Copia originale

di Veronica Vituzzi
Copia originale - recensione film

Lee Israel era qualcuno in passato. Giornalista e autrice di diverse biografie che si erano rivelate buoni successi commerciali, a metà degli anni Ottanta vede la propria fama calare drasticamente fino a trovarsi sola in un appartamento infestato dalle mosche e più di un affitto arretrato che aspetta di essere pagato. La sua agente la evita, il suo gatto è malato, il suo nuovo libro è lontano dall’essere pubblicato, le persone la ignorano, la irridono o si offendono per le sue risposte sgarbate.

È il 1991 ed è da qui che inizia Copia originale: da un personaggio così frequentemente ridotto a stereotipo che i rischi di farne una macchietta erano altissimi. Lee Israel (Melissa McCarthy) non è più giovane, non è sessualmente attraente, è povera, non è gentile né si sforza di risultare simpatica. Sarebbe assai facile raccontare una vita del genere in toni parodistici – ecco la vecchia maleducata che tocca sopportare in fila alle casse dei negozi – o patetici – ecco la povera anziana che troppo tardi sconta con la solitudine l’aridità del suo cuore – ma il film di Marielle Heller si muove subito controtendenza, proprio perché la sua stessa protagonista, prendendo alla lettera le parole della sua agente che le ricorda che avere un caratteraccio è un lusso che solo la gente famosa può permettersi, decide di impersonare quelle personalità letterarie caustiche, ricche di sarcasmo e risposte corrosive per cui il pubblico, lungi dall’offendersi, si infiammava in nome della celebrità che rende quasi tutto tollerabile.

La truffa di Lee Israel è una storia vera, avvenuta nei primi anni Novanta, concretizzatasi nella riproduzione di circa 400 false lettere autografe di scrittori famosi, scritte e vendute ai collezionisti, e nella conseguente riproduzione delle loro voci, del loro carattere, a metà fra ciò che erano realmente e ciò che gli appassionati si aspettavano di trovare nei loro carteggi privati. Che si tratti di Dorothy Parker o di Noël Coward, il pubblico di acquirenti si entusiasma per lo spirito, il carisma e le frecciate ad effetto e compra tutto quello che Lee offre, finché ovviamente il sistema non rischia di rompersi. E l’illusione crolla.
Copia originale presenta un’acuta lettura del pubblico letterario, rappresentato come un bambino facile da ingannare. Tutto sta nel «saper giocare secondo le regole del gioco», ricorda l’agente di Lee: bisogna essere disponibili, firmare copie, tenere incontri col pubblico; per la misantropia e l’alcolismo sfrenato bisogna attendere la consacrazione. Arrivati a quel punto la fede nell’icona dello scrittore è oramai tale da superare l’interesse per le singole opere nonché la reale persona. Non a caso Lee si scopre bravissima a essere una Dorothy Parker migliore e perfino più divertente dell’originale. Rimane il dilemma di cosa fare della vera voce di Lee, apprezzata e accettata solo quando celata sotto più celebri spoglie.

Quasi a farsi carico anche stilisticamente di questo paradosso, il film di Heller evita ogni facile risposta consolatoria, raccontando Lee come personaggio sfaccettato e difficile da definire. Farne l’eroina del racconto non significa farne un genio incompreso, perché Lee è effettivamente fredda, sgarbata, attaccata più al proprio gatto che alle persone, incapace di lasciarsi andare in una relazione sentimentale. Respinge tutti intorno a sé, e l’unico vero rapporto che riesce a instaurare è con Jack Hook (Richard E. Grant), un malridotto dandy omosessuale con cui condivide sbronze, scherzi e in seguito la propria attività criminale; un’amicizia tenera e maldestra, in cui ognuno riflette nell’altro le proprie intime meschinità.
Ironico, ammantato di una sottile nostalgia vintage per i bei tempi che furono, Copia originale racconta in modo godibile ma profondo una donna respingente, piena di difetti ma anche di talento, senza abbellirla né farne un cliché. Ma soprattutto rivela quanto la nostra fascinazione per la letteratura e i suoi eroi sia spesso una costruzione illusoria vicina alla fede religiosa, fatta più di vanità che di reale confronto con i suoi artefici. E a pensarci bene, in fondo non c’è niente meglio del cinema per raccontarne l’apparenza che vince sulla sostanza, lasciando sullo sfondo, presente ma invisibile, la fatica reale, ben poco seducente, che è parte stessa dello scrivere.

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Marielle Heller Melissa McCarthy Richard E. Grant Dolly Wells Jane Curtin 106 minuti
USA 2018
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The Umbrella Academy

di Matteo Berardini
The Umbrella Academy - recensione serie tv netflix

Coadiuvato dall’esplosivo lavoro grafico di Gabriel Bá, l’ex frontman dei My Chemical Romance Gerald Way dà alle stampe, nel 2007, The Umbrella Academy: La Suite dell’Apocalisse, graphic novel sorprendente che lavora con consapevolezza rara sugli elementi più classici della scrittura supereroistica, portandosi a casa come risultato un importante Eisner Award. La sua Umbrella Academy è una frenetica girandola capace di lavorare con gli elementi più riconoscibili del genere – supercattivi, distruzione del mondo, eroi tormentati dai poteri scomodi – senza perdere mai in originalità e creatività; Way evita l’approccio metalinguistico di Grant Morrison ma guarda alla sua Doom Patrol e a quel modo di rielaborare la tradizione, consapevole che nella superficie del racconto, nell’autoevidenza dei suoi elementi più classici ci sono tutte le potenzialità per costruire una storia appagante con personaggi fragili e complessi. Di stampo opposto si rivela invece il suo adattamento seriale, primo risultato del nuovo percorso supereroistico di Netflix che convergerà sul più complesso e ambizioso lavoro previsto per Millarworld (l’universo del fumettista Mark Millar, di cui la rete streaming ha già annunciato tre film e due serie tv). Infatti, consapevole di quanto fosse difficile traslare il lavoro che Way e Bá hanno fatto sulle forme pop del fumetto, The Umbrella Academy evita ogni confronto formale con l’originale (e con la forma fumetto in generale) esaltando piuttosto la componente famigliare soggiacente, quell’intrico di disfunzionalità e drammi d’infanzia che Way teneva sottotraccia mentre la serie pone al centro dell’operazione.

Una famiglia complessa e vasta, composta da individui paradossali e fuori dalla norma legati da rapporti difficili e irrisolti, se non apertamente traumatici. Questa situazione oggi è divenuta un vero e proprio topos narrativo, ma 60 anni fa era la brillante creazione artistica di Salinger, che con la famiglia Glass ha dato il via a una complessa architettura umana che dai suoi racconti è passata nel tempo per altre mani e altre rielaborazioni biografiche, dai Tenenbaum alle Meyerowitz stories fino, appunto, all’Umbrella Academy, supergruppo di bambini straordinari riuniti dall’eccentrico Sir Reginald Hargreeves, padre adottivo anaffettivo e manipolatorio che ha cercato di trasformare i suoi ragazzi in una squadra speciale distruggendo ogni possibilità di vivere come una famiglia “normale”.

Più che sul tentativo di evitare l’Apocalisse, rimandato alla prossima stagione, la prima tranche di Umbrella Academy si focalizza quindi su questo coacervo irrisolto di traumi e affetti spezzati, e sulla necessità di Luther, Klaus, Allison, Diego e Numero 5 di imparare a convivere con le proprie disfunzionalità per poter costruire una famiglia reale (nella sua anormalità supereroistica). Solo così saranno in grado di riassorbire al loro interno la reietta Vanya, sorella negletta dal potere immenso che solo con l’amore, piuttosto che con la forza e le manipolazioni sotterranee, potrà tornare al suo alveolo, alla sua casa. In modo via via più evidente, tutti gli elementi della stagione convergono su di lei e sulla sua trasformazione nel Violino bianco, in un crescendo di sentimenti infranti e traumi infantili, di riconciliazione e perdono, che è sicuramente il risultato migliore di questa riscrittura seriale. Rispetto all’originale infatti, il personaggio interpretato da Ellen Page acquisisce spessore e consapevolezza, il che rende ben più dolorosa e complessa la sua trasformazione finale, esplosione di un femmineo fino ad allora ritorto su sé stesso, compresso e temuto perché troppo libero e potente per essere gestito.

Il grosso problema è che la serie tenta lo stesso approccio con tutti gli altri personaggi in gioco, anche i più funzionali e in origine schiettamente caricaturali, e fallisce pesantemente; al di fuori di Vanya l’approfondimento psicologico si trasforma in un’espansione narrativa fuori controllo, ipertrofica e banale, che confonde lo spessore con la lungaggine. The Umbrella Academy diventa così il trionfo della “psicologia” intesa come psicologismo spicciolo e incapacità totale di lavorare sulla e con la superficie del racconto: tutto deve essere spiegato, ogni interstizio riempito, come se lo spettatore seriale non fosse più in grado di gestire il non-detto, la suggestione. La grande vittima di quest’appiattimento generalizzato è la forza esplosiva del fumetto originale, ricondotto sui binari di un intrattenimento controllato, normalizzato, accuratamente tarato per una platea che non va mai sorpresa più di tanto, mai presa contropiede, mai portata in territori che non siano altamente confortevoli e familiari. Questa strategia, chiaramente tarata sul mercato ormai mondiale a disposizione di Netflix, ha come conseguenza immediata una dilatazione spropositata dell’arco stagionale, per di più ingolfato da ripetute sequenze action-musicali costruite a tavolino per risultare il più possibile ammiccanti e cult, con il risultato opposto di respingere e annoiare con la loro evidente artificiosità.

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Ellen Page Tom Hopper Robert Sheehan Emmy Raver-Lampman David Castañeda Aidan Gallagher Mary J. Blige 1 stagione da 10 episodi
USA 2019
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Da'wah

di Carmen Albergo
da'wah - recensione film Italo Spinelli

Insostenibile leggerezza quella rappresentata dal documentario Da'wah di Italo Spinelli, perché nella discrezione e semplicità realizzativa di interviste e pedinamento di persone persegue l'audace impresa di testimoniare l'esistenza di una sorta di "isola che non c'è" nel cuore della cultura islamica, quanto meno sconosciuta ai più e senza dubbio oscurata dalla ridondanza e speculazione mediatica del terrorismo estremo. Spinelli filma la vita quotidiana all'interno di un "pondok pesantren" in Indonesia, un collegio islamico, frequentato da studenti dai sei ai diciotto anni, dove si studia per diventare guide religiose, e attraverso le parole misurate di quattro adolescenti ne esplora i sacrifici e i sogni. Nel collegio di Dalwa, nella provincia orientale di Giava, i giovani Rafli, Masduqui, Yazid, Shofi ogni giorno si svegliano prima dell'alba e dopo aver ordinatamente provveduto alle purificazioni preliminari alla preghiera, s'apprestano allo studio del Corano e dell'arabo, ma anche della matematica, dell'economia, dell'informatica e delle lingue straniere, soprattutto si dedicano ad una autentica interpretazione e messa in discussione dei dettami della legge e delle sue derive. Solo l'esecuzione degli esercizi fisici all'aria aperta, assieme a tutti i compagni, spezza il rigore dei modi e dei rituali, lasciando trasparire spensieratezza dalla profonda disciplina.

Nella linearità descrittiva, sono proprio le panoramiche allargate e le prospettive dall'alto sugli ambienti condivisi dalla moltitudine di ragazzi tutti di bianco vestiti, manto candido che copre gli spazi quasi a perdita d'occhio, a conferire alla visione un senso di incontaminata e insperata innocenza mai perduta. Qui tutto il cuore dell'opera, che squarcia l'ormai imperante convinzione e condizione di inestricabile violenza unita al più cieco fondamentalismo religioso, all'addestramento al martirio indiscriminato dei suoi figli, arruolati in nome di Allah contro l'Occidente. I ragazzi, dai volti limpidi e sguardi cauti, apprendono dai propri insegnanti che l'Islam è la prima vittima dell'Islam stesso, quando non colto nella sua originale concezione di rispetto del prossimo, quando travisato e piegato ad interessi di altra natura, che non siano pace e tolleranza. Miti falsi, ma viscerali, sono abbarbicati e si propagano intorno alla Da'wah, letteralmente "l'invito" a voler abbracciare la fede e la parola delle scritture, orientamenti e comportamenti etici di vita e comunità. Emblematico l'uso improprio, eppure definitivo, dell'appellativo "infedele ", che il Corano bandisce dalla lingua parlata e rivolto a chiunque, nella possibilità che persino in punto di morte si possa come ultimo atto di vita incontrare la fede. Su tutto però domina l'ignoranza diffusa, male di tutti i mali, vaso di Pandora ancestrale di tutte le culture, laiche e integraliste.

Quando i ragazzi tornano a casa dalle loro famiglie, in pausa dalle lezioni, quando i ragazzi svestono gli abiti da novizi per indossare una T-Shirt, la cornice contestuale si sgretola sotto una umanità universale, a-temporale e glocale, così tangibile e vicina, indifferente al progresso generazionale che segna i decenni, le epoche, le guerre geopolitiche, le ricostruzioni, la povertà prima educativa e poi economica. Da un lato i ragazzi, figli del proprio tempo, di internet e dei miti del calcio, evadono con la mente verso mete lontane (l'Egitto o la Germania) e vagheggiano di poter un giorno incontrare Valentino Rossi, dall'altro i genitori vogliono salvare i propri figli dall'analfabetismo e dalla brutalità. Tutti i genitori si sacrificherebbero nella miseria, pur di redimere da questa i propri figli, soprattutto la miseria di spirito. E i ragazzi se ne sentono ben investiti, ciascuno sulle proprie spalle non sente solo il volere dei padri, ma il volere dell'immenso insegnamento di cui ogni giorno con costanza si nutrono, la missione di riscattare il proprio credo con la non violenza, che non è l'altra guancia cristiana, bensì l'irriducibile consapevolezza che pur se tutte le civiltà sono il prodotto di guerre, le guerre non possono che chiamare altre guerre, il sangue altro sangue. Ciascuno sa che il proprio destino è dunque già segnato da incomprensione, sospetto e odio d'appartenenza, ma la loro formazione li tempra alla moderazione, al perdono e all'utopia, oggi più che mai davvero insostenibile, della fratellanza dei popoli sotto il nome di Allah, oltraggiato da suoi stessi figli, che qui come altrove, ancora "... non sanno quello che fanno!".

 

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Italo Spinelli Wahyu Rafli Muhammad Hasan Masduqi Ahmad Yazid Muhammad Shofi 64 minuti
Indonesia 2017
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Somnia (Before I Wake)

di Jacopo Bonanni
Somnia - recensione film flanagan

«Se i sogni sono film, allora i ricordi sono film di fantasmi» cantavano i Counting Crows, e le storie di fantasmi sono le più difficili da raccontare in un film, soprattutto quando si tratta dei fantasmi della mente. Somnia (Before I Wake) è una di queste storie, la storia di un “sonno profondo” popolato da incubi, rimorsi e struggenti malinconie da cui sembra impossibile svegliarsi fino alla fine della visione. Mike Flanagan torna a confrontarsi con il tema dell’elaborazione del lutto e la riconciliazione familiare, presentandoci un melodramma onirico dalle sottili venature horror ambientato tra le mura domestiche. Una pellicola sofisticata e visionaria che con le sua atmosfere soffuse chiude idealmente quella che potremmo definire la “trilogia della perdita”: un percorso catartico sulla metabolizzazione del dolore iniziato nel 2011.

Ancora una volta sono i rapporti familiari con le loro nevrosi lo snodo cruciale dell’azione: dopo la vedova tormentata dallo spettro del marito nel seminale Absentia e i due orfani ossessionati dall’omicidio del padre nel cult Oculus, spetta ai coniugi Hobson – protagonisti di Somnia fare i conti con i propri fantasmi. In questo caso il trauma scatenante è la tragica e prematura scomparsa del figlio Sean che convince la giovane coppia (Kate Bosworth e Thomas Jane), intrappolata in un limbo di apatia e tacito negazionismo, a prendere in affidamento un altro bambino nella speranza di ricucire lo strappo causato dalla perdita che ha destabilizzato gli equilibri all’interno della casa. Il bambino in questione è il piccolo Cody (Jacob Tremblay), un orfano affettuoso ed empatico che, dopo la morte di sua madre, sembra riuscire a lenire il dolore degli altri grazie a un dono più grande di lui: una “luccicanza” che gli consente di materializzare i sogni di chi lo circonda. Peccato che anche il bambino sia perseguitato da incubi ricorrenti che ben presto porteranno a galla i suoi mostri – nelle vesti dell’inquietante “Uomo Cancro” - trasformando il suo potere in una maledizione per chiunque tenti di approfittarne. Soltanto l’affetto e il rinnovato amore della nuova madre verso il figlio acquisito potranno spezzare “l’incantesimo” che grava su di loro, risvegliando entrambi da un sogno durato troppo a lungo, ma prima dovranno trovare la forza di uscire dal bozzolo di sofferenza che soffoca i loro sentimenti.

Sembra una morale fiabesca, quella suggerita da Flanagan, tipica di alcune ghost stories letterarie, dove il fantasma non è altro che un pretesto per riflettere sulla persistenza in negativo del vivere mentre il sogno – o meglio, l’incubo – serve a mettere in scena il senso di colpa – rappresentato dal boogeyman – che infesta la quotidianità di chi, rifugiandosi dietro simulacri e feticci del passato, rifiuta di affrontare il presente. Non a caso tutta la narrazione è orientata a costruire il pathos (melo)drammatico del racconto attraverso ritmi lenti e dilatati che diano il  maggior risalto possibile alla psicologia dei personaggi, a discapito della componente metafisica che seppur presente non mira mai a turbare realmente lo spettatore, se non alla luce dei risvolti allegorici che assumerà all’interno della vicenda. Da questo punto di vista Somnia è un film rischioso da classificare nel suo ambizioso fluttuare tra thriller psicologico, favola dark-fantasy e dramma familiare che tenta contemporaneamente di coccolare e terrorizzare, tanto da far sospettare che l’intento di Flanagan – in fondo – sia proprio quello di voler disorientare lo spettatore invitandolo a uscire dalla propria comfort zone. Ipotesi che testimonia come il talentuoso “cronista del subconscio”, abilissimo nel descrivere le zone d’ombra della psiche umana, sia da annoverare tra gli autori “difformi” della nuova generazione, grazie alla sua capacità di sovvertire ogni volta le regole del genere, spesso condizionato da logiche stantie, pur di affermare la sua personale visione.

Tirando le somme, Somnia è una piacevole anomalia nel curriculum del regista di Salem, che assimilata – tra i tanti – la lezione del maestro Wes Craven (Nightmare) e dell’amico James Wan (Insidious) conferma di avere ancora diversi assi nella manica da poter giocare.

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Mike Flanagan Kate Bosworth Thomas Jane Jacob Tremblay Annabeth Gish 97 minuti
USA 2016
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Russian Doll

di Rosario Gallone
Russian Doll - recensione serie tv netflix

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso ha sempre affascinato la narrativa fantastica, magari con implicazioni filosofiche. Basti pensare alle opere di Borges. Il cinema, per sua natura, è un multiverso: un universo che si ripete uguale e diverso ogni volta. Non a caso quando si fa partire un proiettore o il tasto play di un dispositivo, il testo audiovisivo si ri-produce, si produce un'altra volta. Uguale e diverso...

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso... un attimo... questa cosa l'ho già scritta, Borges, la riproduzione... dov'ero? Uguale e diverso: sul set attraverso la reiterazione della stessa azione, ma diversa nell'efficacia, nei vari ciak; o nella reiterazione della stessa azione, ma da diversi punti di vista, nei vari punti macchina. Uguale e diverso...

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso ha sempre affascinato... ok, inutile soffermarmici, andiamo avanti. Uguale e diverso per lo spettatore: in sala, in tv, su tablet, su telefonino, lo stesso testo audiovisivo può essere percepito in maniera differente.

Da William James a ...merda! Il racconto in loop non è certo una novità e lo avrete letto un po' ovunque: Russian Doll, la serie Netflix creata da Natasha Lyonne (anche protagonista) e Leslye Headland (anche regista) col contributo di Amy Poehler (Parks & Recreations), sfrutta un espediente reso famoso dal celebre Ricomincio da capo, diretto nel 1993 da Harold Ramis e interpretato da Bill Murray, ma che poi abbiamo ritrovato in altre opere, dalla seconda regia di Duncan Jones, Source Code, al nuovo franchise Blumhouse Auguri per la tua morte, passando per Edge of Tomorrow di Doug Liman con Tom Cruise e Prima di domani di Ry-Russo Young.

Da William... sì ok... il racconto in loop... Ricomincio da capo (a proposito, Russian Doll è stato reso disponibile sulla piattaforma Netflix il 1 febbraio 2019, il giorno prima dell’effettivo giorno della Marmotta, il 2 febbraio)... Auguri per la tua morte...Tom Cruise...no, un attimo, torniamo indietro...Auguri per la tua morte e Prima di domani in particolare si ricollegano a Russian Doll perché anche lì la protagonista muore (nel primo viene uccisa, nel secondo un incidente) e le ulteriori possibilità di vita, in qualche modo, rappresentano una maledizione e una nuova occasione. Quella che vorremmo tutti (e che realizziamo, in fondo, nei videogame di cui la protagonista Nadia è programmatrice) di ritornare sui nostri errori, per eliminare rimpianti e rimorsi. Inoltre Nadia ha la possibilità di indagare, nel suo (quasi) eterno ritorno, i diversi lati del suo carattere, le diverse Nadia che si nascondono nella Nadia principale, nella più grande delle bambole della Matrioska.

Da William James... lasciate perdere... è qui che l'espediente del loop temporale incontra la teoria delle stringhe... o delle bolle... o “l'interpretazione di Copenhagen”... ok, lo avete già avete letto... diciamo che è qui che Russian Doll incontra Ritorno al futuro 2, per cui Nadia scopre di non essere l'unica e che ha la possibilità di migliorare o, per meglio dire, di scavare a fondo in sé stessa e portare alla luce la sua parte migliore, l'ultima bambola, quella che non si apre più.

Da Will... e tutto quello che avete già letto... è nell'ultimo episodio che Russian Doll incontra la celebre sequenza in split screen de Le regole dell’attrazione di Roger Avary, in cui James Van Der Beek e Shannyn Sossamon dapprima separati si ritrovano uniti nella stessa inquadratura dalla semplice cancellazione della linea di separazione. La reductio ad unum delle due Nadia ci dice che ognuno reca in sé diversi lati e che conoscendoli la vita può essere migliore. Ma bisogna scavare dentro di sé, e dentro, e dentro, e dentro, e dentro, e dentro...

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Quando eravamo fratelli

di Domenico Saracino
Quano eravamo fratelli - recensione film Jeremiah Zagar

«Un gran día dejaré este mundo, yo volaré. A una tierra do estaré seguro, yo volaré».
Inizia così, Quando eravamo fratelli, primo film di finzione del documentarista filadelfiese Jeremiah Zagar, basato sull’apprezzato, omonimo esordio letterario di Justin Torres: con la voce di un bambino che canticchia in spagnolo I’ll fly away, uno degli inni più celebri del gospel americano (per rimanere in ambito cinematografico lo si può ascoltare, per esempio, nella versione bluegrass delle Kossoy Sisters in Fratello, dove sei? dei Coen). Una canzone che Albert Brumley, prolifico autore di musica cristiana, aveva sentito il bisogno di tradurre in chiave religiosa mentre raccoglieva cotone per la sua famiglia, partendo in realtà da una delle ballate laiche più suonate degli anni ’20, The Prisoner’s Song, chiaramente incentrata, come dice il titolo stesso, sul tema della prigionia e della brama di libertà.

Volare via in un altrove dove sentirsi finalmente al sicuro, in un paradiso che sia, al di là di qualsivoglia connotazione spirituale, anzitutto privo di reclusione, costrizione e dolore. Questo è ciò che desidera, più di ogni altra cosa al mondo, Jonah, il più piccolo e fragile dei tre “animali” che costituiscono il “we” del titolo originale (We the animals), strepitante trio di esserini esuberanti, per metà italiani e per l’altra portoricani, capaci di diventare – quando l’amore fraterno riesce a farne un tutt’uno – una sorta di creatura sovraumana; animale, appunto, nel senso più pieno del termine, pura energia vitale, pre-culturale, pre-politica, pre-civile.

Sono figli della natura, questi ragazzi, più che dell’educazione famigliare o sociale. Che infatti latita, fino quasi a scomparire del tutto, tra le crepe di una famiglia della working class inghiottita da massacranti turni di lavoro, dalle imprevedibili esternazioni di un padre tanto affettuoso quanto impulsivo e violento, dall’impotenza di una madre risucchiata nella depressione d’una vita difficile. Jonah, Manny e Joel attraversano il confine ombroso tra infanzia e adolescenza nell’apparente assenza delle istituzioni: non c’è scuola – e non si capisce bene per quale motivo – ad aiutare i genitori nel ruolo pedagogico, non ci sono assistenti sociali a chiederne conto, né forze dell’ordine ad investigare sulle sassaiole che i tre enfants terribles (o meglio i due più Jonah) destinano alle auto in transito, lontano da casa.

Fatte salve le considerevoli divergenze in termini paesaggistici, le condizioni – naturali, sociali, famigliari – in cui vivono i tre bambini non sono molto diverse da quelle offerte dal bayou alla bambina protagonista di Re della terra selvaggia (altro film girato, come Quando eravamo fratelli, in 16mm, molto apprezzato al Sundance Film Festival, dove entrambe le opere sono state premiate). Oppure da quelle che il villaggio di pescatori islandesi di Hjartasteinn destina a due preadolescenti alle prese con un coming of age che coincide, come nel libro di Torres e nel film di Zagar, con la scoperta della propria omosessualità.
O, ancora, da quelle delle aree minerarie dello Yorkshire in Kes, l’insuperabile affresco (pre)adolescenziale di Ken Loach, il cui protagonista Billy condivide con Jonah la fascinazione per il volo, incarnata dal gheppio (kestrel, il “Kes” del titolo) con cui cerca di evadere da una realtà fatta di miseria e amarezze. Film, quest’ultimo, che ha certamente influito, in modo evidente soprattutto nella parte finale, sul lavoro di Zagar.

Si può dire che oltre a vivere nella natura biologicamente o ecologicamente intesa, nell’ambiente naturale, insomma, che in questo caso è quello dell’America rurale, a basso reddito pro-capite, dell’Upstate New York, dalle parti del lago Oneida (Justin Torres, l’autore del libro, è cresciuto a Baldwinsville, mentre gran parte del film è stato girato ad Utica, sessanta miglia più a est), questi bambini vivano e crescano immersi tra forze etimologicamente “naturali”, plasmanti, generatrici. A stretto contatto con la violenza, in primis, che in Quando eravamo fratelli arriva, improvvisa, nel mezzo dell’amore instabile e volatile dei genitori, dello scherzo, del gioco infantile. E che si materializza nel labbro ferito della madre, nella fisicità paterna, nelle zanzare schiacciate con rabbia.

C’è una percussione continua in Quando eravamo fratelli, dita tamburellanti, vibrazioni musicali, schiaffi sonori che si abbattono sulla pelle nuda, sferzata. Come se la vita non potesse che progredire così, percorsa (s)e percossa, per oscillazioni che spezzano silenzi, equilibri, forme. Mentre Jonah oscilla tra introversione e apertura all’esterno, tra sensibilità interiore e insensibilità del mondo esteriore, le sue matite colorate lasciano sui fogli i segni grafici di quei moti. E persino i disegni sono in continuo movimento, in divenire, resi vivi dalle animazioni di Mark Samsonovich, per la verità forse troppo numerose e invadenti.

Sta qui la bravura di Zagar, nel lasciare la macchina da presa in balia di questi flussi di energia, di queste onde, prediligendo la camera a mano, il pedinamento dei corpi, i primi piani, l’irrefrenabile punto di vista dei piccoli, di Jonah in particolare. Lo stile registico, la fotografia di Zak Mulligan e l’utilizzo della pellicola in 16mm restituiscono così alle immagini un’immediatezza che richiama quella dei filmati casalinghi e una genuinità che, al netto di qualche trascurabile difetto, non può che farci propendere per una valutazione assolutamente positiva.

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Jeremiah Zagar Sheila Vand Raúl Castillo Evan Rosado 93 minuti
USA 2018
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Velvet Buzzsaw

di Mattia Caruso
Velvet Buzzsaw - recensione film gilroy netflix

Forse non c'è nulla, oggi, che meglio si presti alla satira sociale e a uno sguardo tagliente e critico sulla contemporaneità come il mondo dell'arte e la sua decadenza. A dircelo è sicuramente il successo recente di film come il The Square di Ruben Östlund, ma anche l'essenza stessa di una realtà che pare divenuta, col tempo, sempre più il riflesso distorto di se stessa, caricatura stilizzata a uso e consumo di una apatica élite di cultori.
Non sorprende più di tanto, allora, che proprio a quel mondo decidano di guardare anche Netflix e il regista di Velvet Buzzsaw, Dan Gilroy, dando vita a un horror dalla forte componente ironica e grottesca.

Abbandonati gli inferni mediatici di Nightcrawler e quelli giudiziari di End of Justice, è infatti proprio con l'arte e con l'industria che la circonda che lo statunitense Gilroy decide, questa volta, di confrontarsi, mettendo in scena la consueta Los Angeles dantesca ma calcando il piede sulla stilizzazione e sullo straniamento, restituendo un mondo assurdo e freddo come le figure che lo abitano. È qui, tra mostre, musei e atelier dove si decidono le sorti stesse di artisti e addetti ai lavori, che l'arrivista Josephina (Zawe Ashton) scopre per caso l'opera postuma di un pittore sconosciuto e disturbato i cui quadri paiono essere intrisi di una misteriosa e letale maledizione. È l'inizio di una catena di eventi che, sulla scia del più classico horror con al centro una serie di omicidi soprannaturali (The Ring, sopra tutti), paiono destinati a rivoltare quel mondo dorato sin dalle fondamenta, facendone emergere la superficialità, l'opportunismo, la cieca sete di denaro, fama e successo.

Perché, in fin dei conti, sta tutta qui l'intuizione di un film come Velvet Buzzsaw: prendere una trama lineare e abusata da horror di serie b e calarla all'interno di una riflessione cinica su un mondo alla deriva, dove il valore artistico di un'opera si misura troppo spesso con la sua quotazione di mercato (chiunque tenti di lucrare sui quadri del fantomatico Vetril Dease fa una fine terribile), alimentando un paradosso sempre più esplicito ed evidente.
Fino a qui tutto bene, non fosse che l'equilibrio tra queste due anime diventi presto estremamente precario, sbilanciato ora da una parte ora dall'altra, facendo di questo film costantemente in bilico tra farsa e prodotto di genere un ibrido imperfetto e altalenante, indeciso se buttarsi completamente sul fantastico o se sviluppare la sua divertita e grottesca componente satirica.

Non che gli elementi di interesse manchino: dalla caricatura di un mondo popolato da personaggi costantemente sopra le righe e ai limiti della macchietta (un Jake Gyllenhaal come al solito camaleontico, ritratto spietato di un critico d'arte e di un'intera categoria), al meccanismo orrorifico collaudato e implacabile, tutto sembra convergere in un'apocalisse morale ormai inevitabile. Eppure la sensazione data dalla visione di Velvet Buzzsaw è soprattutto quella di trovarsi davanti a una strana anomalia, una commistioni di toni, registri e generi che non solo pare forzata, ma persino priva di una direzione precisa, come se il regista, avuta da Netflix carta bianca, avesse voluto inserire qualsiasi incubo, ossessione, deriva satirica che gli venisse in mente, restando, però, bloccato sulla superficie (quanto, nella messa alla berlina del mondo dell'arte, pare già detto o già datato?) di una critica e di una riflessione mai realmente incisive.

Tra vittime scambiate per opere d'arte e proverbiali impresari vuoti e senza scrupoli, la parabola di Velvet Buzzsaw si fa così patinata e posticcia, superficiale e semplicistica come quel mondo che vorrebbe tanto sagacemente demolire ma di cui riesce solo a restituire un riflesso formalmente interessante ma datato come i suoi escamotage soprannaturali. 

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Dan Gilroy Jake Gyllenhaal Rene Russo Toni Collette Zawe Ashton John Malkovich 113 minuti
USA 2019
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Dafne

di Emanuele Di Nicola
Dafne di Federico Bondi recensione film

Si chiama Dafne come la ninfa della mitologia greca che rappresenta i corsi d’acqua dolce, colei che fa innamorare il dio Apollo. E la sua figura - tutto sommato - non è lontana dalla funzione dell’acqua: rigenerante, appagamento di un bisogno e saturazione di un vuoto, bevendola si può riprendere forza per camminare. Carolina Raspanti è la giovane attrice affetta da sindrome di Down protagonista di Dafne, titolo e nome, il film di Federico Bondi che ha vinto il premio Fipresci alla Berlinale 2019 dopo la presentazione nella sezione Panorama. È una storia apparentemente semplice: Dafne vive con la sua famiglia in Toscana, con i genitori Luigi e Maria, ma la madre improvvisamente scompare. Davanti al lutto la famiglia vacilla, è chiamata a sostenere la sofferenza e insieme affrontare una riorganizzazione complessiva della vita.

Ma in realtà non c’è niente di “semplice”, già in questo incipit. La morte, lasciata pudicamente fuori campo, introduce subito a un non detto che scorre per tutto il racconto: Luigi (Antonio Piovanelli) non è certo giovane, bensì anziano e provato, e subisce l’ulteriore colpo della vedovanza. In futuro non ci sarà più neanche lui e la ragazza Down resterà sola. Qui il film inizia a smentire il primo luogo comune: Dafne è autonoma e ha un carattere forte, non solo se la cava ma ha fidanzati e un lavoro (all’Ipercoop, come l’attrice nella vita), seppure portatrice della patologia respinge ogni sospetto di non autosufficienza. Al contrario. Ed ecco un secondo ribaltamento, che si gioca sul piano più strettamente narrativo: dinanzi a due personaggi stravolti dal lutto, il compito di sollevare la situazione spetta a quello in teorica condizione di minorità. Dafne, infatti, capisce che dovrà intervenire per uscire dall’angolo di impotenza in cui sono costretti. Non lo dice mai, evitando scene madri, ma la realizzazione è chiara: in questa svolta narrativa sta la maggiore attestazione di normalità nei suoi confronti, perché diventa non più una ragazza con sindrome di Down ma una figlia che aiuta il padre, come tutte. Dafne e Luigi iniziano un viaggio, un road movie a funzione catartica che lasciamo alla visione: sembra un’avventura pastorale, per tornare al mito, e un percorso sullo sfondo arcadico della campagna toscana. Obiettivo perdersi per ritrovarsi.

C’era una serie di rischi evidenti nel girare Dafne, quelli che sempre si applicano al cinema con e sulla disabilità: da una parte la possibile strumentalizzazione del tema, dall’altra il rischio pietismo e quindi di retorica. Il regista li aggira con alcune trovate limpide ma efficaci: tra tutte il carattere di Dafne, esplicita e vulcanica, dunque simpatica, e non certo per un’empatia estorta dalla sua condizione ma per un semplice dato di fatto. Lei è così. Dice sempre quello che pensa e sabota una regola implicita della formalità narrativa: quando il padre è triste lei lo specifica, quando fa qualcosa che non le piace lo sottolinea, va quasi a tematizzare i suoi difetti - e implicitamente gli ostacoli da superare per creare una nuova famiglia a due. La sua onestà è disarmante. È anche una questione di sguardo: Federico Bondi vuole metterci nei panni dell’altro e portarci a vedere con i suoi occhi. E cosa c’è di più lontano di una Dafne dalla supposta “normalità”? D’altronde il regista ha lo slittamento di prospettiva nelle vene, basti pensare a Mar Nero del 2008: storia di Angela, badante rumena che arriva in Italia e deve occuparsi di Gemma, un’anziana che non può camminare. Ecco ancora l’alterità e la disabilità che si intrecciano, in quel caso c’era una migrante, ed ecco un’altra parabola che parte dal diverso e arriva al normale, traiettoria prediletta dell’autore.

Bondi accompagna il racconto con una regia piana, che cammina su una linea sottile evitando le trappole: una storia che coincide con la sua protagonista, Dafne/Carolina quasi sempre in campo, in una sovrimpressione tra racconto e personaggio che può essere un limite ma in fondo si rivela funzionale al compiersi del percorso. Tra l’altro, malgrado le poche linee di sceneggiatura ricevute, Raspanti non si limita a riversare se stessa sullo schermo bensì interpreta una parte, come spiegato nell’incontro col pubblico a Berlino: la sua è una vera prova d’attore, convincente, che dimostra come le persone affette dalla sindrome possano recitare. Dafne è quindi un prezioso “disturbo” alle convenzioni del cinema italiano, un piccolo e coraggioso film che si chiude in un potente finale sentimentale.

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Federico Bondi Carolina Raspanti Antonio Piovanelli Stefania Casini 94 minuti
Italia
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Aperti al pubblico

di Arianna Pagliara
Aperti al pubblico di Silvia Bellotti

Ci sono situazioni ordinarie e quotidiane che, se osservate con la giusta sensibilità di sguardo e il dovuto distacco, rivelano all’improvviso tutto il loro portato di eccezionalità e la loro densità di significato: perché si fanno esempio e conferma di realtà e dinamiche che le trascendono o perché nelle loro molteplici stratificazioni rivelano i sedimenti di un vissuto che è culturale, sociale, storico. In alcuni casi, congiunture peculiari e tuttavia non insolite fanno irrompere senza difficoltà il surreale nel reale: come quando si scontrano le cavillosità e i paradossi della burocrazia con l’impazienza di chi, dall’altro lato, vive sulla propria pelle urgenze e difficoltà di ogni tipo.

È esattamente questo che accade quando l’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli, che gestisce circa quarantamila alloggi tra la città e la provincia, è aperto al pubblico. La regista Silvia Bellotti, con sguardo discreto ma attento ad ogni dettaglio, ci guida nelle stanze sature di scartoffie impolverate e osserva silenziosamente ciò che succede da un lato e dall’altro delle tante scrivanie. La presenza registica è invisibile, e tutti – impiegati annoiati o volenterosi, utenti confusi o esasperati - mantengono quella preziosa naturalezza che per forza di cose è il punto di forza di un’operazione cinematografica come questa. Che non è di accusa o denuncia, perché Aperti al pubblico vuole essere essenzialmente un cinema fenomenologico, la testimonianza di una complessa realtà in atto offerta allo spettatore nuda e cruda.

Quel che vediamo corrisponde in buona parte all’immaginario ampiamente diffuso che vede nella burocrazia un meccanismo farraginoso fino all’inverosimile, tanto da spalancare scenari – è il caso di dire – assolutamente kafkiani. Se a questo si somma la proverbiale teatralità dello spirito partenopeo – tassello fondamentale nell’economia del film – ecco che la quotidianità raccontata dalla Bellotti è già, autonomamente e imprescindibilmente, cinema.

C’è la signora di mezza età che ha perso il marito, per la quale – suo malgrado - la scrivania dell’impiegata che tratta il suo caso diventa quasi un confessionale: tra una pratica e l’altra si parla d’amore, morte, egoismo, genitorialità. C’è l’anziana che subisce un’ingiustizia ma tace più di quel che rivela, lasciando allo sconfortato operatore di turno il compito ingrato di ricomporre un complicatissimo puzzle. E ancora c’è la donna che per sua fortuna un posto dove abitare ce l’ha ma a causa di un cavillo burocratico “non risulta da nessuna parte”; quella che all’improvviso vuole pagare “tutto” perché il coniuge defunto “non pagava niente”; quella che supplica disperata di poter sapere “se ci sono i documenti” ma non ha la necessaria delega della cognata, perché quest’ultima “abita ad Afragola, mica dietro l’angolo”. Documenti che vanno e vengono, documenti per i quali serve un altro documento che si deve richiedere in un altro ufficio, in un altro giorno, in un altro orario: ma nel frattempo il tempo passa e chi ha la casa che cade a pezzi e i figli malati, come accade a una signora indiana sorprendentemente paziente, non può far altro che sperare e attendere. Del resto c’è addirittura chi “aspetta da trentasei anni”, ribadisce un’altra donna quasi con orgoglio.

Quello raccontato in Aperti al pubblico - vincitore del premio del pubblico al Festival dei Popoli - è un mondo disperatamente immobile dove, nonostante molta buona volontà e disponibilità, il tempo delle vite “degli altri” vale veramente poco. Ma è anche un mondo dove, malgrado le inevitabili tensioni e i numerosi battibecchi, si incontrano comprensione e  solidarietà, cosa che oggi, in un questa fase di indifferenza e cinismo, quasi commuove. Nel bene e nel male, l’asciutto ed essenziale documentario della Bellotti riesce efficacemente a raccontare tanto alcuni aspetti del nostro presente, tanto la storia (umana prima che socioculturale) che li sottende e che li determina. Ne viene fuori, come è lecito aspettarsi, un’Italia alla deriva dove però, sebbene la società riesca a stento a tutelare il singolo perfino per quelli che sono i bisogni basilari e fondamentali (il diritto a un’abitazione per chi è indigente, appunto) miracolosamente non vengono meno la forza di volontà, la capacità di reazione, l’ironia e l’empatia.

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Silvia Bellotti 60'
Italia, 2017
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American Crime Story - L'assassinio di Gianni Versace

di Antonia Caruso
american crime story versace recensione

Il 15 luglio del 1997 il giovane omicida Andrew Cunanan uccide a Miami con due colpi di pistola Gianni Versace (e insieme allo stilista anche un colombo bianco che era lì per caso, fosse o meno uno stagionato simbolo di innocenza). La seconda stagione di American Crime Story inizia così. Non poteva essere altrimenti; dato che il sottotitolo è The Assassination of Gianni Versace non si aspetta molto perché si veda il viso di Versace martoriato dai proiettili accanto a un colombo sul tavolo dell’autopsia.

Ryan Murphy ridimensiona ma non elimina il melodramma, una delle sue cifre come autore e showrunner, e lo unisce a importanti dosi di gore. Il fondale – tutt'altro che bidimensionale, quasi un coprotagonista – è la scena gay (gay come maschio cis, tendenzialmente bianco) degli anni ‘90. Non certo una comunità perché di comunità c’è poco, ma semplicemente tante persone sole o in piccoli gruppi che cercano di sopravvivere alla meno peggio, chi con molti, molti soldi (quelli più anziani), chi con niente (quelli più giovani).
Una parte di melodramma era sicuramente necessaria, non tanto per adempiere alla consueta auto/rappresentazione gay (l’elemento operistico – almeno questa volta non c’è la Callas – la discoteca, le marchette) ma soprattutto perché erano i tempi di quel meccanismo perverso del Don’t Ask Don’t Tell in vigore nell’esercito americano nel 1994, due anni prima che Jeff Trail lasciasse l’esercito. L’ovvio oggetto del non-detto era l’omosessualità, soprattutto se associata al fantasma rappresentato dall’onda mortifera di HIV e AIDS, che si aggiungevano a un'omofobia diffusa (anche se a dire il vero non c’è mai stata un’epoca, un decennio, un anno, un mese, in cui la popolazione gay e LBTQI se la sia passata tanto bene, per un motivo o per l’altro). L’inadeguatezza della polizia – sia come dispositivo di controllo e sicurezza che come custode della società eteronormata (cioè in cui la norma morale è quella dell’individuo eterosessuale) – nell’affrontare la relazione tra Versace e il suo compagno viene illustrata con precisione già nella prima puntata, soprattutto nell'incapacità di concepire una relazione sessualmente aperta o qualsiasi tipo di relazione non aderente al modello etero-nucleare.

Da qualche anno Murphy sta contribuendo a una narrativa visuale della popolazione LGBT+ statunitense, non una storia politica del movimento come il quasi contemporaneo When We Rise che ha nel team produttivo Gus Van Sant, ma qualcosa a metà tra il senso di comunità, prima nascosta – closeted – poi davvero out dopo i moti di Stonewall del 1969 e le storie private. Con la seconda stagione di American Crime Story, Murphy prosegue un discorso già iniziato con The Normal Heart (film per la TV a tema HIV/AIDS) e il recentissimo Pose (serie sulla scena del voguing e delle sfide nelle ballroom nella New York di fine ‘80) e lo fa a partire dal posizionamento privilegiato di un maschio gay pienamente inserito nello showbiz.
Al centro della serie ci sono Gianni Versace e Andrew Cunanan ritratti come delle drama queen di primo livello, uno creativo, l’altro letale, mentre l’epopea della famiglia Versace – interpretata inspiegabilmente da ispanofoni con grandi erre e grandi esse (Edgar Ramìrez, Penelope Cruz e Ricky Martin, più l’italiano Giovanni Cirfiera nel ruolo di Santo Versace che però non parla mai) – caratterizzata dai dissidi stilistici tra Gianni e Donatella viene messa in secondo piano, jet-set e supermodel incluse. Prima ancora che per Gianni, la scena è tutta per Cunanan (interpretato da Darren Criss), che se fosse ancora vivo sarebbe sicuramente molto felice di avere una serie simile tutta su di sé. Del resto era un narcisista manipolatore, che nella serie si descrive agli altri e agisce in modo continuamente contraddittorio. Ad esempio dice di essere uno scrittore, di essere figlio di un ricco filippino possidente di piantagioni di ananas, e di una donna italoamericana, ma solo alcune di queste cose vengono confermate. La regia gioca molto sullo scarto tra quello che Cunanan dice e quello che ci viene mostrato, portando spettatori e spettatrici a dubitare costantemente dell'uno e dell'altro, aggiungendo un livello di sfiducia ulteriore alla figura del protagonista ma senza mai condannare ulteriormente l'essere assassino. Questa stagione di ACS rimane in quegli stessi anni ‘90 in cui era ambientata la precedente ma si stacca quindi dal dramma procedurale e dalle riflessioni su potere, razzismo e media che vedevano protagonista O.J. Simpson e avvocati, per concentrarsi sulla genesi della mania omicida del giovane Cunanan senza perdere una visione più ampia o scivolare nel pedagogico.

Cunanan non ha il fascino esotico e morboso dei serial killer (vedi alla voce Ted Bundy as a Sex Symbol) perché serial killer non era. Uccideva quasi a caso, per ripicca, probabilmente mosso dalla frustrazione infantile di non essere più un golden boy semi-onnipotente vezzeggiato da un padre truffatore quanto omofobo e non meno narcisista del figlio. La ricostruzione a ritroso ci mostra un Cunanan fragile e desideroso d’affetto e di conferme, ma anche un uomo che uccide a sangue freddo e con un certo sadismo quattro persone prima di Versace. Il ritratto di un personaggio estremamente complesso, pieno di contraddizioni, che fa convivere fascino e generosità, una grande cultura ma anche una tendenza alla manipolazione del prossimo. Il protagonista di The Assassination of Gianni Versace è anche un personaggio fastidioso e spesso antipatico, con cui è molto difficile empatizzare, perché privo del carisma di altri anti-eroi negativi come Walter White.

Lo storytelling al contrario di Murphy arriva, seppur un po' troppo lentamente (due ore in meno non avrebbero guastato), fino all’infanzia del protagonista, grazie a un penultimo episodio che suggerisce una spiegazione non esplicitamente psicanalitica, ma che vede Cunanan tutt'altro che nei panni del carnefice; non c'è dubbio che questi sia stato una vittima della sua storia, del contesto in cui ha agito e ovviamente di se stesso.
The Assassination of Gianni Versace è un ibrido ben realizzato, che riesce ad essere in parte crime, in parte melodramma, in parte monografia su una personalità ancora misteriosa e quindi facilmente spettacolarizzabile.

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1 stagione da 9 puntate
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