anima si spegne insieme al film.

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Luca Guadagnino Daniel Craig Drew Starkey Jason Shwartzman Lesley Manville Lisandro Alonso 135 minuti
ITA 2024
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Anora

di Maria Sole Colombo
anora recensione film baker

Anora di Sean Baker è un film semplice. Che non è sinonimo di stupido, di superficiale, di “facile da fare”. Anora è semplice come era semplice Accadde una notte, o come sono semplici le favole che le nonne raccontano ai bambini. E Anora, infatti, è innanzitutto Cenerentola: la storia di una poveraccia – stripper di periferia, immigrata, cafona e cazzuta – che finisce per miracolo col principe azzurro, discolo imberbe figlio di magnati russi. Coiti adolescenziali, playstation, matrimonio alcolico a Las Vegas: «Vi do due settimane», li apostrofa la collega stronza, e invece per sbrogliare la matassa basteranno ventiquattr’ore, una maratona a rotta di collo nella selva oscura di New York.

La struttura narrativa richiama modelli illustri: Tutto in una notte, naturalmente, ma pure Fuori orario, con quel suo atto unico senza soluzione di continuità, senza tregua, senza scampo. Un espediente drammaturgico caro a Baker, che già l’aveva impiegato in Take Out nel 2004 e in Tangerine nel 2015. Col senno furbetto del poi, Tangerine non è per Anora che una prova generale: ci sono le sex worker e gli emarginati, c’è il piglio arrembante e videoclipparo, c’è quel ribaltamento tra autenticità e contraffazione che per il regista statunitense è un po’ un chiodo fisso (la prostituta transgender protagonista del film del 2015, che guarda caso si fa chiamare Sin-Dee Rella, riceve come pegno d’amicizia una parrucca: un oggetto emblema del falso, per rinsaldare l’unico legame vero). Le unghie finte della stripper Anora, le sue extension manifestamente posticce, raccontano in fondo la stessa identica storia: sono una maschera sguaiata, fiera del suo cattivo gusto, ma paradossalmente genuina.

Il confronto tra Tangerine e Anora ci parla insomma di una grande coerenza tematica e drammaturgica, che si estende a tutta l’opera di Baker: la sua filmografia è costellata di sex worker più o meno falliti, si diceva, ed è ugualmente pervasiva l’ossessione per una macchina da presa mobile, francobollata ai personaggi, votata a un preciso mandato di pedinamento (e a questo proposito, la prova generale va rinvenuta necessariamente in Un sogno chiamato Florida, col suo infaticabile girovagare). Ma proprio nel passaggio che da Tangerine conduce ad Anora, in termini di dispositivo, si esemplifica il movimento compiuto dal cinema di Sean Baker: nel 2015 girava con l’iPhone, nel 2024 in 35 mm, e questo scarto marca una differenza essenziale in termini di sguardo e di poetica. L’immagine catturata dallo smartphone ci dice di un cinema povero nei mezzi, linguisticamente calato nel suo contesto: le immagini sono fatte della stessa pasta del mondo raccontato dal film, il dispositivo è coerente con l’ambiente. La pellicola 35 mm racconta tutta un’altra storia, e ben esemplifica la ricerca di una forma raffinata, assimilata ai modi di produzione del cinema autoriale. Un film da Festival di Cannes, insomma, e con un po’ di fortuna persino da Palma d’oro. Per i maligni, la lettura è fin troppo chiara: Sean Baker passa da un indie “vero” a un indie “falsificato”. Uno sguardo meno ideologizzato potrebbe leggere il movimento opposto: Baker sarebbe un autore che si spoglia delle proprie imposture per cercare una forma più classica, forse anche più ecumenica.

anora rece gf film

È “popolare”, senza ombra di dubbio, l’approccio di Anora al genere: con la sua trama intensamente romantica, con la sua eroina indomita e fuori controllo, il film aderisce con appassionata convinzione agli stilemi della rom com (si cita, senza vergogna alcuna, Pretty Woman di Garry Marshall). Ma nell’uso pirotecnico del dialogo, fittissimo e ricco di invenzioni, si risale dritti fino alla screwball degli anni 30 e ai suoi duetti dal ritmo indiavolato. Qualunque siano i modelli chiamati in causa, si coglie la distinta intenzione di omaggiare, senza necessariamente reinventare. Baker rivendica una cinefilia entusiasta, amorosa: è uno di noi, uno che non ha paura di mischiarsi col suo pubblico (come dimostra il suo aggiornatissimo profilo Letterboxd).

Questa semplicità di sguardo, rivendicata con un orgoglio che sfiora l’anti intellettualismo, non impedisce al cinema di Baker di confrontarsi criticamente con i segni e i luoghi della cultura mainstream. Starlet e Tangerine si ambientavano a Hollywood, Un sogno chiamato Florida si svolge tutto a pochi passi da Disney World, la trama di Anora si dipana tra Las Vegas e Coney Island, con le sue spiagge e i suoi lunapark: Baker predilige insomma gli spazi tipicamente ricreativi, di cui mette in scena i desolati dintorni e gli squallidi “dietro le quinte”. C’è, in questa attenzione per ciò che sta ai margini, un’antica concezione dell’“altra faccia del sogno americano”, che induce a guardare alle zone liminari, alle culture periferiche, al paesaggio suburbano. Se l’imperialismo statunitense si esemplifica, a livello urbanistico, con la forma-grattacielo, arrogante nel suo slancio verticale, Baker rivendica uno sguardo interessato alla perlustrazione dei marciapiedi, dei drugstore, dei motel da quattro soldi. Un cinema orizzontale, che non si vergogna di “volare basso”. Un cinema semplice.

 

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Sean Baker Mikey Madison Yuriy Borisov Mark Eidelstein 138 minuti
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The Brutalist

di Leonardo Strano
The brutalist - recensione film Corbet

The Brutalist inizia dove finiva Childhood of a Leader, nello stesso spazio di astrazione figurativa: l’abbattimento della scatola prospettica, il rovesciamento delle pareti del dramma in un vuoto panoramico senza coordinate. Nel film d’esordio Brady Corbet faceva vorticare la macchina da presa fuori da ogni asse per mettere il fascismo in figura: una distorsione delle linee di forza della messa in scena come segno della distorsione delle coordinate morali nella Storia dell’Occidente. In questo nuovo opus presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (come è stato detto, tre ore, pellicola, Vistavision) invece, ecco un nuovo vortice a risalire dal buio, non più per intercettare una folla urlante in adorazione del capo, ma per mostrare lo squarcio di cielo da un antro oscuro, una mano tesa tra le nuvole a offrire una fiaccola, la Statua della Libertà. Però demonicamente ribaltata, come un angelo caduto. Da un lato ecco quindi l’esito fantapolitico del fascismo di Prescott il bastardo, infante rabbioso mal cresciuto in regime famigliare di austerità repressiva, allegoria dell’interventismo americano nella genetica della geopolitica europea; dall’altro l’incipit di finzione romanzesca del sogno di libertà László Tóth, architetto ungherese fuggito in America per il nazifascismo ma già consapevole dello spettrale razzismo della terra delle opportunità. Una fine e un inizio, due immagini differenti, fatte scorrere lungo un un’unica cerniera, un unico assunto teorico che avrebbe fatto felice il compianto Frederic Jameson: distopia e utopia sono facce della stessa immagine, o meglio, sono la stessa immagine. E questa immagine ha i connotati dell’America. 

Oltre questa convinzione, in buona parte già evasa dalla teoria delle ideologie, Corbet aggiunge poco sul piano teorico. I suoi film (nati americani ma cresciuti europei e già identificabili come parte di un ambizioso progetto d’autore in critica con una nazione) si risolvono nell’intuizione che il mezzo cinema sia funzionale a mostrare l’ambiguità di questa stessa immagine, la sua natura dialettica, double fas. Non solo perché il cinema (almeno nella sua categoria produttiva di riferimento) è frutto di un plesso ideologico sospeso a metà tra ragioni di commissione industriale e creazione autoriale, al punto da rispecchiare omeopaticamente questa stessa ambiguità, ma anche perché il cinema come linguaggio redime questa ambiguità permettendo di abitarla. Di viverla cioè come un’esperienza fisica, tridimensionale, che si incontra con il corpo dei personaggi, all’altezza dei loro occhi. Drammi da camera sono tutti e tre i suoi film, in cui un trauma prende le forme di quattro pareti – ricordate il gabinetto decisionale con la mappa dell’Europa da ridisegnare nell’Infanzia di un capo, o la classe liceale della sparatoria iniziale di Vox Lux? – non tanto per ragioni meramente tematiche ma per una forte credenza formale, figurativa, nel cinema come linguaggio architetturale, che rimette in scena le interazioni tra individuo e società attraverso una manipolazione dello spazio fisico.

The Brutalist, film di conferma per Corbet sul piano delle performance autoriali all’interno del mercato festivaliero – premiato con il Leone per la Miglior Regia -, a questo proposito sembra non fare altro che allegorizzare le sue condizioni di produzione e le sue ragioni d’essere teoriche. Da un lato racconta la dialettica di interdipendenza tra un artista dell’Europa dell’est, appunto László, e un magnate americano (tale Harrison Lee Van Buren, ambizioso industriale) per la costruzione di un edificio a servizio della comunità, in uno scontro insistito tra le ragioni della forma e quelle dell’economia – fino a suggerire l’utilità interpretativa dei paratesti produttivi dietro al film, che raccontano le contrattazioni decennali per completare il progetto. Dall’altro si inventa un profilo alter ego, architetto della scuola brutalista del Bauhaus - e cioè di quella corrente che cercava una risposta ai quesiti della nascente società di massa senza però cedere ai ripieghi sottilmente reazionari di uno storicismo (il recupero delle forme vecchie per affrontare il disorientamento dei valori) incapace di costruire una nuova etica sociale attraverso l’estetica delle masse solide –, per trovare nella promessa di quel movimento modernista un posizionamento altro all’interno del dibattito sul ruolo del medium cinematografico in tempi postmodernisti.

brutalist recensione

Quale promessa? Quella dei teorici più ottimisti che, alle porte di una modernità massificata cercarono di spingere il pensiero dei loro contemporanei verso quest’ultimo versante per rivalutare gli impulsi della modernità e ribaltare così lo shock delle possibili alienazioni capitaliste in forme di vita sostenibile. Kracauer e Benjamin, per capirci, ma anche, più opportunamente, László (appunto) Moholy-Nagy: avanguardista ungherese del Bauhaus che per tutta la carriera cercò di cambiare il segno della luce, impulso elementale reso costitutivamente ambiguo dai nuovi tempi elettrici, da agente anestetizzante per la vita dei soggetti a referente di un’evoluzione cognitiva aperta alla riformulazione del capitale culturale. Oggetti miliari come il suo Light- Space Modulator, scultura di luce capace di organizzare la bidimensionalità inorganica in proiezioni tridimensionali da cui intravedere virtuali possibilità di esistenza alternative, stanno dietro ai disegni e alle concezioni di Tóth, e quindi di Corbet, che, nel momento in cui il cinema sembra perdere ruolo rispetto al dibattito pubblico, pensa al modernismo come forma di legittimazione del medium in senso sociale. Il regista pensa al suo film come un edificio – che include tra le sue stanze anche la sala, per esempio con un intervallo di un’quarto d’ora che con audacia strutturalista riproduce l’attesa del ritorno della moglie deportata di László

Un edificio fatto per catturare la luce, o meglio, l’impulso luminoso che, nei suoi ombrosi ripiegamenti, è ancora correlativo fenomenologico delle ambiguità utopiche/distopiche della terra della modernità. Un edificio che è l’occasione per László/Corbet di districare dall’America una luce che organizzi politicamente l’estetica (ecco il comunismo della materia di cui l’architetto cerca invano di farsi promotore nei salotti borghesi di Van Buren) invece di estetizzare la politica. È questo per il regista, modernista doc che ragiona fuori tempo massimo sull’opera d’arte in tempo di riproducibilità tecnica, il fascismo contemporaneo: trasformare in spettacolo la propria autoalienazione, cancellando la possibilità di riscrivere i dislivelli di potere economico e sociale e conservare lo status quo. Un movimento che Corbet indica globalizzarsi dal razzismo degli Stati Uniti anni ’50 al sionismo dell’allora nascente Stato d’Israele, e che si sigilla proprio nell’epilogo del film, quando i progenitori di Laszlo riscrivono il senso dei suoi edifici: da audaci ribaltamenti della tecnica moderna più alienata (i campi di concentramento annullati da una concezione nuova dei soffitti) a mere testimonianze postmoderne, quindi eventualmente solo commemorative, in un percorso che porta in fondo a nuove forme di isolamento sociale. 

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Brady Corbet 215 minuti
USA (2024)
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Rebel Ridge

di Rosario Gallone
rebel-ridge- recensione film

«È cinese. Combatteva con gli altri» - «Ah. È bello ritrovarci tutti insieme».
In questo scambio di battute tra Terry Richmond e Summer McBride, nel retrobottega del ristorante cinese in cui il primo si sta facendo medicare dal dottor Liu, Jeremy Saulnier condensa un ritratto dell'America in cui, ancora oggi, ci sono gli “altri” ovvero tutti quelli che non sono maschi, bianchi e probabilmente eterosessuali. “Tutti insieme”: due cinesi, un nero e una donna. Che non sono protagonisti di una barzelletta, al contrario: nella storia in cui sono coinvolti non c'è proprio niente da ridere.

«Quando mi hanno mandato via ero riconoscente. Come se avessi tutta la vita davanti, ho anche sentito Mike dirmi che era giusto così. L'addestramento, ciò che insegno, è per lo più l'autopreservazione, quindi non ho fatto che applicare quei principi» spiega poco dopo Richmond, nel momento in cui annuncia di voler cambiare strategia («E non era di Mike quella voce, era la mia»), ma, in fondo, anche approccio alla vita. Fino a quel momento è stato una sorta di Booker T. Washington, il “grande accomodatore” come lo definiva W.E.B. Dubois, che non ne condivideva il progetto di integrazione impostato su una sostanziale subordinazione ai bianchi ricchi e influenti dai quali ottenere finanziamenti e prebende. O, ancora, un uomo convinto, come Martin Luther King che «la violenza è un modo immorale e poco pratico di ottenere giustizia. Poco pratico perché è una spirale che porta alla distruzione. La vecchia legge dell'occhio per occhio ci lascia tutti ciechi», solo che il suo atteggiamento di pacifica resistenza non ha portato a nulla di buono e allora, forse, meglio ispirarsi a Malcolm X che non era contrario a usare la violenza in caso di legittima difesa («Non la chiamo violenza, quando la si usa in autodifesa, ma intelligenza»). Insomma, Richmond, che pure aveva consigliato a Summer di non gettare benzina sul fuoco, decide di essere fuoco.

Quella di personaggi non avvezzi alla violenza è una costante della filmografia di Saulnier: dal protagonista di Murder Party, l'ingenuo Christopher, che si ritrova a una festa di Halloween sui generis, fino al naturalista in pensione di Hold the Dark passando per il mite, ma devastato, Dwight del folgorante Blue Ruin e la punk band di Green Room che, lontana dall'autopreservazione (ma del resto è punk), intona Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys in un pub gestito da suprematisti. Da questo punto di vista, però, il protagonista di questo Rebel Ridge, Terry Richmond, non è l'individuo ordinario costretto dalla situazione a tirare fuori il peggio di sé, anzi è l'unico programmato per reagire a un abuso, da istruttore di Ju Jitsu quale è. Ma è anche un nero in America e quindi abituato (lo si capisce subito da come si comporta nel fermo dell'incipit) a stare al suo posto, a non “far incazzare” l'autorità. Citando ancora W.E.B. Dubois, pure lui è afflitto dalla double consciouness afroamericana: da una parte orgoglioso delle proprie origini, dall'altra desideroso di essere considerato non un americano nero, ma un americano e basta.

Rebel Ridge comincia come Rambo, ma Terry Richmond non è reduce da una guerra cui non ha mai partecipato, è un sopravvissuto in un conflitto che, tra una tregua e l'altra, insanguina la sua terra da sempre. Dal cult movie di Ted Kotcheff poi si plana in territorio Copland, uno dei tanti capolavori firmati da James Mangold, con cui condivide il racconto di una comunità che (af)fonda sulla corruzione della polizia locale, sul raggiro e sulla strategia delle tre scimmiette (non vedere, non sentire, non parlare). Saulnier si prende tutto il tempo necessario prima di far deflagrare la vicenda nell'eccesso di violenza dell'ultima parte. D'altronde, non è S. Craig Zahler (altro regista che, alla pari di Saulnier, Tarantino, Jim Mickle e del Damon Lindelof della serie Watchmen, ha contribuito alla rigenerazione di Don Johnson) e Rebel Ridge è più simile a Blue Ruin (anche nella sua natura di revenge tale) che a Green Room, ma di sicuro è stato anche baciato dalla buona sorte, se è vero, come è vero, che Aaron Pierre, perfetto, sia giunto in sostituzione della prima scelta che era John Boyega.

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Jeremy Saulnier Aaron Pierre Don Johnson AnnaSophia Robb Emory Cohen 131 minuti
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Frente a Guernica (Director’s Cut)

di Sergio Sozzo
gianikian-1500x810 recensione film

È interessante – e forse anche un po’ straniante – notare come le prime figure viventi ad apparire nel repertorio di immagini filmate di Frente a Guernica sino degli animali (una scimmietta che litiga con un pipistrello gigante) e dei bambini (risultato delle nascite avvenute nelle metropoli sotto assedio durante il secondo conflitto mondiale: con l’avvento della pace, come nota la voce di Yervant Gianikian, «improvvisamente i bambini sono dappertutto» in queste riprese di città aperta). Esattamente la stessa varietà di creature maggiormente presenti nei reels e in tutte quelle tipologia di archivio spurio del presente in cui siamo immersi ormai senza soluzione di continuità: gli animali e i bambini. Cortocircuito del footage: in che epoca siamo, o siamo finiti?

La questione della “datazione” è d’altra parte centrale, in un progetto come quello di Frente a Guernica: alla Mostra di Venezia di un anno fa, edizione numero 80, Yervant GIanikian porta Fuori Concorso il “director’s cut” di un film a cui aveva iniziato a lavorare nel 2014 insieme alla compagna Angela Ricci Lucchi (scomparsa nel 2018), dedicato alla guerra civile spagnola e ispirato da una visita al Museo Reina Sofia di Madrid. Anche noi ci torniamo su adesso, con un tempismo sfasato, in occasione di un altro passaggio festivaliero, quello di pochi giorni fa ai Mille Occhi di Trieste, in cui Gianikian e Ricci Lucchi hanno ricevuto il Premio Anno Uno: e lo stesso Frente a Guernica in realtà alla guerra fratricida spagnola ci gira intorno, parte da filmati e riflessioni che sembrano lontanissimi da quel conflitto immortalato sulla tela di Picasso ammirata dai due autori a Madrid – soprattutto, sembra seguire una linea errabonda, frammentaria, rapsodica, più vicina allo stile fatto di brevi annotazioni, aneddoti e riflessioni sparse dei due struggenti capitoli de I diari di Angela (ritorna qui anche il montatore dei Diari, Luca Previtali), che al rigore assoluto dei capolavori della coppia come Dal Polo all’Equatore o i Frammenti elettrici. Ma non è d’altronde questa, l’unica maniera possibile per restituire la vertigine “esplosa” che si prova di fronte alla “Guernica” di Picasso? Come se Gianikian e Ricci Lucchi fossero voluti andare alla ricerca di una storia da incasellare in ognuno dei particolari che compone la celebre istantanea “smembrata” del quadro cubista esposto al Reina Sofia: la figura è ormai saltata, la ricostruzione impossibile, la linea si è spezzata.

Yervant Gianikian esaspera questa sensazione intrecciando la propria voce narrante, basata sulle note appuntate sui suoi taccuini, con lunghi estratti da scritti di Elias Canetti o Ezra Pound, tra gli altri (insieme alla corrispondenza tra il poeta sovietico Osip Mandel’stâm e la moglie Nadezda. letta da Lucrezia Lerro). È proprio in questo che si rinnova la necessità di guardare – ancora – all’opera di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi come chiave per orientarsi nel nostro presente di immagini senza più Storia: i nostri tempi sono, ora come allora, tempi di filmati di guerra senza nome e senza autore, di provenienza e catalogazione incerta oggi più che mai (del repertorio utilizzato in Frente a Guernica, Gianikian cerca come sempre di scalfirne l’anonimato, trasformando i cineamatori come il ferroviere francese dei primi filmati in autori immaginari ma dalla poetica ben precisa), e ridare a questi materiali una funzione attiva, al di là di quella puramente illustrativa o meramente propagandistica, è il primo passo per riconquistare la nostra posizione di sguardo, la nostra prospettiva, una costellazione di riferimenti a strati progressivi che funga da bussola al di fuori – e in direzione fieramente contraria – di ogni mappa istituzionale.

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Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi
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Anywhere Anytime

di Mattia Caruso
Anywhere anytime - recensione film tangshir

“Un rider nero è un rider nero”, spiega a Issa (Ibrahima Sambou), immigrato clandestino rimasto senza lavoro, il connazionale Mario per convincerlo a effettuare le consegne a nome suo. Come dire, quando si è ultimi tra gli ultimi, non si ha davvero un'identità. Una constatazione amara (nonché la premessa per un epilogo dai risvolti quasi thriller) che porta con sé il senso stesso di un film come Anywhere Anytime, passato per la SIC di Venezia e ora in sala. Perché Issa, perso da sei anni in una Torino indifferente che lo mastica e sputa in continuazione, è a tutti gli effetti un invisibile, un fantasma. Un individuo senza più alcuna identità che il regista esordiente di origine iraniana Milad Tangshir decide di far uscire dall'ombra, donandogli per un momento quella voce e quella visibilità che non ha mai avuto.

Per farlo – assieme a suggestioni che vengono dritte dallo Scorsese di Taxi Driver (citato esplicitamente) – usa tutte le modalità tipiche del cinema così detto “del reale”, rendendo, però, questa volta esplicito il suo legame (pretestuoso o meno che sia) col neorealismo. Nel disperato e febbrile vagabondare di Issa per le strade della città in cerca della bicicletta rubatagli il primo giorno di lavoro, non c'è infatti solo un semplice omaggio a Ladri di biciclette, ma il tentativo genuino di adattare quell'approccio all'oggi, aggiornandolo a un capitalismo onnisciente dove la libertà e l'assenza di confini non sono altro che vuoti slogan (quell'anywhere anytime che campeggia sullo zaino da rider, quasi fosse una beffarda constatazione dello stato delle cose).

È in questo modo che la Torino di Tangshir, vera co-protagonista del film, si fa emblema di un intero mondo. Un mondo dalle cui logiche e regole è impossibile scappare e dentro cui Issa arranca per non rimanere sopraffatto, per non cedere a una solitudine che minaccia di travolgerlo e farlo sparire. Quasi come un controcanto dell'Io capitano di Matteo Garrone, un sequel apocrifo dove quell'identità acquisita con tanta fatica finisce con lo sgretolarsi al contatto col reale, Anywhere Anytime traccia così il quadro, esemplare e insieme circoscritto, di un presente desolante. Una realtà fatta di sopraffazione, egoismi e precarietà in cui, però, pare intravedersi ancora una luce. Come se – mentre la macchina da presa isola il suo protagonista, guardandolo sfrecciare per la città fino a pedinarlo nella sua disperata ricerca di un posto nel mondo, fuori dalle maglie delle vie cittadine – questo cinema possa ancora cambiare le cose, possa ancora far tornare il suo oggetto, per un momento, individuo.

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Milad Tangshir Ibrahima Sambou Moussa Dicko Diango Success Edemakhiota 82 minuti
Italia 2024
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Maldoror

di Emanuele Polverino
Maldoror - recensione film Du Welz

Sono passati esattamente vent’anni dal discusso e promettente esordio del regista belga, Fabrice du Welz. Quel Calvaire che per molto tempo rimase sulla bocca di molti cinefili, per la potenza con cui fu in grado di portare il malessere proveniente dalla provincia, divorata da delusioni soffocate nell’odio e degenerati sentimenti maschili in un mondo senza luce. Du Welz arriva ora al Lido all’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia con il suo Maldoror, un racconto true crime che sembra accodarsi alla scia di produzioni di genere che nell’ultimo periodo sta invadendo il mercato delle piattaforme e non solo. Prodotti collaudati, in grado di accontentare la crescente domanda di storie che possano addentrarsi e dissezionare le vicende dei più grandi serial killer. Figure ormai ultraterrene che nulla più hanno di umano, i cui gesti sembrano esulare da pulsioni conosciute, provenire da istinti inspiegabili. Du Welz decide invece di guardare altrove, per restare sapientemente legato al nucleo di ciò che ha reso famoso il suo cinema, quell’attenzione all’origine del male che trasuda dagli ambienti in cui nascono i suoi personaggi.

Paul Chartier (Anthony Bajon) è un giovane ispettore di polizia distaccato a Marcinelle, un piccolo-medio paesino nel sud del Belgio. Popolato da un variopinto assortimento di persone, tra italiani, belgi, francesi e sinti. Il film ci informa sin da subito che la storia narrata è basata su un fatto realmente avvenuto, misteriosi rapimenti di bambine hanno scosso la popolazione della provincia belga.
Paul ha un passato oscuro, che lo porta a essere irremovibile e saldo nelle sue idee di giustizia, le quali guideranno tutto il suo arco all’interno del film. Una storia di rinascita come molte altre, che solo apparentemente sembra seguire lo stereotipo del genere – un ispettore senza macchia e senza paura in grado di risolvere ogni caso, e che trasforma ogni storia in una sfida personale – per ritrovarsi a sondare i luoghi nei quali il cinema del regista belga si alimenta: nelle periferie del mondo e dell’animo umano. Dove la dicotomia uomo-natura vede assottigliarsi il suo confine (la scena verso il finale in cui Paul si trova a combattere con un maiale che sta consumando i resti umani nella cantina del rapitore-pedofilo) per esplodere in eccessi di rabbia e frustrazione, verso forme di sacrificio ultimo. Sentimenti che albergano nei protagonisti, trasmutati dai luoghi in cui ognuno di essi si trova a vivere, stazioni di polizia in cui l’inefficienza regna sovrana, famiglie che ancora portano avanti rituali desueti e superati – la suocera che vieta a Paul di vedere la figlia prima del matrimonio – costringendo ogni persona ad agire nell’ombra, costruendo realtà apparenti. Fatiscenti gesti quotidiani che nascondono una rabbia covata per anni, finte pareti che celano l’orrore al mondo. 
È all’altare della verità che Paul immolerà tutto sé stesso, cercando di smascherare una rete di ombre e fantasmi che opera al di sopra della legge – il film si basa su alcune ipotesi che vennero fatte all’epoca, nelle quali veniva portata alla luce la complicità delle più alte sfere della politica nel traffico di minori – un percorso che lo lascerà solo, abbandonato da tutti, familiari e colleghi, troppo impauriti o intenzionati a mantenere invariata una realtà fatta di menzogne e maschere.

Una discesa agli inferi che avvolge una durata non indifferente. Centocinquanta minuti scanditi per una buona parte da una sezione di pura detection, nella quale ogni errore commesso dal protagonista (lontano, come detto, dallo stereotipo dell’ispettore ineffabile e indefesso) sarà causa del prolungamento delle indagini. Un continuo susseguirsi di delusioni e fallimenti, che lo porteranno a compromettere e abbondonare i suoi codici.
Ed è nel finale che Du Welz, parzialmente, ripaga l’attesa dello spettatore meno paziente e abituato a quei prodotti standardizzati citati citati poc’anzi. Quindici minuti in cui la violenza viene a galla, precedentemente rimandata e restituita dal fuori campo filtrante di foto e filmati: è il sussurro di una bambina, non udibile dallo spettatore, che segna la discesa di Paul. Un orrore che è naturale conseguenza dell’arco narrativo del protagonista, e mai fulcro (o intrattenimento) del racconto. In questo rigore narrativo e di messa in scena, saldamente gestito da du Weltz, si crea il distacco con i soliti prodotti true crime, e un controcampo formale allo smarrimento subito da Paul, un contrasto che guida pian piano lo spettatore all’interno del vortice di eventi e situazioni, a volte confusi o solo accennati.

Maldoror è un film che sconquassa le aspettative dello spettatore, sottrare e cela l’orrore per restituire malessere e insoddisfazione – quella del protagonista per le indagini, la nostra per l’andamento della narrazione – ma che dimostra, ancora una volta, che ad oggi, per fare cinema di genere, sia necessario coraggio. E Du Welz, come Paul nonostante i suoi difetti, dimostra ancora una volta di non volersi adeguare, di avere la forza per non tirarsi indietro.

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Fabrice du Welz Anthony Bajon Alba Gaïa Bellugi Alexis Manenti 155 minuti
Belgio - Francia 2024
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Joker: Folie à Deux

di Daniele D'Orsi
Joker Folie à Deux recensione film

C'è un'immagine, che più di tutti gli eventi del primo film, sintetizza le istanze e lo spirito anarchico del Joker originario. Quella in cui Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) nelle vesti del mefistofelico clown, accoglie a braccia aperte la follia in cui sta sprofondando collettivamente la città di Gotham, mentre si erge in piedi sul tetto di un automobile. Un'inquadratura, questa appena delineata, che per quanto sia risultata emblematica delle logiche e delle tematiche che Todd Phillips ha voluto esplorare con il lungometraggio del 2019, non avrebbe più alcun posto nel suo sequel diretto: anzi, potrebbe apparire anche incongruente, se non addirittura anacronistica, sia con i tempi in cui si trova la storia del protagonista, sia per ciò che il cineasta desidera esplorare in Joker: Folie à Deux. Tanto che in questo seguito, presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, le traiettorie verso cui si dirigerà il (tragicomico) clown dei fumetti DC lo porteranno sì a mettere in questione la sua stessa identità (di eroe anarchico, così come di uomo ridicolo) ma soprattutto permetteranno – o forse, costringeranno – il film a deviare dalle idee e dai registri adottati nel precedente lungometraggio, per poi traghettare il racconto verso un orizzonte perlopiù inedito: sia in termini puramente di genere (con il musical che subentra ora al thriller urbano) sia per quel che riguarda il tono e le tematiche che Phillips ha desiderato qui ribadire, al di là di qualsiasi preconcetto o formula precostituita.

Sin dall'incipit, Joker: Folie à Deux sembra voler frapporre un argine tra ciò che andremo ad assistere nel racconto, e gli stilemi che hanno caratterizzato, portandola al successo planetario, la precedente origin story del 2019.
Dopo un prologo animato, tratto da un fittizia serie tv realizzata in onore del sanguinario pagliaccio, il film entra nel mondo soffocante della prigione di Arkham, luogo e dimensione dei desideri, delle fantasie e, naturalmente, dei soprusi a cui Fleck – privo di trucco e costumi sgargianti – è sottoposto quotidianamente. Il protagonista, all'infuori delle mura del carcere, è una star, un idolo da seguire e osannare grazie alla capacità con cui ha risvegliato la coscienza (anche politica) di molti cittadini di Gotham. Ma all'interno del manicomio criminale, Arthur è una nullità: un prigioniero come tanti in attesa di subire un processo che dovrà decidere della sua condanna a morte. E per quanto l'ex clown appaia già di per sé “sconfitto”, una luce entra nella sua grigia vita: ovvero Harley Quinzel (Lady Gaga) insieme a cui darà voce ai dissidi interiori della sua anima, profondendosi di volta in volta in canti che rendono manifeste tanto le sue debolezze interne, quanto la volontà di trovare, nel sentimento d'amore che lo lega alla donna, la forza per prendere coscienza della sua stessa identità, nonché per individuare la formula con cui lenire i dolori delle ferite che lo stanno soffocando.

Joker Folie à Deux recensione film  dsfs

È chiaro che ogni discorso su Joker: Folie à Deux, soprattutto da parte di coloro che non accetteranno di buon grado la scelta qui perseguita dall'opera, ruoterà attorno all'elemento musicale del film. Ma a pensarci bene, sembra essere proprio questo l'obiettivo di Todd Phillips, e per estensione del film tout court. Perché è nella dimensione del musical, forse la cornice di genere più incline a declinare l'incursione del sogno negli spazi della realtà, che questo sequel ramifica tutte le sue istanze e idee, per mettere in moto i processi di trasformazione (o di involuzione?) a cui andrà tragicamente incontro Arthur Fleck. Le (molte) canzoni presenti nei vari segmenti del film, per buona parte interpretate a cappella o con un leggero sottofondo sinfonico tale da donar loro una connotazione naturalistica, permettono organicamente al cineasta e ai suoi due encomiabili attori di rendere materiche le fantasie dei protagonisti, dal sapore – come vedremo – deliberatamente tragico, proprio perché fittizie e quindi riconducibili a qualcosa di inesistente. E ciò che rende così congrue - quando non addirittura necessarie – le grammatiche del musical è la radicalità con cui il regista le sovrappone allo stato confusionale in cui versa Arthur: arrivato ora a comprendere la reale natura delle sue fantasie di riscatto, destinate a collassare sotto il segno della più bruta e sconfortante realtà. Che poi è quella che tutti noi conosciamo, e che lo stesso protagonista ha cercato di evitare sin dall'inizio del precedente film: l'assoluta tragicità della sua condizione di uomo misero, sofferente, lontano anni luce dall'arroganza e dall'autocompiacimento del suo clownesco alter ego.

Ecco allora che in Joker: Folie à Deux non è più percepibile quella carica pulsionale e anarchica che ha attraversato ogni singola inquadratura dell'epilogo del film del 2019. Perché questo sequel, da qualunque prospettiva lo si osservi, racconta la storia di un uomo in lotta con sé stesso, incapace di rifugiarsi nel calore e nella sicurezza delle sue fantasie, alle quali non arriverà più a credere. Il “sogno” del Joker non ha motivo di esistere all'interno delle mura del carcere o nelle aule del tribunale, e agli occhi di Arthur si palesa clamorosamente il ritratto di quel che egli è e ciò che non potrà mai veramente essere. E non è un caso che il film, una volta messo in moto il percorso di auto-distruzione (psichica, emotiva, e forse anche fisica?) del protagonista, getti luce su una verità assoluta, ovvero la fallacia del suo alter ego. Una conclusione da cui l'opera trae tutto il senso tragico che permea ogni immagine del racconto, calato in un'atmosfera talmente lugubre e nefasta da suggerire, già di per sé, il destino drammatico verso cui volgerà l'antieroe. Perché Arthur sa bene che quella del mefistofelico pagliaccio è solo una facciata opportunamente eretta per confinare, negli angoli bui della coscienza, le crisi che lo stanno attanagliando: abbatterla, significa di fatto indossare la maschera che più lo disturba, vale a dire sé stesso.

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Harvest

di Daniele D'Orsi
Harvest recensione film

L'uomo e la natura. È a partire da questo binomio, dalle trasformazioni che hanno rivoluzionato nel tempo le modalità con cui l'individuo si è approcciato all'ambiente naturale, che potremmo rileggere l'intera storia dell'umanità, e delle evoluzioni (culturali, sociali, politiche) su cui si è fondata la modernità che tutti noi conosciamo. Se in periodi preindustriali l'essere umano ha cercato a lungo di convivere con lo spazio che lo circonda, tentando di volta in volta di dominarlo secondo esiti e metodologie differenti, è con l'arrivo dell'industrializzazione che il legame tra le persone e l'orizzonte naturale ha mutato profondamente di segno, con i primi che sono arrivati a individuare le formule con cui sfruttare, anche e soprattutto in termini capitalistici, gli spazi naturali. Ed è proprio in queste due cornici opposte – dove la simmetria del rapporto uomo-natura, nel primo caso, denota ancora un equilibro, mentre nel secondo tende a favore dell'essere umano – che Athina Rachel Tsangari declina i due macro-atti di Harvest.

Presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, il quarto lungometraggio della regista greca si muove costantemente su due binari interagenti e mai incompatibili, nonostante l'enorme salto di paradigma che separa le due metà della storia. Nell'incipit del film, così come per il resto del primo segmento narrativo, è l'assoluta sovrapponibilità delle esperienze di individui appartenenti a una comunità agreste agli albori dell'industrialismo inglese, e l'ambiente in cui non solo vivono, ma al quale delegano le loro stesse esistenze e personalità, ad assurgere a centro tematico della narrazione, nonché a punto di contatto tra lo spazio e le traiettorie del protagonista. Walter (Caleb Landry Jones) è di fatto un forestiero, ed essendosi integrato anni prima in questo villaggio ubicato in un non precisato luogo delle terre anglosassoni, condivide le stesse liturgie dei suoi omologhi. Ogni giorno lo trascorre nei campi, tra trebbiature di stagione e altre attività agricole. E finché il mondo (diegetico) di Harvest non viene contaminato dalla presenza di agenti “esterni”, ecco che l'uomo può contaminarsi organicamente con gli spazi bucolici del villaggio, quasi fosse un elemento intrinseco della natura. Ma è nel momento in cui l'orizzonte “atavico” in cui si muovono i protagonisti accoglie l'arrivo del legittimo (e capitalistico) proprietario del terreno, Master Jordan (Frank Dillane) che la storia si innerva di connotazioni inedite e “eticamente e moralmente umbratili”, facendo di conseguenza implodere il rapporto d'equilibrio fino a quell'istante esistito tra Walter, l'amico e pastore Master Kent (Harry Melling), e la cornice naturale che abitano, fino a porre fine alla loro (immacolata) esistenza.

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Ciò che sorprende di Harvest, soprattutto nella sezione iniziale del racconto, è la capacità di Tsangari di posizionare il personaggio di Walter sullo stesso piano della natura, sia dal punto di vista iconografico che esistenziale/ontologico. Il protagonista, del resto, sembra trovare una sua vitalità solo perseguendo questo rapporto fisico con l'ambiente che lo circonda, a cui la cineasta riesce a restituire anche una connotazione puramente materica e tattile. E nonostante nella seconda metà del racconto, quando cioè Master Kent porta in quel luogo incontaminato i (dis)valori del commercio e dell'imperante industrializzazione, si assista a un salto di paradigma evidente nel trattamento dello spazio naturale – ora innervato di sfumature pre-capitalistiche che ne determinano la dissoluzione anticipata del suo sistema socio-umano – il film riesce comunque a rendere organica questa transizione tematica, senza porla in discontinuità con le visioni e gli intrecci proposti per tutta la sezione iniziale del lungometraggio.

Per quanto, però, Harvest non risulti mai incongruente né discordante nelle sue due anime narrative, anche – e soprattutto – dal punto di vista tonale e dei registri adottati, è pur vero che il racconto, nell'istante in cui mette in scena lo scontro tra i principi conservatori (rappresentati dalla natura incontaminata) e le logiche progressiste della modernità, disperde quel rapporto organico tra Walter e l'ambiente naturale su cui si è fondato tutto lo spessore della storia, nonché la caratterizzazione del personaggio. E seppur il protagonista continui a configurarsi alla stregua di uno “spettatore passivo”, incapacitato a intervenire su eventi che non può controllare per la posizione subalterna che ricopre nel (suo) minuscolo mondo, ogni qualvolta il racconto si estrania dal percorso del personaggio, per raccontare l'implosione della microsocietà in cui vivono i contadini, rischia di cadere in una retorica eccessivamente reazionaria, sotto il cui peso viene schiacciata ogni idea o riflessione avanzata dalla regista nell'epilogo.

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Athina Rachel Tsangari Caleb Landry Jones
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