Absentia

di Leonardo Strano
Absentia recensione film flanagan

La cosa che più colpisce di Absentia, esordio nel lungo cinematografico di Mike Flanagan, è il punto di vista adottato dal regista per raccontare questa storia di elaborazione del lutto. L’angolo prospettico riguardo al problema della morte e all’influenza del dolore sui vivi è infatti la nota particolare di questa produzione horror low budget (finanziata da un crowdfunding su Kickstarter), la qualità che permette al film di sostenersi malgrado un impianto scenico davvero povero e un comparto attoriale dilettantistico. Flanagan ragiona sul tema attraverso una storia di sofferenza ammortizzata nel quotidiano: la vita di Tricia a sette anni dalla scomparsa di suo marito Daniel, morto presunto, è infatti il centro narrativo di una tragedia di quartiere imperniata su un tunnel oscuro e su presenze altrettanto terrorizzanti, attraverso cui il regista compone una inusuale radiografia sui viventi, interessata all’esame delle psicologie di individui distrutti dalla perdita e perseguitati da un male inspiegabile.

Il regista cerca di rappresentare uno stato emotivo preciso e allo stesso tempo indefinito. Il suo non è solo un elogio commosso alla forza resiliente degli amabili resti che sopravvivono a una disgrazia, ma anche una riflessione sui confini che delimitano vita e morte, una disamina genuina sullo stato mentale di chi, nella cornice ambientale di una periferia violenta travestita da quartiere normale, è imprigionato in una continua cortina di buio in cui la sovrapposizione di realtà e sovrannaturale è legge metafisica ed emotiva, oltre che costrizione inspiegabile e inarrestabile. Absentia infatti usa gli stilemi dell’horror – legati alla rappresentazione di una realtà sempre extra umana – per infondere alla riflessione sull’umano una risonanza che cerca di trascendere l’osservazione delle dinamiche relazionali tra persone per raggiungere un asse espressivo più sottile, più vicino a una frequenza capace di toccare una zona intrinseca dell’emotività fatta di punti fragili e carne viva.

Così il film risulta valido grazie all’intelligenza di una scrittura capace di ragionare sulla natura incomprensibile del lutto attraverso la lente della narrazione di genere. La paura che si prova durante la visione non muove dalle calcolate sorprese, orrende e terribili, ma da uno stato di tensione emozionale continuo che obnubila e inghiotte i personaggi, suggerendo l’inesistenza di un lieto fine, di una speranza che non sia menzogna, di una vita che non sia continuo rassegnarsi al dolore e all’andare avanti dimenticando, cancellando, formando un grande rimosso capace di rivelarsi prima fantasma sovrimpresso nella realtà e poi rigurgito abnorme e incontrollato. Quando una soluzione narrativa suggerisce poi la permeabilità dello schermo questa tensione interna si riversa al di là della narrazione e il controcampo finale dilata l’estensione del messaggio sconfortante, opaco e senza soluzione fino alle variabili esperienziali dello spettatore. Inizio di un’interessante carriera.

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Mike Flanagan Katie Parker Courtney Bell Dave Levine Doug Jones Justin Gordon 91 minuti
USA 2011
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In questo mondo

di Riccardo Bellini
In questo mondo, Anna Kauber

La pastorizia è sempre stata considerata un’attività per soli uomini. Eppure, paradossalmente, proprio il lavoro del pastore, nell’inestricabile rapporto con la Terra e le sue creature, nell’idea stessa di sacrificio che esso implica, invoca e presuppone una sensibilità del tutto femminea. Del resto, la stessa Anna Kauber, regista di In questo mondo, afferma che «la donna è madre anche senza esserlo». Finanziato attraverso una campagna di crowfunding e vincitore al 36° Torino Film Festival nella sezione Italiana doc., il documentario della regista e paesaggista parmigiana è un’indagine unica e irripetibile sull’attuale condizione delle pastore in tutta Italia e insieme un vivido omaggio all’universo femminile, alle sue meraviglie e alla sua resistenza in una società ancora sorretta da fondamenta maschiliste.

Con un viaggio di diciassettemila chilometri in due anni, dalle Alpi all’Aspromonte, passando anche per Sicilia e Sardegna, e un centinaio di interviste effettuate a donne dai venti ai centodue anni di età per ore e ore di girato (il montaggio è di Esmeralda Calabria), Kauber ha raccolto pazientemente e con amore una mole di materiale degna di un’epica. Eppure l’impresa della regista si tiene diametralmente distante dalla magniloquenza di una mitizzazione fin troppo scontata. Fin dalla scelta del titolo, una rivendicazione di materialità, di attaccamento alla terra e a tutto ciò che essa ha da offrire, Kauber dimostra di volersi tenere ancorata a una concreto senso del reale e della contingenza, mettendo in primo piano i racconti e la lucidità di donne coriacee, temprate dalla vita e sospinte dalla propria vocazione alla pastorizia. Donne che vogliono essere considerate tutto tranne che donne eccezionali, per quanto sia indubbiamente ostico il loro mestiere. Dunque, una rivendicazione di legittimità per una minoranza da sempre osteggiata: orgogliose donne pastori in un’Italia, questa nostra Italia, dove la pastorizia va preservata come risorsa ecologica fondamentale.

In una babele di dialetti e accenti queste donne di diversa età ed esperienze raccontano le proprie vite, tra gioie e sacrifici. C’è per esempio Efisia, che ama talmente tanto le proprie pecore da anteporre la loro salute alla propria; Caterina, la pastora musicista, che ha scelto di non continuare la carriera musicale per dedicarsi alla pastorizia e ora allieta il proprio gregge suonando il violino durante il pascolo; o ancora Gabriella, la quale ha preferito a un matrimonio con un uomo benestante una vita costantemente a contatto con i suoi animali da accudire. Storie, volti, geografie differenti ma tutti accomunati dalla medesima passione, dalla medesima scelta perseguita con naturalezza da donne incessantemente sospinte e richiamate verso la terra da forze ataviche, nonostante l’ottusa ostilità - tutt’ora presente - di chi continua a considerare la pastorizia una questione maschile. Una comunione totale, dunque, quella di queste pastore con la natura e i suoi elementi, per cui, per alcune di esse, consumare la carne dei loro stessi ovini acquisisce una rilevanza quasi spirituale («il più grande dono che possano farci»).

In questo mondo raggiunge un’intensità e un valore testimoniale preziosissimi, tanto più considerata la labilità dell’universo catturato, lavorando con la semplicità e la discrezione di uno sguardo paziente e capace nella sua onesta attenzione al dato materiale di lasciar parlare la natura e i suoi processi. Più che dischiudere lo sguardo verso un mondo altro, l’autrice riesce bensì ad illuminare questa medesima realtà di una luce differente, più calda, più materna, più amorevole e forse, proprio per questo, più produttiva. Con il suo documentario, Kauber rivolge dunque un invito che supera la portata delle singole storie raccontate. Un invito a considerare l’amore come fondamento per una società non solo più giusta e sana ma anche più efficiente.

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Anna Kauber 97 minuti
Italia, 2018
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Il Corriere - The Mule

di Samuele Sestieri
ILCORRIERE

Di fronte alle immagini essenziali di Il corriere - The Mule si prova un certo sentimento crepuscolare. Si guarda indietro verso i western, l'immaginario dell'America che fu, il profondo senso etico del più politico dei cineasti americani in attività. Clint Eastwood, il grande vecchio che non cade mai, quello che apre il suo cinema alle derive sperimentali e incomprese di Ore 15.17 - Attacco al treno e poi torna a recitare a quasi novant'anni. 


In fondo i suoi personaggi continuano a rispondere ossessivamente a una domanda: cosa fa di noi un essere umano? Qual è la scintilla che ci rende uomini? Tutta la sua filmografia insegue la medesima risposta: la possibilità di scegliere al di fuori di qualsiasi assetto costituito, assumendosi tutte le responsabilità che comporta l'azione. Essere il proprio destino per un preciso, necessario senso etico, senza mezzi termini o mediazioni. Quella di Clint è probabilmente l'ultima vera figura anarchica dell'immaginario americano, che promuove lo spirito di un cinema autenticamente conflittuale, selvaggio e mai risolutivo: in un mondo dove l'atto è l'origine e l'eclissi di ogni cosa, Clint si assume il peso dell'azione. Imbocca una nuova via, modifica il senso di marcia. In quel momento sospeso si risveglia l'idea fissa che, assopita, abita i suoi eroi. La dimensione che viene a crearsi è quella del tempo che resta, protratto non davanti ma dentro i personaggi, verso la loro identità più profonda.  


Parla proprio di questo Il corriere: Earl Stone per tutta la vita ha anteposto il lavoro agli affetti. Pessimo marito, pessimo padre, individualista convinto che ha lasciato la famiglia scivolare via. Col peso degli anni e senza più lavoro, non rimangono che i rimpianti che diventano giorno dopo giorno fardelli insostenibili. La casa pignorata, le delusioni e i rancori, resta solo quel vecchio, inseparabile furgone, unico compagno di viaggio e di mille avventure. Guidare e lasciarsi andare, percorrendo le strade americane alla ricerca di una continuità che riunisca una costellazione di frammenti (in fondo Una storia vera di David Lynch faceva la stessa cosa).

Il dolore appannato dalla strada, la leggerezza di una canzone di Dean Martin, l'orizzonte sempre a-venire: il viaggio delinea un'altra velocità, un altro modo di stare al mondo. Senza troppi indugi, Earl accetta la proposta di un giovane messicano e diventa il corriere per un cartello della droga. Con i soldi guadagnati tenta di ricostruire il mondo perduto che lo circonda: paga il matrimonio della nipote, salva il circolo di reduci cui apparteneva, tenta in tutti i modi di riacquistare il tempo, di guarirlo, consapevole di non poter cancellare le colpe o silenziare i rimorsi. Ma si può ricominciare, anche a ottant'anni suonati: a patto di seguire velocità diverse dalla realtà circostante, di prendersi i propri tempi, strade e geografie (che restituiscano un senso di coesione, di identificazione con la terra cui si appartiene); di interrompere una consegna per aiutare una coppia con la macchina ferma sul ciglio della strada, di spassarsela con un paio di ragazze in un motel, di vivere al proprio ritmo come ai tempi delle ballate dei cowboy solitari.  

Clint allestisce una straziante opera di rimpianti e parole mai dette con quel tocco di miracolosa leggerezza che appartiene solo ai grandi maestri. C'è lo humour scanzonato e politicamente scorretto dove il grande vecchio, sfacciato e un po' piacione, osserva un mondo che va troppo in fretta. Se la prende con la rete ("Internet? A chi serve?"), fatica a utilizzare un cellulare ma almeno sa come cambiare una ruota. Spudorato, si rifugia nell'esperienza alimentando quel sesto senso che gli salva la vita. Il volto ruvido di chi non ha più nulla da perdere - se non l'amore della sua vita che l'orgoglio, l'arrivismo e la vanagloria hanno oscurato. La sequenza finale con la moglie è una di quelle cose che mettono i brividi solo a pensarci.


Se un mese fa, Old Man & The Gun segnava l'addio alle scene dell'altro grande vecchio, Robert Redford, con un film gentile e pulito che era un preciso omaggio alla stella, Il corriere è un'opera selvaggia alla Clint, che non conosce fine ma può solo continuare. I parenti più stretti, in questo senso, sono Gran Torino e Million Dollar Baby. Se l'intero universo muore intorno a lui, Clint non smette di viaggiare. Sa bene che il mondo non è un paese per vecchi ma lui imperterrito coltiva il suo orto - che sia nel giardino di una casa o di una prigione non fa differenza. Del resto ama i fiori che durano un solo giorno, riconosce la bellezza in tutto ciò che muore. 
A inseguirlo il poliziotto Bradley Cooper, alter-ego, doppio del protagonista, come nella migliore tradizione guardia e ladri. La sequenza al bar che li vede entrambi in scena è la sintesi perfetta della morale eastwoodiana: l'icona, tenacemente attaccata alla vita, nell'altro riconosce se stesso. Sembra quasi la scena di un western (ma cosa, nel cinema di Eastwood, non lo è?). Non importa da che parte stia, l'importante è che abbia impressa negli occhi la medesima immagine, lo stesso mirabolante sogno - quella del mondo perfetto da proteggere da tutte le insidie e i falsi dei.

Quella per cui vale la pena perfino un po' morire...almeno fino alla prossima cavalcata.
 

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Clint Eastwood Clint Eastwood Bradley Cooper Laurence Fishburne Dianne Wiest 116 minuti
USA 2018
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Gli amanti del Pont-Neuf

di Fiaba Di Martino
GLIAMANTIDELPONTNEUF

Gli amanti del Pont-Neuf è forse il film d'amore più bello della Storia (del cinema, dell'audiovisivo, e probabilmente oltre; della vita), e il cinema caraxiano - con le sue permutazioni visive, le sue lanterne magiche sporchissime, caleidoscopiche, i suoi virtuosismi eccedenti, deliranti, la sua carica nouvelle vague, i suoi carnevali di movimento estremo e lisergico alla ricerca dell'umano – è l'ultimo cinema romantico. Romantico che più romantico non si può, che più romantico si muore - e in effetti succede, a volte. Ma non qui. Gli amanti del Pont-Neuf è una fiaba. Che sembra voler raccogliere in sé i primordi, le immagini archetipiche e fondative del racconto amoroso su pellicola, essere primo e unico, e al tempo stesso riunire organicamente le suggestioni che lo hanno preceduto (e quelle che verranno...); un unicum contraddittorio, ipercinetico/cinefilo, con un sapore di incontaminato, come un primo amore che è anche fou. Che è pieno di grazia, di promesse e innocenza, e che è totalizzante, assolutista, tiranno, matto. Puro e (mai) semplice.
Una fiaba dunque, e come tutte le fiabe una storia d'amore: boy meets girl, boy loves girl, e viceversa. C'è un principe, che è più che altro un garzone, un Cenerentolo, con il volto incredibile dell'alter ego Denis Lavant, folletto vagabondo, principe di tutti i colori che si desiderino, Lavant e il suo corpo-mondo, feticcio inesauribile. C'è una principessa, una fata; una piratessa con benda d'ordinanza sull'occhio guasto; Juliette Binoche, musa, dea, Prima Donna sempre. Boy e Girl, poveracci degradati ai confini della terra sociale, della normativa civile, della polis. Si vengono incontro subito, dopo una manciata di inquadrature, e si stringono in un Eden decaduto, brutto sporco e buono, buonissimo, come loro, Adamo ed Eva bambini, accattoni dentro una poesia. In ogni fiaba c'è la magia, e c'è l'amore, e per Carax non vi è separazione concepibile fra loro; l'amore qui è magia più che in qualsiasi rilascio industriale disneyano o hollywoodiano, ed è un superpotere. Carax fa film d'amore e di supereroi, supereroi innamorati e bambini, che si amano davvero, punto, in un breve incontro (ripetuto) fra il loro mondo isolato e quello che c'è fuori, che lo graffia ma non lo sforma mai. I dispositivi di videosorveglianza, controllo e vergogna in prigione, le umiliazioni, le botte in polizia, lo Stato fantasma che li raccoglie come bestiame inutile, come rifiuti, le famiglie invisibili, imperative, mostruose; eppure nulla della realtà sempre incombente li scalfisce, Alex e Michèle - né Carax perde l'equilibrio, il baricentro della fiaba. Quel che c'è basta a se stesso, e mai si inquina di programmaticità sensazionalistiche o virtuosistiche. Niente esiste ed è davvero fatale, per i nostri eroi, all’infuori del mondo che loro vedono. Per questo nulla li schiaccia, li vince, ed essi tutto possono: piegare il tempo e lo spazio, renderli compatibili con la loro interiorità, con la loro gioia; tutto diventa eterno paesaggio sentimentale, senza limiti (anche formali), florido di sogno - che scaturisce da qualsiasi stimolo: finché potremo danzare sull'eco dei fuochi artificiali, tutto andrà bene.
Poi, come ogni fiaba, c'è un aiutante, un guardiano, un compagno d'arme e di sventura, saggio e anziano; un custode di luoghi e un protettore di anime. «Tu devi vivere», dice egli ad Alex. «L'amore non sta qui», fiorisce da un'altra parte, si costruisce altrove. Infatti Alex e Michèle, come tutti gli eroi, si ribellano a una legge. Fanno nascere l'amore illegittimamente, in una zona purgatoriale, in un confino dimenticato. L'immaginario romantico caraxiano riporta l'amare a una dimensione di lotta (inconsapevole) contro il sistema cieco e punitivo, a una pulsione eroica; chi ama è un ribelle, un disgraziato, e viceversa, di nuovo, solo i miserabili e i bambini amano così. Correndo e urlando, tenendosi per mano e per il sesso, chiamandosi col proprio nome e gioendone, buttandosi per strada, fra le macchine e la neve. «Questo genere di certezza si prova una sola volta nella vita» diceva Clint chino su altri ponti. E l'esperienza dell'amore raccontato così, vis(su)to così, l'amore che ti arriva addosso e dentro infantile e feroce, con un'autoevidenza sfrenata, tenera e selvaggia, dice ancora e sempre di un cineasta impavidamente onesto, inesorabilmente lirico e turbolento nell'accarezzare parabole di miseria, nel ricoprirle di incantamento e di un cocciuto desiderio di lieto fine, pure con la tragedia che respira dietro a ogni fotogramma, nascosta fuori campo - Alex che fa le capriole sul bordo del ponte, i clacson, la pistola, i ricordi epilettici. Ma i nostri eroi, come detto, quella tragedia non la guardano mai. Si divincolano dalla verosimiglianza; credono e basta, nella bellezza del gesto d'amore, nella sua superpotenza. E per questo le prove da superare, i nemici da sconfiggere, con il fuoco, con l'attesa dietro le sbarre, gli anni che si accavallano, si superano con un battito di ciglia, un cambio d'inquadratura; tutto può accadere, e l'amore ritorna come premio finale, trionfa mentre Alex e Michèle cambiano di prospettiva, abbandonano il ponte, ne creano uno nuovo fra di loro, si perdonano sott'acqua, omaggiano L'Atalante e profetizzano Titanic, ultimo uomo e ultima donna sulla Terra e nei film. 
«Si ha solo una vita», un amore, un cinema che li abbracci tutti. Eccolo. Capace di creare ponti a sua volta, e che non può (non vuole) insegnare a dimenticare, ma a sognare sì. E Gli amanti del Pont-Neuf, finito a essere operazione autodistruttiva e maledetta per Leos, è un sogno lungo un giorno e una storia infinita, un film che guarisce da una malattia della vista, e forse sta tutto qui il cinema di Carax, il suo motore sacro: nel cercare di aggiustare i propri occhi, per vedere una casa in un ponte rotto, la donna della propria vita in una pezzente tutta storta. Andare dentro, andare dietro i paraventi, i veli, smettere i propri filtri, immergere lo sguardo in un'alterità, trovarne la magia, la favola. L'etica, il senso. L’immagine vera, eroica. Tornare a vedere, perché si è imparato ad amare.
 

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Leos Carax Juliette Binoche Denis Lavant 120 minuti
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Il primo re

di Arianna Pagliara
Il primo re di Matteo Rovere

Tra l’esigenza di coinvolgere un pubblico ampio attraverso un linguaggio che sia anzitutto corporeo e istintuale e quella di esprimere la propria visione autoriale svincolandosi da prevedibili aspettative imposte da un soggetto tanto eloquente (la leggenda, il mito di fondazione) sta il nodo che è al centro dell’operazione complessa e faticosa, ma coraggiosa e avvincente, dell’ultimo film di Matteo Rovere. Film che muove, insomma, da presupposti che vivono un equilibrio assai precario e si impernia dunque su una sfida di non facile risoluzione. Per audacia e radicalità si oscilla qui tra l’indimenticabile Valhalla Rising (più astratto, onirico e introspettivo), l’estenuante e disperato Revenant e – per certi aspetti - il crudele e spettacolare Apocalypto. Ma sono input e suggestioni, quelle offerte dai film citati, che Il primo re assorbe e rimescola abilmente in un riuscito amalgama assolutamente nostrano.

L’epica, la leggenda, gli eroismi vengono – a un primo livello - rigettati per lasciare il posto al racconto della quotidiana lotta per la sopravvivenza dei protagonisti, che si muovono in un mondo inospitale e selvaggio dove gli Dei sono presenza minacciosa e incombente, il fuoco si teme e si adora, la spiritualità è angosciosa superstizione e le foreste sono infestate da spettri oltre che popolate da tribù bellicose e spietate. Remo è un semplice pastore improvvisatosi condottiero di un manipolo di uomini rabbiosi e logorati dalla fame, assieme ai quali, attraverso boschi e paludi, fugge dai cavalieri di Alba in cerca di una terra dove fondare una nuova città.

In breve Rovere restituisce, in un racconto felicemente essenziale, un universo primitivo e feroce in cui la violenza è l’unica soluzione per la sopravvivenza e ogni relazione – uomo-natura, uomo-Dio, uomo-uomo – è inevitabilmente scontro, opposizione, lotta. Se epica ed eroismo ci sono, non sono mai il presupposto ma sempre e solo la conseguenza di un agire – quello di Remo, continuamente chiamato a mettere alla prova la propria forza fisica e morale – estremo, extra-ordinario.

Sorretto dalla presenza magnetica di Alessandro Borghi, la cui esibita fisicità è strumento espressivo/comunicativo, dall’eccezionale fotografia di Daniele Ciprì (tutta penombre, riflessi di fuoco, giochi luce che filtra tra gli alberi) e dalla scelta, indovinatissima, di far parlare i personaggi in un protolatino cupo e masticato, Il primo re è un film sfacciato e intrepido, capace di rischiare tutto e – nonostante qualche perdonabile difetto – di vincere a pieni voti. Non teme il ridicolo nell’esaltazione e nella reiterazione della violenza come (auto)affermazione vitalistica, nella celebrazione della forza virile, nella descrizione del delirio di onnipotenza di Remo, perfetta rappresentazione di quella hybris che spesso accompagnava le gesta degli eroi del mondo greco. E tuttavia, allo stesso tempo, non mente: perché i corpi che qui vicendevolmente si aggrediscono e si straziano non sono (per fortuna) quelli levigati e tutti identici degli spartani di 300, ma sono corpi imperfetti, sporchi, spossati. E il Lazio non è più il territorio ameno e bucolico di un immaginario ampiamente diffuso, ma uno spazio sconosciuto e ostile, fatto di acquitrini insidiosi e foreste fitte e nebbiose, così come il (proto)latino non è ancora la lingua del nomos – la legge - ma piuttosto quella della physis, una natura arcaica e astorica che l’uomo non ha ancora, neppure lontanamente, assoggettato.

E’ innegabile, insomma, che al netto di qualche assolvibile squilibrio narrativo (la tensione si perde nella seconda parte, complice forse una sceneggiatura “già scritta” dal mito) l’ultimo film di Rovere risplenda per ambizione, forza e limpidezza.

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Matteo Rovere Alessandro Borghi Alessio Lapice Tania Garribba 127 minuti
Italia, Belgio 2019
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Glass

di Domenico Saracino
 Glass - Recensione film Shyamalan

Non poteva che chiudersi così, questa iperteorica, metalinguistica trilogia su quel grande, emblematico, contenitore di archetipi, mitologemi, che è il fumetto, avviata da M. Night Shyamalan nel 2000 con Unbreakable e proseguita poi, di recente, con Split. E cioè con un’opera finale che porta bene impresso il (sopran)nome del coniatore, del creatore. Quello figurato, mise en abyme, del signor Glass (e non certo quello in carne ed ossa, dall’altra parte dello specchio). Perché senza Elijah Price, l’uomo dalle ossa di vetro, destrutturate dalla osteogenesi imperfetta, non ci sarebbe stata trilogia alcuna, giacché a mancare sarebbe stata la dialettica stessa, il dibattersi delle forze: l’eroe ricalcitrante David Dunn (Bruce Willis) e la Bestia antagonista dalle multiple personalità (James McAvoy, ancora più ineffabile, nella sua abilità mutante, in quest’ultimo capitolo).
Mr. Glass è sempre stato il centro di tutto, punto di partenza e d’arrivo, colui che ha originato, innescato, messo in scena; il grande manovratore dalle ossa rotte ma dalla mente galoppante, ché all'immaginatore (e all’immaginario) non servono gambe muscolose ma occhi spalancati, fulminanti, che percorrono e sondano, vaporosi come fantasmi, la realtà. Facendola propria, fantasmagorizzandola appunto, trasfigurandola nel pensiero e nell’immagine con spirito infiammato di desiderio (ecco perché nessuno meglio di Samuel L. Jackson, con quei suoi sguardi folgoranti, avrebbe potuto interpretare l’uomo di vetro).

Glass è il regista, lo scopritore e il demiurgo, colui che plasma, attivamente, le storie, le scova nel reale a costo di fargli violenza, al prezzo di sacrifici inenarrabili, a rischio di perdere la propria umanità per l'unico, grande scopo di ridare all'uomo la cosa più importante di tutte: la fede. Che è fede nelle storie, prima di tutto. Fede nella loro capacità di dire a noi (e soprattutto alle nostre madri, proiezione dei nostri desideri più infantili, naturali e indecenti, impudici, quindi autentici, gutturali) che "no, non siamo stati un errore". Che avevamo ragione a credere. Ai fantasmi, al sogno, al mito. Che c’era davvero qualcosa di più grande ad accomunarci, preesisterci, sopravviverci. Ecco allora il fumetto come segno, codice, sistema crittografato; testimonianza, come visionariamente vagheggiato da Elijah, lasciata in eredità agli uomini per ricordar loro quanto possano essere potenti.

Le storie di Shyamalan sono sempre state metanarrazioni, storie che parlano del raccontare storie, dell’importanza che l’atto del parlare, del fabulare, riveste nella ritessitura delle nostre vite sgualcite. Storie che generano e rigenerano, feriscono e guariscono, come per Prairie Johnson e il gruppo di misfits che si riunisce per ascoltarla e aiutarla in The OA, altro esperimento, in questo caso seriale, in cui due autori di indiscussa personalità (Brit Marling e Zal Batmanglij) riflettono su quella che Arturo Mazzarella chiamerebbe la «potenza del falso». E del resto anche in Lady in the Water, film di Shyamalan del 2006, c’era un luogo, un residence, The Cove, in cui un gruppo di persone a vari livelli infrante, ignare di avere un dono, doveva fare la propria parte per salvare Story, creatura acquatica e dal nome piuttosto esplicito proveniente da un mondo altro, dimenticato. Tutti i protagonisti dei film di Shyamalan sono in fondo esseri alla deriva, che annaspano alla ricerca di senso, liquefatti dal fallimento personale e riforgiati dal racconto, dall’impulso ad articolare un processo di autocomprensione, e quindi autoguarigione, radicale.

Ciò che può rinvigorire gli eroi e ammorbidire i villain di Shyamalan non è la violenza spettacolare e redentrice, che infatti rimane fuori da tutti i film della trilogia, compreso Glass, ma la comprensione e l’accettazione pacifica della tortuosità della propria parabola esistenziale, la sensazione di avere ancora un ruolo da ricoprire sulla scena del mondo. Per sentirsi finalmente meno soli, frammentati, perduti, grazie soprattutto al recupero o alla (ri)scoperta di dinamiche famigliari, lato sensu (la centralità della famiglia nell’intera filmografia dell’autore è cosa nota). Persino una belva, allora, come la creatura che ha preso il posto di Kevin Wendell Crumb per proteggerlo dai traumi di un’infanzia straziata da terrificanti crudeltà materne, può tornare, anche soltanto per pochi istanti, al vero sé, nel tepore di un abbraccio.

Glass non è quello che qualcuno, ingenuamente, avrebbe potuto aspettarsi – sulla scia dei tanti cinecomics che proliferano nelle sale – ovvero la roboante resa dei conti fra tre creature dai poteri sovrannaturali, ma una tenzone, uno scontro tra prodotti del pensiero. Prima di essere corpi, David Dunn e l’Orda sono idee, modelli, scovati dalla mente di Elijah tra le maglie del mito, dei comics. Shyamalan porta avanti la tesi che i fumetti (e, per estensione, i media popolari) siano strumenti culturali con un compito ben più rilevante che quello di intrattenere. Ecco perché sovverte le aspettative degli spettatori che attendono di vedere lo scontro annunciato sul grattacielo («A true marvel») e invece devono accontentarsi di un combattimento non particolarmente spettacolare in un parcheggio. Svincolati dall’ossequio alle regole di genere, gli eroi possono liberare tutta la forza delle storie di cui sono portatori, per permettere a chi li eleva a guida ideale di affrancarsi dagli inquadramenti sociali, dalle dottrine, dalle coercizioni, dalle tirannie. E in quanto tali non possono che essere combattuti dal potere (la pseudoscienza della psichiatra Ellie Staple, interpretata da Sarah Paulson), che cerca in tutti i modi di normalizzarli, delegittimarli, smitizzarli.

Sta qui il messaggio politico, intriso di humanitas, di Shyamalan, che all’autoriflessione sul mezzo cinema e sull’arte popolare in generale ha sempre affiancato, come Zemeckis e Spielberg un genuino interesse per anime e spiriti (e le ultime opere di questi due immensi registi confermano, per l’ennesima volta, la loro capacità di miscelare sapientemente padronanza tecnica, istanza metalinguistica e attenzione all’elemento umano). Che in tempi di CGI sovrabbondante, SFX sfrenati e budget stellari non è mai scontato.

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M. Night Shyamalan Bruce Willis Samuel L. Jackson James McAvoy Sarah Paulson 129 minuti
USA 2019
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Dove bisogna stare

di Paolo Di Marcelli
Dove bisogna stare di Daniele Gaglianone

Che quello dei migranti sia un falso problema, in Italia, oggi, è un fatto. Almeno non il principale, dato che istruzione, lavoro e i salari tra i più bassi d’Europa rappresentano un allarme ben più significativo. C’è da fare i conti, tuttavia, col problema della percezione della realtà, travisata da una parte dell’elettorato (modesta, se rimaniamo sui risultati delle urne; preoccupante, secondo gli ultimi sondaggi) per colpa di pseudo ministri e media leghisti a caccia del capro espiatorio. E allora dagli al negro, “che se ne torni a casa che qui non c’è posto che anche qui stiamo messi malissimo”.

Dove bisogna stare tenta di fare chiarezza. Daniele Gaglianone sceglie di seguire le vite autentiche, comuni e tuttavia audaci di quattro donne coinvolte nell’assistenza ai profughi, i quali non compaiono quasi mai e quando entrano in campo si nascondono. Il lavoro, appunto, perché aiutarli è, intanto - tentando kafkianamente di rispettare la legge - una professione tra le più nobili. “Arricchente”, come afferma una delle protagoniste. Ma ci vuole anche una certa cultura, una visione del mondo cosmopolita che presupponga un’etica esemplare e la conoscenza profonda della complicata burocrazia che regola i flussi. Capiamo che però l’impiego di Jessica, Lorena, Georgia ed Elena è soprattutto una missione, perché di soldi se ne vedono pochi e la loro è più che altro un’umanissima abnegazione. Come ha affermato il regista, “la posizione dello Stato è quella, paradossale, di un assenza sempre presente”.

Presentato al festival di Torino e da poco in programmazione in pochissime sale (a Roma, in questi giorni, è all’Apollo 11), l’ultimo lavoro di Gaglianone si concentra sulle persone, piuttosto che sull’iter legislativo o sulle implicazioni sociologiche, perché sono queste a fare davvero la differenza. Se il problema dell’Italia non è l’immigrazione “clandestina” e se il fenomeno, in ogni caso, genera spesso attriti e malumori nelle collettività locali (come i bivacchi alla stazione di Como, cavalcati mediaticamente da Salvini senza dare la minima spiegazione delle cause), si evince dalle preziose testimonianze del documentario che i motivi sono da ricercare nella mancanza strutturale di una macchina organizzativa realmente capace di affrontare la questione.

L’eccessiva semplicità dei punti di vista (quattro donne, quattro generazioni, quattro provenienze e mansioni diverse) potrebbe rappresentare il grande limite del progetto, a prima vista incapace di affrontare la questione in tutta la sua complessità. In realtà, le parole, i volti, la quotidianità e le lacrime delle protagoniste arrivano più lontano di un’analisi organica ed eterogenea perché centrano in pieno il senso dell’assistenza, quello per cui esseri umani aiutano altri essere umani e tutto il resto rappresenta una sovrastruttura talvolta insufficiente. “Dove bisogna stare” è proprio lì, in quegli uffici, nei centri sociali e nelle case occupati o aprendo la propria casa a ragazzi in difficoltà ma è anche il triste imperativo prima di uno Stato e poi di un mondo alla rovescia che impedirebbe di muoversi liberamente al suo interno.

Nonostante la portata invisibile dell’operazione (che il cinema documentario in Italia non arrivi quasi mai al grande pubblico è un altro fatto), Dove bisogna stare possiede, dunque, una vocazione mainstream insospettabile proprio per la capacità di parlare alla pancia e al cuore del pubblico, evitando un discorso filmico particolarmente elaborato e lasciando invece fluire liberamente i racconti delle intervistate. Non è un caso, infatti, che i titoli di coda rivelino la collaborazione, oltre che con Medici Senza Frontiere, con Rai3-Doc3 e quindi, probabilmente, il passaggio sulla tv generalista e la successiva permanenza sui canali on demand. Ecco allora che l’estrema accessibilità dell’opera si iscrive nella precisa volontà di ristabilire la giusta percezione del fenomeno migratorio ricordando che l’aiuto umanitario si fonda soprattutto grazie a (uomini e) donne nei quali è facilissimo rispecchiarsi.
 

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Daniele Gaglianone 98'
Italia, 2018
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Rosso sangue

di Arianna Pagliara
Rosso sangue di Leos Carax

Ero un bambino stranamente silenzioso dicevano, stavo sempre in silenzio…ma non è vero, è il silenzio che sta dentro noi.

Anarchico, potente, disperato, Rosso sangue è una lezione di stile e assieme una meditazione sull’amore che qui è pulsione implosiva, che brucia la pelle, destinata ad autoannientarsi. Il protagonista Alex – ancora una volta Denis Lavant, quasi un alter ego del regista – è energia allo stato puro, che cresce, divora e distrugge. L’oggetto dei suoi sguardi, Anna – una giovanissima e incantevole Juliette Binoche, non ancora pittrice clochard sul Pont-Neuf – è una musa silenziosa, il cui volto è un paesaggio dolcissimo al quale accostare campiture di colore in forma di fazzoletti di carta stropicciata, per asciugare un pianto inarrestabile che è “come un’emofilia”. Giallo/blu/verde/rosso, mentre lui fa giochi di prestigio per ingannare il dolore di lei, che però è e resterà innamorata soltanto di Marc (Michel Piccoli).

Il plot da gangster movie fantascientifico non ha importanza, è un pretesto per raccontare una Parigi notturna e bollente – il clima impazzisce per il passaggio di una cometa – pericolosa e angosciante – una malattia mortale contagia tutti quelli che fanno l’amore senza sentimento. E’ il pretesto, ancora, per far camminare i personaggi sul filo del rasoio e metterli davanti alle proprie paure (Anna, il vuoto e il lancio con il paracadute), ai propri fantasmi (Alex, l’ombra del padre appena assassinato, il tentativo lacerante di sottrarsi a un destino già scritto) e ai propri desideri (l’amore soltanto vagheggiato tra Alex ed Anna, quello consumato e poi rinnegato tra Alex e Lise).

Tra i film di Leos Carax, spesso sovraccarichi, debordanti e perturbanti, Rosso sangue (nell’originale francese Mauvais Sang, sangue cattivo) è probabilmente il più limpido e fulminante. Se nell’episodio Merde del trittico Tokyo (ancora con Lavant) l’imperativo sarà la provocazione attraverso il disgusto, qui un Carax più giovane e forse meno disilluso sembra voler provocare attraverso la ricerca audace e disinibita della bellezza, una bellezza sempre sovversiva, ora tagliente e ora ruvida, che appartenga tanto ai modi della rappresentazione quanto all’oggetto rappresentato. La forma per la forma insomma ma, paradossalmente, senza andare a discapito dei contenuti che sono, in ultimo, universali (la volontà di autoaffermazione, l’amore e il desiderio, la seduzione del rischio, la morte). Privo di indugi nel ritmo denso e sostenuto (diversamente da quanto accadrà in Pola X e Holy Motors) Rosso sangue è autentica poesia visiva, ed è in questa sua sfacciata libertà espressiva che risiede la sua forza dirompente, che  fa di esso un eccezionale esempio di cinema oltre il cinema, oggetto luminescente e meraviglioso al cui fascino intrigante, nero e sanguigno è impossibile sottrarsi.

In questa Parigi di fine millennio già proiettata verso un futuro velenoso e ostile è molto facile morire - sui binari della metro oppure con un proiettile nella pancia - è impossibile stare fermi, perché c’è sempre qualcuno da inseguire o dal quale scappare – una ragazza sulla moto, una vecchia gangster americana, la polizia, o semplicemente la propria sorte avversa – ed è difficile non pensare all’amore - quello che tormenta Lise, strappata dal suo Eden con Alex (vedi le scene nel bosco) e rigettata in un universo metropolitano caotico e respingente, o quello che nutre il cuore di Alex di fronte ad Anna, che è in ultimo mera contemplazione estatica, tiepida traccia di speranza a illuminare le notti.

Pochi film possiedono, al pari di questo, tale immediatezza e al contempo tanta disinvoltura linguistica. Rosso sangue è intimamente notturno, con sprazzi di blu elettrico e rosso vivo a interrompere il buio (la predilezione di Carax per i colori primari è degna di un dipinto di Mondrian); primissimi piani e dettagli – occhi, mani, labbra, una sigaretta che viene accesa – sono sintagmi di un discorso che la macchina da presa isola, lentamente, uno alla volta, parcellizzando la realtà in un mosaico perfettamente calibrato, nel quale ogni frammento è un elemento autonomo che estromette il resto e tuttavia, al contempo, pungola il desiderio dello sguardo a cercare quel fuori campo tagliato. Una lacrima, un sorriso, una smorfia, poi una carrellata a inseguire la danza folle di Alex, quasi una corsa sulle note di Modern Love di David Bowie – forse una delle sequenze più avvincenti, e giustamente più note, dell’intero film.

Al suo secondo lungometraggio Carax è insomma già un maestro della geometria, del colore, del movimento, della relazione – qui spesso disgiuntiva, perché inoltre Alex è un ventriloquo – tra immagine e suono. Nel suo tormentato protagonista inscrive, a chiare lettere, l’attrazione fatale per l’abisso, la stessa che lo dominerà una volta “rinato” – stesso nome, stesso attore – nel successivo Gli amanti di Pont-Neuf.

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Leos Carax Michel Piccoli Juliette Binoche Denis Lavant Julie Delpy 116 minuti
Francia, 1986
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Boy meets girl

di Andreina Di Sanzo
BOYMEETSGIRL

Sans autre lieu que la nuit.

Alex, giovane anima perduta, vaga nella notte parigina, per i ponti della Senna osserva i baci degli amanti, con gli occhi pieni di un’inquieta illusione. Sognante alter ego di Leos Carax (al secolo Alex Christophe Dupont) e interpretato da un Denis Lavant agli albori, Alex è un aspirante regista, un cinéphile ostinato, tradito e abbandonato dal suo amore Florence.

Boy meets Girl, 1984, è il prodigioso esordio del ventiquattrenne Carax, inclinazione punk del lascito della Nouvelle Vague e votato al nero surrealismo dell’amato Georges Franju, un film che è un evidente atto di amore sullo sguardo. Alex non smette di essere spettatore: della città, dei suoi fallimenti, dell’amore impossibile con Mireille, di quella magica realtà notturna che lo trascina verso la tragedia.

Gli stacchi improvvisi, le cantilene sussurrate, il bianco e nero contrastato e le corse, quelle corse nella Parigi dei film del cuore, sono manifestazione dell’inevitabile influenza di Godard che qui diventa agitazione e caos del protagonista. Un giovane che non riesce a venire a patto con ciò che lo circonda. La notte è la sua casa e nella notte incontra Mireille, un’altra vagabonda, ormai orfana di amore che nella disperazione sceglie di ballare, sulle note di Holiday in Cambodia.

E la notte accarezza il surreale oblio dei due protagonisti: anche Mireille è stata abbandonata, due figure specchio coscienti di non poter fare altro che vagabondare in quella città-simbolo. Alex decadente e romantico, tratteggia la topografia dei luoghi memorabili del suo amore perduto. Ma l’incontro con Mireille è la presa di coscienza dell’inattuabilità dei sentimenti. Carax, assoluto nell’immaginazione, assoluto nell’espressione, cattura in una sequenza meravigliosa i dettagli dei volti che si parlano, non più personaggi ma occhi, labbra, pelle in un dialogo incessante seguito da un silenzio innaturale. I due innamorati, consapevoli della fine, viaggiano sull’autobus notturno verso ciò che già si aspettano, mentre il volto di lei incorniciato da un velo guarda al cinema di Dreyer.

Il primo film del regista e primo della trilogia a cui seguiranno Rosso Sangue e Gli amanti del Pon-Neuf, segna indelebilmente il suo percorso, quasi un tassello che anticipa il capolavoro Holy Motors, sintesi e morte del cinema. Alex come Monsieur Merde vuole perdersi per ritrovarsi, Merde nei personaggi che interpreta, Alex nella follia di quel vagabondare senza meta. Leos Carax si interroga sull’’irrealizzabile, il futuro della coppia è già scritto e forse l’unico amore possibile è quello narrato, quello delle parole che il ragazzo pronuncia quasi meccanicamente a Mireille.

Eppure, in questa totale assenza di speranza, Boy meets Girl grida allo stupore, alla magia, alla meraviglia del cinema, una carriera incendiaria che esploderà come i fuochi d’artificio nel suo film maledetto Gli amanti del Pont-Neuf. La fede nel cinema colma l’assoluta mancanza di fiducia dei protagonisti verso il mondo. Nella sequenza iniziale del film delle stelle fosforescenti sono attaccate alla parete, forse la camera di un bimbo, forse proprio quel bimbo che, con voce aliena, recita la filastrocca «Siamo qui, ancora soli. Tutto è così lento, così pesante, così triste. Presto sarò vecchio e tutto finirà, finalmente»
Una frase che sembra concludere qualcosa, una storia, un racconto, una fiaba, apre il film, come l’inizio di un sogno, forse lo stesso Alex che vive la notte allucinata della sua vita.

 

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Leos Carax Denis Lavant Mireille Perrier Carroll Brooks
Francia 1983
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Medeas

di Arianna Pagliara
Medeas di Andrea Pallaoro

Con una riflessione sul suggestivo esordio di Andrea Pallaoro, regista italiano emigrato negli States, andiamo a completare su Point Blank il dittico che costituisce, finora, la sua filmografia. Prima di realizzare Hannah, implosiva sinfonia fatta di dolore e solitudine tutta fondata sulla magnetica presenza attoriale di una eccezionale Charlotte Rampling (Coppa Volpi a Venezia 74), l’autore sceglie di confrontarsi nientemeno che con Euripide: una sfida coraggiosa e insolita per il suo debutto dietro la macchina da presa, splendidamente risolta con un’opera ammaliante e allo stesso tempo austera, dove il cinema è puro sguardo sull’interiorità lacerata dei protagonisti, raccontati – con un sentire quasi malickiano – anche nella loro profonda relazione con un paesaggio che non è sfondo ma specchio e, soprattutto, cassa di risonanza emotiva.

Prima di Pallaoro ci sono stati, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini e Lars Von Trier (quest’ultimo con un’opera televisiva poco ricordata e invece straordinaria nella sua ricerca fotografica e cromatica, per altro basata su una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer). Ma il regista italiano – invero, saggiamente – non guarda a loro: sceglie invece un contesto preciso, l’America rurale degli spazi sconfinati, della quiete (apparente) e dell’isolamento, che scandaglia a fondo con un linguaggio che è poesia sofferta nel suo attentissimo minimalismo.

In questo luogo vibrante e assieme nudo, dove tutto sembra immobile e dove tutto invece precipiterà rovinosamente a causa di inarrestabili e devastanti tensioni sotterranee, si consuma silenziosamente la tragedia euripidea, però cambiata di segno: stavolta è un marito tradito, ingabbiato nella severità e nella rudezza del suo ruolo di pater familias fuori dal tempo, che aggredisce e distrugge ciò che crede di amare. E, come Medea, lo fa per vendicare con cieca violenza il disamore inammissibile dell’altro che gli è a fianco. Ma la madre e moglie descritta con tatto e sensibilità da Pallaoro è quanto di più distante dal cinismo e dalla freddezza del Giasone euripideo: è una donna che soffre dignitosamente un isolamento penoso, causato da una sordità che gli impedisce anche di parlare. Il suo amore e la sua dolcezza materna passano unicamente attraverso il corpo e la gestualità, e con le stesse modalità si esprime e si consuma la sua relazione clandestina che è disperato tentativo di fuga ed evasione ma al contempo ostinata dimostrazione di attaccamento passionale e viscerale alla vita e al mondo (tuttavia) indifferente e svuotato che la circonda. Il corpo dell’amante diventa allora la sponda contro cui si infrangono energia e desiderio assieme al senso di insoddisfazione che sembra opprimere la protagonista, una giovane donna che non può e non vuole sublimare l’irrisolto in una maternità pur vissuta con serenità e armonia.

Ma se nel personaggio femminile, benché mutilato nelle sue possibilità di contatto e comunicazione con l’esterno, l’interiorità – che è in fondo una traiettoria amorosa, un bisogno di dare e ricevere - riesce a sgorgare in qualche modo all’esterno, questo non accade per il protagonista maschile. La sua impossibilità a uscire da se stesso, la convinzione di dover aderire a una certa immagine di sé, la distanza che si allarga sempre di più tra lui e la moglie saranno la causa - ben prima del tradimento di lei - di un disagio rabbioso e angoscioso che si tradurrà, inevitabilmente, in una volontà di azzeramento, distruzione e autodistruzione. I cinque figli, vittime sacrificali, resteranno presi nella rete di ostilità e rancori che lega fatalmente e silenziosamente i due coniugi.

Parente prossimo dell’ipnotico e struggente Stellet Licht di Carlos Reygadas – per ambientazione e tensioni drammatiche ed erotiche sempre sottaciute – Medeas di Pallaoro possiede una perfezione e una raffinatezza stilistiche stupefacenti per un esordio (composizione delle inquadrature, fotografia, montaggio), unite a una penetrante capacità di osservazione tanto del mondo dell’infanzia – vedi le lunghe sequenze dedicate ai bambini – tanto dell’universo burrascoso e abissale dei sentimenti in senso lato.

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Andrea Pallaoro 97 minuti
USA, Italia
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