Creed II

di Saverio Felici
Creed II - Recensione film Caple Jr

A riguardarsi indietro, con Creed II c'erano tutte le carte in regola perché una nuova grande saga finisse abortita al secondo episodio. Il defilarsi repentino di Ryan Coogler, padre spirituale del franchise, aveva fatto pensare al peggio. Soprattutto, convincevano poco i sostituti designati, chiamati alla sempre delicatissima operazione di espandere un prototipo autoconclusivo. Il semi-sconosciuto Steven Caple Jr. pareva chiamato solamente per fare da surrogato a Coogler (altro giovane afroamericano del circuito indie in attesa di grandi chance). E anche Sylvester Stallone, che dopo aver accarezzato l'idea di appropriarsi registicamente del film si era auto-declassato a sceneggiatore di lusso, era visto con sospetto. Il primo Creed era stato un film molto personale, incentrato sulla creazione metodica di un nuovo eroe. Tornare ad affidare la macchina al leggendario ego di Stallone era sembrato un passo indietro più che uno in avanti. Ed era tutta da valutare la capacità di Sly di improvvisarsi sceneggiatore su commissione.

Ogni legittimo dubbio alla base del progetto Creed II è stato spazzato via alla prima proiezione stampa. Proprio ciò che preoccupava maggiormente si è rivelato un punto di forza: il film è diretto magistralmente (nella cura interna dei combattimenti forse addirittura meglio del primo), ma sopratutto è scritto magistralmente. Rispetto al primo film, manca solo quella sensazione di freschezza che il lavoro del 2015 portava con sé: quella di un prodotto a modo suo interamente originale, che prendeva le sembianze di film di Rocky solamente in divenire, sorprendendoci con un percorso dell'eroe apparentemente lontano dai canoni. Creed II, invece, questa dimensione di film di Rocky la abbraccia e la fa sua dalla prima all'ultima scena. Ed è Stallone in persona ad occuparsi di di porre definitivamente il film sul glorioso tracciato della serie, consegnando una volta per tutte a Michael B. Jordan l'eredità del suo personaggio. Creed II chiude il cerchio, riconduce la seconda saga in seno alla prima, ne genera forse una terza e permette ai nuovi personaggi di confrontarsi apertamente con quelli classici che li hanno generati.

Creed II è un'esercizio di classicismo da scuole di cinema. A partire dal macro-spunto di partenza (Ivan Drago e il figlio Viktor emergono dalle nebbie rosse di una depressissima Est Europa per reclamare trent'anni dopo la rivincita al clan Creed-Balboa), Stallone e Caple Jr. si servono della mitologia e del passato della serie in maniera attiva, non necrofila o postmoderna, utilizzando schemi narrativi e immagini iconiche come punti di partenza verso il nuovo. Creed II è Rocky III (nella struttura), Rocky IV (nei rimandi), Rocky I (nell'etica): in una cosmogonia della lotta che ormai ha più del Mito junghiano che non del Cinema, tutto è eterno e presente, antico e perfettamente contemporaneo. Ed è straordinario il lavoro sul personaggio-Rocky come conciliatore di queste due anime. Protagonista non dichiarato del primo film (nel quale Sly travolgeva completamente un acerbo Jordan), in Creed II Rocky è ancora centralissimo, ma solo per la prima volta davvero “spalla”. La ribalta viene lasciata a Donnie, alla sua famiglia (la nuova Adriana Thessa Thompson è ancora una volta di un carisma abbagliante), a una terribile responsabilità genitoriale, al passato dei Creed e al loro futuro. E' qui che Rocky, finalmente, ci saluta, lasciando al suo erede il compito di scrivere davvero la propria storia (build your own legacy).

Un capitolo a parte merita poi l'intuizione più forte e indimenticabile di Creed II: i Drago. In un lavoro di recupero di incredibile complessità, i due pugili russo-ucraini diventano personaggi da tragedia, portatori dei conflitti emotivi più forti. Basti pensare a come Ivan, nel film del 1985, fosse poco più che un coloratissimo cartoon in carne ed ossa: lo strappo con cui lo ritroviamo improvvisamente “vero”, grigio, invecchiato e interpretato da un Dolph Lundgren da dieci Oscar, è grande cinema. A lui e al non professionista Florian Monteanu basterebbero giusto un paio di scene in più per conquistare il favore del pubblico e ritrovarsi paradossalmente eroi del film (come accadeva a Rocky, di fronte all'intelligencija sovietica, nel mitico incontro di Mosca dell'85). Stallone ne è consapevole, e tiene i due defilati, lasciandone lo sviluppo a pochi, indimenticabili dettagli (una spugna, un abbraccio, una corsa di riscaldamento finale). In Creed II, la maschera di “Rocky” intesa come archetipo passa ancora di mano: e sarebbe bello se, chiuso il cerchio di Adonis e dei Creed, si aprisse quello di Viktor e dei Drago. Una nuova saga, per ripartire ancora, e allargare un universo espanso potenzialmente infinito. Perché anche se Sly saluta, i film di Rocky non finiranno mai.

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Steven Caple Jr. Michael B. Jordan Sylvester Stallone Tessa Thompson Dolph Lundgren Florian Munteanu Milo Ventimiglia 130 minuti
USA 2018
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Grazie a Dio

di Andreina Di Sanzo
grâce à dieu - recensione film ozon

Tutto inizia grazie ad Alexandre (Melvil Poupaud), alto borghese di Lione che porta alla luce quello che per anni ha tenuto nascosto: gli abusi di padre Bernard Preynat durante i soggiorni estivi al campo scout.
François Ozon, in concorso alla Berlinale e premiato con l’Orso d’Argento, dirige il suo film-inchiesta, Grazie a Dio, sulle vicende che hanno portato a processo il cardinale Barbarin, accusato di aver coperto e mai denunciato gli abusi su decine di ragazzi da parte di padre Preynat.

Con le voci fuori campo apprendiamo il carteggio digitale tra Alexandre e la psicologa, religiosa laica, Régine Marie. Quasi una cronaca, le voci distaccate, le descrizioni meticolose, il linguaggio misurato nonostante la gravità della questione.  Da qui l’esplosione del caso che, partendo dalla confessione di Alexandre, si propaga e porta a liberarsi altre vittime che possono uscire dal silenzio per denunciare i terribili abusi subiti dal sacerdote. Decine di ragazzi molestati, sodomizzati e costretti a pratiche sessuali da quel prete che si fingeva amico ed educatore. Così le vittime decidono di fondare un’associazione, La parole libérée, affinché, chi ha subito gli abusi, possa unirsi alla battaglia.

Riduttivo etichettare il film di Ozon come il nuovo Spotlight, il lavoro del regista francese va oltre quello che potrebbe sembrare un film impegnato, un film civile. Non solo inchiesta pedissequa, Grazie a Dio è un film stratificato, corale nella messa in scena e che si muove tra i diversi riflessi di una medesima, triste, storia. Se il trauma subito è sempre lo stesso, le reazioni e le vite che si sono costruite attorno al terribile avvenimento hanno preso strade molto diverse.
Alexandre, padre di cinque figli, continua a essere parte della comunità religiosa, fervente cattolico e devoto alla famiglia. François vive la tragedia in modo apparentemente misurato ma combattivo, in un primo momento restio, diventa il più combattivo. Gilles, medico affermato, tra i primi fautori dell’associazione, abituato a una vita agiata sceglie la via più semplice e si mette in disparte dopo il momento cruciale. Emmanuel, tra i personaggi più interessanti, cerca un equilibrio in una vita fatta di precarietà e trova una prospettiva proprio con La parole libérée.

Dialoghi serrati, forma rigorosa, Ozon è chirurgico e ironico in un’opera che sembra, in un primo momento distante, dalla sua filmografia. Grazie a Dio è una continua oscillazione tra le diverse esistenze delle vittime e il regista lo fa mantenendo sempre un rigore e una fedeltà verso il racconto dei fatti.

Da maestro del thriller psicologico, raffinato e perturbante, Ozon continua il suo gioco del doppio, qui del quadruplo, concentrandosi sulla reazione al dramma entrando nelle case dei suoi personaggi. Diverso l’arredo, diverso lo stile di vita, l’estrazione sociale, diverso il dolore. Ogni personaggio/vittima ha un suo spazio, un suo tempo a cui il regista dedica attenzione per cercare di essere il più obiettivo possibile ma si sa, difficile rimanere imparziali, e il cinema di Ozon si muove sempre su altri registri. Ozon scruta e indaga la psicologia di chi viene coinvolto, attraverso l’indagine formale, attraverso l’inchiesta.
«Grazie a Dio, i fatti a cui si fa riferimento sono tutti prescritti» afferma senza pensare Barbarin durante una conferenza stampa, e da qui arriva la frase che dà il titolo al film, tagliente e affilato momento che tradisce il porporato, l’uomo imputato nel processo che ancora deve concludersi. In una dialettica tra fatti e individui, Ozon denuncia la colpa collettiva, la colpa di un sistema. Il regista costruisce ad arte un contrappunto tra particolare e generale, affinché tutto vacilli, tutto possa essere messo in dubbio. Persino la fede più cieca.

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François Ozon Melvil Poupaud Denis Ménochet Swann Arlaud Éric Caravaca Bernard Verley François Marthouret 127 minuti
Francia, Belgio 2019
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Synonymes

di Emanuele Di Nicola
Synonymes di Nadav Lapid

Méchant. Obscène. Ignorant. Hideux. Vieux. Sordide. Grossier. Abominable. Fetide. Lamentable. Répugnant. Détestable. Abruti. Etriqué. Bas d’esprit. Sono le parole sul poster di Synonymes di Nadav Lapid, il film che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale 2019: lettere che emergono in trasparenza sul volto del protagonista, un magnifico Tom Mercier. Sinonimi. Come identità è sinonimo di corpo: lo attesta il fulminante incipit, con il giovane Yoav arrivato a Parigi senza niente, che entra in una casa vuota, subisce il furto dei vestiti e resta nudo, raggomitolato in una vasca in attesa di congelare. A salvarlo sono Emile e Caroline (Quentin Dolmaire e Louise Chevilotte), una coppia di giovani che diventano il punto di riferimento per Yoav a Parigi, sia economico che sentimentale. Questi inaugurano una girandola di incontri che porta il ragazzo ad avvicinarsi a Caroline ma non meno ad Emile, con cui scorre sottotraccia un rapporto omosessuale latente che fa rima con la relazione esplicita con la donna. Ma probabilmente non è corretto parlare di “punto di riferimento”: se da una parte è vero che i due sono per Yoav un centro a cui sempre si ritorna, dall’altra si offrono piuttosto punto di non riferimento, non offrendo certezze, coinvolgendolo nel loro ambiguo rapporto, aiutando il migrante per avere qualcosa in cambio. Il suo corpo. All’inizio Emile e Caroline vestono Yoav ma sono abiti sformati, grotteschi, inadatti: lo vestono come vogliono loro. Accoglienza è sinonimo di dominazione. Indigenza è sinonimo di minorità.

Yoav è un giovane israeliano che ha deciso di abbandonare il suo Paese, in tutto e per tutto: approda a Parigi e respinge l’identità precedente, vuole cancellarla e diventare francese. Non sarà più israeliano, non parlerà più ebraico. Va in giro con un dizionario per imparare la lingua nel più breve tempo possibile, elenca sinonimi con risultati stranianti. Alla domanda su perché lasciare Israele, definisce lo Stato con il profluvio di sinonimi della locandina (méchant, obscène, ignorant...) e gli viene risposto che nessuna società può contenere quegli aggettivi tutti insieme. Yoav è infatti fuori luogo. Vuole imparare troppo presto, usa troppi sinonimi, si dice troppo francese. Non riesce a integrarsi, nella Parigi metonimia dell’Occidente, e inizia un vagare obbligato tra l’ambasciata israeliana, i test di integrazione, gli incontri con i conterranei che detesta. Complesso trovare lavoro, a volte perfino mangiare. Nel primo caso Yoav si infila nel gorgo della pornografia e, nella scena più spiazzante, viene costretto a ritirare fuori l’ebraico per mimare un orgasmo: è un momento urlato, innaturale, insostenibile che viene costruito attraverso una “depornizzazione del porno”, a ribadire con forza che la ricerca dell’identità passa ancora e sempre per il corpo. Anzi, forse l’identità è solo corpo. Nel caso del cibo Yoav si ritrova in una discoteca e per mangiare è costretto a ballare, il gesto di addentare il pane viene incluso dentro una danza: qui, davvero, risuona l’eco di altre crisi e altri poveri che “ballano per mangiare”, dai cavalli di Sydney Pollack ai disoccupati di Full Monty.

Ma Synonymes si inserisce direttamente nel cinema israeliano contemporaneo e il film che più ricorda è The Exchange di Eran Kolirin, in concorso a Venezia 2011. Lì il protagonista Oded torna da lavoro a un’ora insolita e non riconosce la sua stessa casa, è come se non l’avesse mai vista. Qui Yoav esce dalle proprie generalità ed entra in un limbo. Seppure in due parabole diverse, come non vedere l’attualità della questione identitaria in Israele? C’è un misto di attrazione e repulsione, la volontà e insieme la paura di trovarsi senza Stato, il rifiuto di una radice così storicamente forte perché lasciandola si intravede una “libertà”, la fine del peso di essere ebrei oggi per gettarsi però in una terra di nessuno. D’altronde Nadav Lapid continua un percorso cinematografico preciso e coerente che passa per Policeman del 2011, racconto che dal genere ricadeva lucidamente sul tessuto sociale.

Synonymes è film sfacciato, estremo, disgregato. Apertamente metaforico. Pieno di strappi e dissonanze stilistiche, volute da Lapid per trascinare l’occhio nell’oscillazione del protagonista, ora paradossale e kafkiana e ora drammatica e disperata. Film che riflette frontalmente sul linguaggio, ma allo stesso tempo si tiene lontano da un’impostazione solo teorica e si sporca le mani: vive della carne e sangue di Yoav (soprattutto carne) e sembra dire che il pensiero sull’identità e sulle migrazioni non è mai solo pensiero, perché irrompe sulle persone e ne segna i corpi. Ecco allora che il racconto iniziato col nudo si chiude con i colpi a una porta che non si apre, ovvero con un corpo che sbatte contro un muro. Il protagonista è finito in scacco: l’utopia dell’integrazione è fallita, la rinuncia all’identità ha portato a non trovarne un’altra. La protesta finale contro l’orchestra è rumorosa ma di fatto formale. Yoav pensa che Francia sia sinonimo di Israele, ma scopre che nulla è sinonimo di nulla. La sua fuga si rivela ad elastico, è costretto a tornare indietro. Va contro una porta chiusa.

C’è una profonda intelligenza nella scelta della giuria presieduta da Juliette Binoche di consegnare l’Orso d’oro a Synonymes, il migliore in competizione insieme a Grâce à Dieu di François Ozon e So Long, My Son di Wang Xiaoshuai: un film di rottura che di solito viene ignorato in sede di premiazione, perché per alcuni troppo ambizioso o provocatorio. Ma qui l’unica provocazione è l’invito a uscire dagli schemi più rassicuranti, come la difesa dell’identità ebraica (e se invece si volesse cancellare?), per seguire un discorso concettuale e visivo fuori dalle solite logiche che confermano le nostre convinzioni, tanto attese quanto previste. Anche per questo è un grande film contemporaneo.

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Nadav Lapid Tom Mercier Quentin Dolmaire Louise Chevillotte 122 minuti
Israele, Francia
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Holy Motors

di Matteo Berardini
Holy motors - recensione film carax

Chissà cosa penserebbe Michael Cimino, tra i grandi esiliati della storia del cinema, di Holy Motors, di questo film così sentito e sofferto, angosciato ma comunque resiliente, ostinato per come resta attaccato al sentimento, all’umano, a discapito di tutto. Forse non resterebbe indifferente di fronte una rappresentazione così limpida e al contempo visionaria dell’ossessione per il cinema, quella sequenza iniziale in cui assistiamo al vero risveglio (dopo 13 anni) del vampiro Leos Carax, che disturbato nel sonno da un concetto non sradicabile scava nelle pareti del proprio inconscio, aprendo serrature e bucando muri di carta, per rientrare infine nel proprio alveolo naturale, una sala cinematografica. Forse persa di vista, forse rigettata in un momento di frustrazione e rabbia, ma sempre lì, sempre ineludibilmente presente.

Il cinema è un modo di vivere ed essere al mondo, interiorizzato e corporizzato nei nostri tessuti più intimi, ma come ci mostra la sala annidata nella mente di Carax è anche un luogo condiviso, popolato da altri.  Ma cosa succede se la moltitudine che un tempo animava e viveva quel luogo, anche a rischio di precipitare in un alienante anonimato, quella folla chiassosa e agitata mostrata 85 anni fa da King Vidor si rivela oggi una platea in stato di semi-vita, con spettatori addormentati e incoscienti mentre lo spettacolo va avanti? Forse solo l’ingenua meraviglia, nelle vesti di un bambino nudo che corre verso lo schermo, può salvarci da quest’autodistruzione della percezione.

E di meraviglia nel film di Carax ce n’è davvero molta, dato che di opera d’arte si tratta. Holy Motors è una mirabile e concentratissima stratificazione sensoriale-semantica, che sotto le spoglie di mise en abyme della recitazione mette in scena l’ossessione per il (proprio) cinema e un progressivo scandagliamento della sua percezione, del suo senso oggi, interrogandosi su di una natura in movimento senza alcuna autoreferenzialità ma anzi con una passione che non esclude il distacco ironico. Nell’odissea joyciana compiuta da Monsieur Oscar – che per compito della società Holy Motors attraversa Parigi su di una limousine bianca per impersonare un ruolo dopo un altro, un cinema dopo un altro – assistiamo all’infinito farsi e disfarsi del cinema, che corporizzato tutto nello straordinario volto di Denis Lavant vive le sue infinite forme animando un mondo altrimenti più spento. L’unico problema però è sempre quello, il pubblico dormiente dell’inizio, perché se è vero che quando tutto è soggetto a osservazione è lecito chiedersi dove inizi il cinema e finisca la vita, allo stesso tempo se tutto è registrato, monitorato, elettronicamente percepito, è come se in realtà nulla lo sia. Vediamo tutto ma non sappiamo più guardare. E’ da qui che proviene il terrore che Monsieur Oscar nutre per le telecamere sempre più piccole e piccole, paura che va di pari passo al terribile dubbio – sollevato da “l’uomo con la macchia di vino” di Michel Piccoli – su cosa succeda se tutti smettiamo di osservare, dato che la bellezza è nell’occhio di chi guarda. Da questo senso funereo di fine incombente deriva l’altra grande ossessione che domina il film, il tempo e le occasioni perdute, la perdita e il tentativo costante di colmare l’incolmabile, di far vent’anni di venti minuti.

Oltre l’ossessione e la mancanza, Holy Motors è una raccolta di tesseratti, pastiche di frammenti che al loro interno conservano una dimensione maggiore di quanto sia visibile da fuori. Recuperando le forme primigene del postmodernismo più autentico e significante, Carax costruisce una raccolta di frammenti per mettere in scena una crisi d’identità lacerante: Monsieur Oscar non può che passare la propria vita fingendosi qualcun altro, reiterando la reinvenzione e il conseguente annichilimento di sé (fino all’auto-omicidio) giorno dopo giorno, ora dopo ora. E se anche uno spiraglio di autenticità si dovesse aprire nel grigiore delle sue recitazioni (l’incontro con la Jean Seberg di Kylie Minogue), esso non può che esistere nelle forme della citazione, della reinterpretazione del già dato, come quegli stessi magazzini Samaritaine in cui vita, arte e morte si intrecciano in un cortocircuito privo di speranza. Ma, come dimostra la maschera bianca indossata dall’autista di Oscar al momento di staccare dal lavoro, al di fuori del cinema non vi è nessuna identità definita ad attenderci, solo – e qui ritorna la lezione aggiornata di Vidor – l’alienazione e l’anonimato. Allora ben vengano i frammenti, ben venga la vita, per quanto recitata su dieci schermi diversi al giorno e solo per “la bellezza del gesto”. Ben venga il cinema e la sua fiamma, che tutto è fuorché morto, dato che come ci dicono le limousine parlanti della chiusura, siamo noi ad esserci stufati “del motore e dell’azione”, siamo noi i morti, i replicanti dormienti. Il cinema invece è un motore sacro vivissimo in tutti i suoi frammenti.

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Leos Carax Denis Lavant Eva Mendes Kylie Minogue Michel Piccoli Edith Scob Jeanne Disson 110 minuti
Francia, Germania 2012
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You

di Irene De Togni
You - serie tv netflix berlanti

Negli ultimi anni la commedia romantica è stata teatro di (auto)rivolgimenti e ridefinizioni senza dubbio più importanti rispetto a quelli che hanno subito altri generi televisivi. Diversi show (e non pochi davvero ben riusciti) come Crazy Ex-Girlfriend, Love o Forever si sono cimentati piuttosto esplicitamente in una minuziosa e lucidissima decostruzione degli schemi, delle figure e dell’ideologia del genere così come si era consolidato nella sua forma “classica”. La nuova “serie-fenomeno” creata da Greg Berlanti (Riverdale e Le terrificanti avventure di Sabrina, per citare solamente i lavori più recenti) e Sera Gamble (Supernatural, The Magicians) per Lifetime (per poi venire accalappiata quasi istantaneamente da Netflix) sembra voler tenere lo stesso tipo di discorso distorcendo la più classica delle impalcature della rom-com (un ragazzo si innamora a prima vista di una bella ragazza e si ripromette di conquistarla) fino a farla diventare un disturbante thriller psicologico dalle tinte orrorifiche.

Pur prendendo avvio da una fonte letteraria (la serie è tratta dall’omonimo romanzo del 2014 della scrittrice americana Caroline Kepnes, il primo di una trilogia), la serie non ha, invero, nessuna difficoltà (tanto vasto è il suo obiettivo) a trovare nel cinema e nella televisione i riferimenti cui indirizzare il suo commento iconoclasta. You pesca, allora, a piene mani dalle più tradizionali delle situazioni romantiche (dal colpo di fulmine in apertura fra una ragazza e un giovane libraio come in Nothing Hill, alla sindrome di Stoccolma, alla retorica del ragazzo bravo e intelligente legittimato ad inseguire la ragazza “perché sa meglio di lei cosa le serve” tipica di film come 500 giorni insieme) per prendersene gioco e distanziarsene criticamente. Intelligente (e piena di strizzate d’occhio) è anche la scelta del cast, e su tutti sicuramente di Penn Badgley il cui personaggio sembra una deformazione satirica del suo Dan Humpfrey in Gossip Girl – lo stesso si potrebbe quasi dire anche del personaggio di Shay Mitchell rispetto al suo ruolo in Pretty Little Liars – che permette così di far risuonare all’orecchio dello spettatore anche tutto un immaginario legato all’universo del teen drama.

Attraverso la contaminazione dei registri, quindi, e un uso consapevole della voce fuori campo e del punto di vista narrativo, You si prende gioco delle situazioni subito dopo averle inscenate e dei suoi personaggi subito dopo averli introdotti, raccontando la classica fase del corteggiamento nei toni sinistri dell’ossessione e dello stalking e trasformando gli eroi romantici (e i personaggi secondari) in degli antieroi a tutti gli effetti, tutti rigorosamente deliranti nel loro ostinato convincersi di star vivendo una romanticissima storia d’amore. Uno degli aspetti interessanti è sicuramente il fatto che questa postura così esplicitamente decostruttiva e meta-testuale permette di creare un effetto di spaesamento rispetto alla tradizionale narrazione della romantic comedy, uno slittamento che lo spettatore bendisposto può cogliere come un’opportunità di distanziamento per dar vita ad uno spazio di riflessione sui macismi, le violenze ed i sotterfugi del racconto tradizionale.

Tuttavia, per quanto tutti questi elementi rendano il pastiche di You piuttosto interessante e ben cadenzato dal punto di vista tematico e referenziale, c’è anche da dire che, fatta astrazione della sua portata ideologica, non vi rimane, purtroppo, molto da salvare: i personaggi principali sono costruiti essenzialmente come delle esagerazioni, delle caricature o, nel più interessante dei casi, come delle storpiature dei loro modelli di riferimento, ma dimostrano di avere davvero poco da dire al di là della loro funzione metanarrativa e non riescono a dimostrarsi abbastanza carismatici o interessanti da poter reggere da soli i momenti di transizione da un picco di tensione e l’altro; i personaggi secondari si accontentano di venir appena abbozzati o tutt’al più costruiti in modo stereotipato (su tutti le amiche di Beck) ad eccezion fatta, probabilmente, del personaggio della migliore amica la cui parabola sarebbe potuta, però, esser sviluppata meglio (specie guardando al lavoro fatto dal Ryan Murphy di American Crime Story: The Assassination Of Gianni Versace sulla psicosi derivante da un’omosessualità repressa o mal riappropriata); l’intreccio, infine, sembra troppo volentieri sacrificare credibilità o costruzione significativa delle situazioni in favore delle svolte di trama o del cliffhanger facile.

You sembra, in definitiva, perpetuare una tendenza piuttosto ricorrente in una certa televisione recente molto metatestuale e molto politicizzata, ovvero il rischio di appiattire irrimediabilmente l’estetica sull’etica e di subordinare parte degli aspetti più propriamente diegetici di uno show alla coerenza del suo disegno ideologico (due aspetti che non per forza si escludono, come è chiaro guardando, ad esempio, a due prodotti eccellenti come Jane The Virgin o Crazy Ex-Girfriend).

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Penn Badgley Elizabeth Lail Shay Mitchell 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Pola X

di Simone Sauza
POLAX

Ci sono registi che nella storia del cinema agiscono come fantasmi. Uno di questi è sicuramente Leos Carax. Nonostante l’esiguo successo commerciale, molte delle sue idee visive, della sua maniera di parlare attraverso il montaggio nevrotico “infestano” l’immaginario pop di una parte del cinema degli anni novanta e di inizio millennio (Romeo + Juliet di Baz Luhrmann  ne è un esempio). Pola X esce nel 1999, chiudendo una decade cinematografica e aprendo una nuova stagione del cinema francese. A 13 anni da Mauvais Sang, e dopo il disastro commerciale de Les Amants de Pont-Neuf, Leos Carax sceglie la via dell’autosabotaggio. Pola X è un film caotico, confuso, all’epoca demolito da buona parte della critica (un’eccezione non da poco è quella di un decano come Roger Ebert), ma allo stesso tempo profondamente sentito dal regista francese, che mette al centro le sue ossessioni, venate ora da una cupezza che mai si era respirata nel suo cinema. I suoi personaggi, solitamente romantici e infantili nel loro andare alla deriva, lasciano il passo a una pulsione di morte irrimediabile, come se l’escapismo surreale rappresentato dai due Alex di Mauvais Sang e Les Amants de Pont-Neuf non bastasse più. Non a caso, Pola X è uno dei titoli che apre quella stagione che verrà etichettata come New French Extremity, un’ondata di pellicole francesi che tra la fine degli anni novanta e il nuovo millennio ha provato a rielaborare il cinema della corporeità creando una cruda estetica della psicosi e dell’erotismo, sempre in bilico tra violenza e pornografia (basti pensare ai film di Gaspar Noé o a Base-moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi), fino a sfociare in un cinema horror visivamente estremo che ha conosciuto un certo successo con Martyrs di Pascal Laugier e À l’intérieur di Julien Maury e Alexandre Bustillo.

 

Il soggetto di Pola X è tratto dal Pierre; Or The Ambiguities di Herman Melville (le iniziali della novella compongono il titolo del film, mentre la X sta per la decima riscrittura del copione). Comincia tutto con le immagini di un bombardamento: un prologo di distruzione che allude tanto alle macerie delle vite dei personaggi, quanto al tema godardiano della morte del cinema, ripreso 13 anni dopo con la sala di spettatori dormienti nel prologo di Holy Motors. Il Pierre di Pola X (Guillaume Depardieu) è un giovane scrittore reduce dal successo di vendite del suo esordio. Vive con la madre (Catherine Deneuve), con cui ha instaurato uno strano rapporto attraversato da un’ambigua tensione erotica. Una serie di dolly introducono il quadro familiare aristocratico del protagonista. Innaffiatoi, giardini idilliaci, un castello normanno: sono i primi elementi che compaiono sulla scena. La macchina da presa si inerpica su una parete della tenuta per entrare dentro una finestra, come un occhio che penetra nel segreto.
Pola X è strutturato su due dicotomie principali: ordine/caos e verità/menzogna. Conseguentemente, il colore, la luce e i piani-sequenza dominano la prima parte del film (il romanzo di successo di Pierre si chiama, non a caso, A la lumiere – Nella luce). Ma questa impressione di ordine è già da subito pervasa da un senso di tensione, pronta a implodere nel momento in cui nella storia si innesta la figura misteriosa e oscura di Isabelle (Yekaterina Golubeva). È l’inizio della spirale discendente.
Isabelle è un’anti-musa: invece di ispirare l’artista o redimerlo, rivela la fragilità del suo mondo. La donna irrompe per la prima volta sulla scena come uno spettro. Il volto coperto dai capelli neri, nascosta dietro a un albero, come una presenza inquietante in un sogno, mentre Pierre e Thibault parlano al tavolino di un café borghese. Isabelle è l’elemento perturbante che distrugge l’armonia e ne rivela l’illusorietà. Ma è un perturbante che si situa a metà tra le visioni di David Lynch e le nevrosi di Andrzej Zulawski, senza mai sfociare veramente né nel grottesco onirico del primo, né nell’orrorifico surreale del secondo. Più avanti, Isabelle rivelerà a Pierre di essere sua sorella, raccontando una storia che farà collassare l’universo del ragazzo.
La seconda parte del film, che segue la fuga di Pierre e Isabelle in una Parigi ostile, sprofonda allora nei colori cupi, fino a scene di totale buio inframezzate da visioni apocalittiche. Nel passaggio dalla prima alla seconda parte si innesta l’altro tema chiave di Pola X: la famiglia, luogo impossibile di perfezione. In un brano di Pastorale Americana di Philip Roth, uno dei personaggi, in relazione alla casa come alveo di stabilità, afferma: «Tutti ne abbiamo una ed è li che tutto va storto». Così in Pola X ogni superficie ha il suo abisso. Ogni schema costruito ha in potenza il suo sprofondamento. La sequenza del sogno, in cui un canyon che ribolle di una kubrickiana marea rosso sangue, è la sublimazione di un ordine sempre pronto a essere sommerso dall’imprevedibile e dall’irrazionale. Il rapporto ossessivo di Pierre con Isabelle si spinge fino all’incesto: nella scena di sesso, la corporeità dell’atto è pienamente esibita (penetrazione e fellatio sono reali), eppure l’immagine è filtrata da una fotografia talmente scura da lambire il buio totale, in una trasfigurazione anticipata del finale. Se da una parte i continui scambi di ruoli (la madre chiamata sorella, Lucie presentata a Parigi come cugina, Isabelle compagna e sorella) faranno da preludio a quella macchina finzionale di maschere che sarà Holy Motors, dall’altra alcuni elementi del film non quadrano o rimangono sullo sfondo.
A posteriori, il film creerà una sorta di inquietante premonizione. Se da una parte il crollo di Pierre anticipa la vita alla deriva di Guillaume Depardieu (morto a 37 anni), lo sguardo doloroso di Isabelle sarà lo stesso della depressione che accompagnerà la Golubeva (compagna dello stesso Carax) fino alla morte per suicidio a 44 anni.

Anche in Pola X, come era stato soprattutto in Mauvais Sang, Carax non rinuncia a giocare con la Nouvelle Vague, a decostruire quel linguaggio interpolandolo con collage di elementi pop, all’insegna di un cinema in cui l’immagine domina sul testo, lontano da qualsiasi desiderio di compiutezza. Un cinema fatto di squilibri, di violazioni dei codici narrativi, di immagini che, come piccole stelle che muoiono generando esplosioni, si esauriscono all’interno di ogni singola sequenza, incuranti di poter bruciare l’oggetto-film nella sua totalità.

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Leos Carax Catherine Deneuve Katerina Golubeva Guillaume Depardieu 134 minuti
Francia 1999
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Basileus – La scuola dei Re

di Giorgio Sedona
Basileu - La scuola dei Re, Alessandro Marinelli

Ambientato nella scuola Federico Fellini del quartiere San Basilio di Roma, il documenatrio di Alessandro Marinelli, Basileus – La scuola dei Re, racconta un intero anno scolastico di una classe di scuola media. Giovanissimi provenienti da un quartiere popolare e periferico, per certi versi “selvaggio”, sono anime in fiore tormentate dalle difficoltà implicite nell’adolescenza, anime e maschere che percorrono una realtà dove il tragitto di formazione scolastica, per necessità, si interseca con un tragitto di formazione extrascolastica, vissuto in un contesto, familiare, culturale e sociale, a volte molto difficile. Maschere che i giovani ragazzi portano a scuola, maschere che indossano per celare la difficoltà e la tristezza che li attanagliano, maschere da duri, da forti, indossate per non farsi riconoscere, per non manifestare la loro intima fragilità. Il corpo docente impegnato quotidianamente nelle difficoltà derivanti dalle gestioni scolastiche dei ragazzini, sono d’apprima uomini e donne pazienti, prima educatori e solo successivamente anche insegnanti. Basileus, in greco, viene tradotto in re, re dei re, e l’etimologia del nome del quartiere, San Basilio, quartiere di re senza corona, re in potenza, senza scettro e senza pistola, nell’accezione di re di se stessi, consapevoli della propria diversità, del proprio passato famigliare, della propria difficile situazione sociale, re e regine consapevoli del proprio futuro e del proprio presente. E’ proprio questo il messaggio che scaturisce dalle immagini del documentario, Alessandro Marinelli riprende le ombre dietro le pieghe di un complicato presente che si trasporta, perpetuo, sulle spalle come una cartella pesante, fin dentro le aule scolastiche, un macigno da sopportare dietro la maschera di tutti i giorni, dietro al trucco che copre i tratti autentici, in difesa dell’apparenza e dell’appartenenza. Sogni, desideri e lacrime, i giovanissimi in fiore del Federico Fellini sono anime in mutamento, costrette dentro a dei corpi già troppo duri, nascosti dietro a sguardi già troppo consapevoli. E dai percorsi personali dei ragazzi si costruisce il panorama di un quartiere che porta con sé le proprie tematiche, spaccio, droga, violenza, nelle difficoltà di crescita in un contesto perlopiù incentrato sulla sopravvivenza. Percorsi formativi creati su misura per ogni singolo ragazzo, dal parkour per far sfogare la carica fisiologica di un’energia in divenire, e per sfogare la frustazione di crescere nella difficoltà, all’insegnamento della materia partendo dalle casistiche umane di ogni singolo alunno. Una docenza che trascende la conoscenza istituzionale facilitando la conoscenza di se stessi, non perdendo mai aderenza rispetto al programma scolastico. Sono molti i temi sociali che vengono portati in aula, emigrazione, droga, violenza, dolore, emancipazione, deficit, futuro, temi che vengono posti ai ragazzi dal corpo docente, cercando in loro una risposta da confermare, ed assecondare, se socialmente giusta e se fondata sul rispetto altrui, o da sovvertire, con il ragionamento, se incline all’asocialità più che sulla comprensione. Marinelli si muove alla ricerca di porte d’ingresso, pedinando, zavattinianamente, i ragazzi, tra saggi musicali, interventi punitivi, restando sempre dentro le aule, in palestra, al campo di calcio della scuola, inseguendoli negli ambienti che i ragazzi quotidianamente vivono, alla ricerca di soglie di passaggio tra un’identità costruita dall’ambiente sociale al quale appartengono e un’identità soggettiva unica, personale, e teneramente celata.

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Alessandro Marinelli 78 minuti
Italia, 2017
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Oculus

di Saverio Felici
Oculus - recensione film mike flanagan

Oculus è il rigore decisivo nella prima parte della carriera di Mike Flanagan. Nel 2013, a 35 anni, il regista era ancora in fase di ricerca: il corto omonimo targato 2006 era stato per anni il suo biglietto da visita; il pochissimo visto e apprezzato Absentia, il primo faticoso approccio con il racconto da 90 minuti. Nessuno dei due si era rivelato il cult sperato, e per l'occasione vera bisogna aspettare la “convocazione” da parte del demiurgo Jason Blum. La storiella di Oculus è piaciuta: uno specchio stregato che fa impazzire la gente, due ragazzini sopravvissuti ad una strage che, cresciuti, decidono di affrontarlo con le armi del raziocinio. Uno spunto perfetto per la casa di produzione che in quegli anni, grazie al primo trionfo di Insidious, sta imponendo la gloriosa etica no-budget dell'orrore minimale fatto di editing ed effetti sonori. A Flanagan si propone di rifare il corto, con un pugno di attori professionisti e la garanzia della distribuzione. E' l'inizio di un rapporto che lo porterà a dirigere ben tre film (seguiranno Il terrore del silenzio e Ouija 2) e a diventare, insieme a James Wan il regista più rappresentativo del marchio Blumhouse. Il successivo approdo alla scuderia Netflix e l'imminente debutto per la Warner con Doctor Sleep passano anche e soprattutto per questo semi-classico della ghost story anni 2010.

La carriera di un “regista di genere” alle prime armi è per lo più un percorso autarchico, in cui la distanza tra autore e pubblico si annulla e il confronto diretto con gli spettatori è l'unica prova che conti. A differenza del campionato giocato dagli aspiranti auteur d'essai, il giovane regista di genere non ha a disposizione festival importanti, stampa rinomata o in generale grandi spazi critici dedicati. Nell'horror più che mai, un debuttante senza major può solo sperare che il film colpisca le cinquanta (o cinquecentomila) persone che riusciranno a vederlo, e che le cose facciano il loro corso. Anche per questo, l'horror è onesto, e difficilmente mente sulle qualità di un regista. 90 minuti, attrezzatura scadente e un pugno di attori spesso improvvisati: ciò che il filmaker riesce a tirare fuori da questi pochi elementi decreta quasi inequivocabilmente la sua abilità con la narrazione per immagini. Nella ghost story l'economia del racconto e della messa in scena è il fulcro tecnico e tematico, e in questo senso Oculus può tranquillamente definirsi il miglior film di Flanagan.

A livello prettamente cinematografico, Oculus rimane l'esempio migliore delle qualità che il regista americano metterà in luce a correnti alternate nei successivi lavori. Ben lontano, vale la pena chiarirlo, dall'essere un capolavoro o pietra miliare del genere, il film rimane ad oggi tra i più rappresentativi del catalogo Blumhouse: un piccolo manuale tecnico di quanto è possibile fare con sei attori e una scenografia composta da una casa vuota e qualche vaso di piante. E ovviamente, l'uso del montaggio. Mike Flanagan nasce come montatore, e Oculus è praticamente una tardiva tesi di laurea. Il taglio e la transizione è l'unica arma del regista che si cimenti con il cinema dinamico senza le cineprese di Lubezki a disposizione: in ciò, Flanagan è assolutamente straordinario nel disarticolare l'apparente linearità del plot, scombinandola in un trip ritmatissimo e visionario, capace di colpire a livello cerebrale oltre che sui nervi del jump-scare (presenti in versione stranamente ridotta).

Come in una versione ancora più low-cost del 1408 di Hafstrom, Oculus ci sfida a immaginare cosa possa accadere in un piccolo spazio in cui, apparentemente, tutto è illuminato e controllabile. Ovviamente, Flanagan non può giocarsela di Fx: e qui entrano in gioco stacchi e tempi. In Oculus, l'eterna guerra tra ragione e inspiegabile, empirismo e delirio, si combatte su un piano temporale inesistente: un eterno presente in cui le due linee narrative (2001-2012) convivono, e tutto avviene nel qui e ora. Gli errori compiuti dai protagonisti da ragazzi influenzano le loro azioni presenti, che a loro volta dialogano con ciò che è passato. E mentre la fortissima Karen Gillian e l'imbambolato Brendon Thwaites lottano convintissimi per mantenere alta la credibilità emotiva della storia, le coordinate temporali si annullano, e nella vecchia casa dei Russell l'unica, distorta realtà rimane quella percepita dello sguardo infetto.

La dimensione del soggettivo lascia il posto a un'altra grande intuizione di Oculus: il ruolo delle cineprese. Da Vertov a oggi, va detto, il dualismo occhio-obbiettivo è stato declinato in ogni maniera pensabile, e nel parlare di genialità per chiunque riproponga ancora l'ovvia metafora si fa un torto agli autori per primi. Nell'ottica del film, però, il discorso è centrale: portando a livello successivo lo spunto dei Paranormal Activity (telecamere interne che mostrano ciò che l'occhio nudo non vede), le cineprese a disposizione di Kaylie e Tim non sono surrogati dello sguardo, ma degli upgrade quasi cyber-punk delle sue possibilità naturali. Attraverso le fotocamere degli iPhone, che i protagonisti tengono davanti agli occhi come crocefissi nei film di vampiri, è possibile “spiare” la realtà nuda, superando così le prove dello specchio, ingannatore dell'occhio per definizione. Un'altra idea forte di un lavoro forte, fondamentale nello stabilire il ruolo centrale di Mike Flangan nella galassia ghost che ha definito questo decennio.

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Mike Flanagan Karen Gillan Brendon Thwaites Annalise Basso Kate Sackhoff Rory Cochrane 103 minuti
USA 2013
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Sogni di famiglia – Il cinema di Mike Flanagan

di Marco Compiani
Mike Flanagan - cinema recensione

Nel panorama dell’horror contemporaneo Mike Flanagan è senza dubbio una delle figure più incisive.
In soli otto anni è riuscito a delineare un’idea molto personale di genere che, dall’esordio Absentia fino al successo seriale targato Netflix Hill House, mantiene sempre le stesse caratteristiche. Potremmo infatti considerare la filmografia dell’autore di Salem una vera e propria variazione sui temi della famiglia e del lutto, elementi fondanti di un discorso che parte dal dramma umano, dal vuoto lasciato da una mancanza, dal tentativo della mente di risanare un legame strappato grazie all’aiuto dell’immaginario. Perché per Flanagan prima dell’horror e della trasfigurazione a opera dell’inconscio, ci sono i suoi personaggi, il loro combattere e stare uniti per superare il dolore di una perdita famigliare:  il marito Daniel in Absentia, i genitori di Kylie e Tim in Oculus, il piccolo Cody in Somnia, il padre degli Zander in Ouija, la madre Olivia nell’ultimo Hill House.

A dare forza e credibilità alle storie è l’elemento drammatico, la base emotiva su cui l’autore poi colloca la sua sovrastruttura orrorifica. E, trattandosi di famiglia, cosa c’è di più pauroso della Casa? Certo, nulla di nuovo, le quattro mura domestiche sono da sempre il medium preferito dai nostri demoni (interiori), a partire dall’haunted house, l’archetipo per eccellenza della letteratura gotica. Flanagan però è un figlio lynchano, ne segue la lezione sulla percezione soggettiva del tempo e dello spazio, gioca con la meta-narrazione, genera universi dove l’Impero della Mente crea regole perennemente in divenire. Ma lungi dal voler esaurire il discorso e dall’appiccicare al regista l’etichetta a la Lynch, tutt’altro, perché le suggestioni sono molte e l’intratestualità tipica del cinema horror è sempre viva, piena di rimandi, da King a Craven, dal Kubrick a Hooper, senza dimenticare la corrente del J-Horror, tutt’ora tra le influenze più forti. Tuttavia ciò non toglie come già il debutto Absentia richiami i frammenti di INLAND EMPIRE: nella messa in quadro, in certi dialoghi, in parte della colonna sonora, una conferma di quanto il maestro di Missoula sia stato seminale per molti registi contemporanei nel deformare e sovvertire le regole dello sguardo.

Nel cinema di Flanagan a colpire è l’essenzialità della messa in scena che rifugge consapevolmente i virtuosismi della macchina da presa e il ricattatorio  jump scare. Sono i personaggi il cardine della rappresentazione, la loro emotività e solitudine, il loro tentativo di creare un legame e trovare un dialogo verso l’altro. Ecco quindi come il soprannaturale sia intimamente legato a essi, senza bisogno di un fuoricampo o di un taglio di montaggio che spaventi con meccanismi artificiosi. Le apparizioni sono davanti a noi, riflessi ipnagogici che sappiamo con certezza dove trovare, punti di riferimento che, proprio per la loro imprevedibile prevedibilità risultano ancora più inquietanti.
Allo stesso tempo Flanagan gioca con la memoria e il rimosso, la usa come matrice per delineare le strutture narrative; come in Oculus, manifesto teorico del suo cinema che sposa in potenza la teoria della fuzzy trace, dove i ricordi si sviluppano su più livelli e da un evento segnante, traumatico, proliferano un insieme di falsi ricordi. È qui che nasce la tensione: l’elemento sovrannaturale è sì destinato ad assumere una forma interpretativa, come spiegazione ultima del conflitto, ma è il sentire dei personaggi l’elemento vitale del cinema di Flanagan, l’incastrarsi nei flashback delle proprie ossessioni, l’indagare l’irrisolto. Più piani coesistono simultaneamente, è un aprirsi continuo di mondi, dove il pensiero (inconscio) è la forza creativa che può dare forma tanto a visioni affascinanti quanto a creature spaventose. Si pensi al piccolo Cody di Somnia, la cui luccicanza notturna materializza sul piano reale i propri sogni/incubi, o alla creatura (IT) di Absentia, che quando si addormenta permette alle sue vittime di fuoriuscire dalle dimensione parallela dove le tiene intrappolate.

Orientarsi nell’universo di Mike Flanagan è però meno complicato di quanto possa sembrare, perché, anche se ci perdiamo dentro scatole cinesi, anche se il passato-presente-futuro alterano lo spazio e convivono come una presenza collettiva, è l’atto d’amore la vera bussola capace di guidarci verso la comprensione dell’altro e la coesistenza con il dolore. Così attraversiamo la sua filmografia e arriviamo a Hill House, dove le coazioni a ripetere, le possessioni tramandate di generazione in generazione, la scomparsa di chi ci sta vicino, può sempre trovare un equilibrio in quello che rimane della famiglia. Perché la famiglia e la casa sono il germe del Male, ma anche quel luogo dentro di noi destinato a ricucire le ferite. Un luogo verso il quale torneremo sempre.

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Green Book

di Riccardo Bellini
Green Book - recensione film farrelly

I feel good movie sono, nella maggior parte dei casi, quei film che parlano dell’importanza del cambiamento ma il cui obiettivo è al contrario consolidare le aspettative del proprio pubblico. In altre parole, i protagonisti della vicenda subiscono un’evoluzione, mentre lo spettatore no. Lui esce dalla sala esattamente con le stesse certezze con cui è entrato, nonostante e in virtù di quel caldo appagamento che si prova a visione terminata e che decreta o meno la riuscita dell’operazione. Green Book, in corsa all’Oscar come Miglior film e Miglior sceneggiatura originale, appartiene alla categoria nel modo più esemplare possibile, e nel suo caso l’operazione può dirsi senz’altro compiuta con successo. L’esordio alla regia in solitaria di Peter Farrelly (autore insieme al fratello Bobby di commedie ormai cult come Scemo e + scemo, Tutti pazzi per Mary e Io, me e Irene) è, come era evidente fin dalle premesse, una perfetta macchina arraffa Oscar che sfrutta i più oliati meccanismi delle più classiche formule hollywoodiane – a partire dall’evergreen della strana coppia di opposti che si attraggono – per consegnare un’opera che non ha alcuna intenzione di sollevare un dibattito, quanto piuttosto di scaldare le proprie platee con la forza di un messaggio conciliante veicolato ad arte.

Al centro di Green Book c’è l’amicizia tra Tony (Viggo Mortensen), un italo-americano newyorkese burino e logorroico in cerca di lavoro, e Don Shirley (Mahershala Ali), tormentato musicista nero, colto, taciturno e talmente talentuoso da essersi guadagnato in vita l’ammirazione di Igor Stravinsky. Tony, nonostante il retroterra culturale in cui è cresciuto non sia propriamente inclusivo nei confronti degli afroamericani (retroterra che viene subito dimenticato dal personaggio in modo assai poco convincente) accetta di fare da autista a Don, accompagnandolo e proteggendolo in una tournee attraverso il Sud degli Stati Uniti degli anni Sessanta, in piena epoca di segregazioni razziali, sulla scorta del The Negro Motorist Green Book, autentica guida per viaggiatori neri che, dal 1936 al 1966, segnalava i punti di ristoro in cui gli afroamericani potevano essere accolti evitando guai. Come da manuale, tra cliché e gustose gag, il rapporto tra i due decolla superando mano a mano le diffidenze iniziali – le maggiori resistenze sono da parte di Don verso Tony, a ben vedere – e i due amici imparano l’uno dall’altro verso un  finale commovente con tanto di quadretto natalizio assicurato.

Farrelly, che firma la sceneggiatura insieme a Nick Vallelonga, figlio del vero Tony, mette a frutto il proprio talento comico, tenendosi ben lontano dal tono demenziale delle commedie che lo hanno reso celebre. I dialoghi e i battibecchi tra i due protagonisti conferiscono a questo buddy movie un ritmo trascinante. Mortensen e Ali, candidati entrambi all’Oscar e il secondo vincitore del Golden Globe come miglior attore non protagonista, lavorano in perfetta alchimia, con il poliglotta Mortensen che mastica – visto l’appetito bulimico del personaggio è il caso di dirlo – in modo credibile l’italiano. I cliché imboccano con collaudata puntualità la via della commozione, senza lesinare talvolta la retorica più grossolana (Don in giacca e cravatta, con la Cadillac in panne, osservato da un gruppo di attoniti coltivatori neri del Sud). A corroborare il tutto carezzando il consenso spettatoriale si aggiunge infine la rassicurante egida della “storia vera”. In Green Book tutto è talmente lineare, classico e accomodante da rendersi allo spettatore senza alcuno sforzo. Una formula pressoché impeccabile per gli amanti del genere, e il mercato ovviamente, che però, qua e là, Farrelly sa anche gestire e incanalare suggerendo, nei suoi momenti migliori e grazie soprattutto al lavoro di Mahershala Ali, la sotterranea ma persistente sofferenza di chi è costretto a fare i conti, tutti i giorni e in silenzio, con un mondo in cui si è costretti a nascondere i lividi sotto una maschera di trucco.

Per il resto, rimane quel che rimane: un film da cui non si può pretendere altro rispetto a quanto viene offerto già dal trailer. Un film che anziché dialogare con lo spettatore, lasciandolo libero di colmare le eventuali lacune o di prendere da sé coscienza del problema, fino a sollevare reali quesiti, preferisce piuttosto l’approccio catechistico, appianando le asperità e elargendo fin da subito le proprie confortanti risposte. E può anche andare bene così. Basta essere consapevoli della differenza.

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Peter Farrelly Viggo Mortensen Mahershala Ali Linda Cardellini 130 minuti
USA 2018
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