Spider-Man - Un nuovo universo

di Leonardo Strano
Spider-Man - Un nuovo universo recensione film

Spider-Man è forse l'eroe più fisico della Marvel. Non è solo un personaggio che possiede un corpo alterato nei geni e potenziato nelle abilità, ma è anche quello che sviluppa tutte le evoluzioni della sua azione da superuomo flettendo il corpo nello spazio. L’Uomo Ragno è possessore del gesto semiotico del salto: che sia spinta oscillatoria nella cornice scenica di una metropoli, acrobazia circense o atto di interazione con il palco dell’aria, egli è agente di questa abilità, corpo superoistico per eccellenza. La sua storia, anche nella controparte civile di Peter Parker, è legata non a caso allo scarto della pubertà e alla scoperta dell'adolescenza, dei cambiamenti del fisico. Ogni sua origin story si basa su una parabola di crescita che sovrappone l'evoluzione del corpo alla modifica della psicologia, come convenzionalmente conviene ai racconti di formazione. È questo il primo nucleo estetico ed etico della storia di Spiderman, nucleo che questo Spider-Man - Un nuovo universo comprende, accoglie ed espande con molta più agilità e rigore interpretativo rispetto ai recenti adattamenti cinematografici.

Solo Sam Raimi, nella sua trilogia sul personaggio, era stato in grado di restituire visivamente l’importanza del gesto del supereroe, inventandosi una frustata registica che esplodesse di fronte agli spettatori - il lancio con la ragnatela tra i grattacieli che inaugura in qualche modo l’era dei cinecomic - per trasferire attraverso l'arte in movimento del cinema la potenza fisica che dai fumetti poteva essere intesa ma non completamente vissuta. Nei successivi capitoli, tra alti e bassi qualitativi, la corporeità del gesto ha ceduto il passo a molti altri elementi - dalla gommosità del digitale in cui ogni movimento è elastico che mai si strappa, alla comicità a circuito chiuso a favore di vari target - ignorando la tragicità corporea della storia identitaria di Peter. Questo film di animazione (diretto da Persichetti, Ramsey e Rothman e scritto da Lord e Miller), complesso e a un tempo semplice, ridimensiona le precedenti riduzioni cinematografiche agguantando il precipitato concettuale della tradizione semiotica del racconto di Stan Lee e Steve Dikto e mettendoci sopra un accento folle e imprendibile, che è risultato di grandi ragionamenti e prova di una grande capacità espressiva.

La storia non è solo quella del protagonista Miles Morales – ragazzo afroamericano in preda alla giostra liceale con poche certezze e molte goffaggini, morso da un ragno radioattivo e quindi destinato alle ragnatele – ma anche quella di molti altri Spider-Man provenienti da differenti universi: è il racconto delle origini e la sfida al cattivo nel tempo dei mondi paralleli e dei paradossi spaziotemporali, in cui si mischiano realtà differenti, stili di animazione eterogenei, personalità distinte e punti di vista tra loro lontani. È una delle intuizioni del lavoro dei tre registi: moltiplicare l’identità del supereroe in più versioni, in più corpi, grazie a una storia dai presupposti fantascientifici in grado di rifrangere e moltiplicare le complessità del personaggio. Il complessivo arco narrativo che ne emerge riesce ad indagare le difficoltà della crescita nel mondo, le tragedie della vita, il cammino identitario e il bisogno di uno scopo simbolico, attraverso però una forma inedita e creativamente audace che prende strade nuove.

Livellando il racconto su una tecnica di animazione mai vista – che la Sony sta cercando di brevettare –, il film non solo si esalta ma si solleva di peso, raggiungendo lo stato dell’arte per quanto riguarda personaggio e tecnica. Una giustapposizione di computer grafica, animazione a mano libera, grafica dei fumetti e elementi della street art capace non solo di orchestrare una superficie visiva di profondità stordente (fatta di linguaggi differenti e coerenti nell’insieme) ma anche di intessere un ritmo visuale abbastanza vicino alla tradizione letteraria da riposizionare i contenuti sul piedistallo, spostando l’attenzione sulle caratteristiche del corpo e sulle varie forme di fisicità che sono proprie del supereroe, sulla storia delle sue articolazioni, sulla geometria dei suoi muscoli e delle sue volontà.

Il lavoro animato aderisce alla pupilla come una lente straniante che amplifica i contenuti della storia e dona nuova energia a topoi sfiancati dalla ripetizione dei cinecomic, riconoscendo nel linguaggio grammaticale del fumetto una vasca in cui gettarsi per cogliere nuove forme espressive. Il film è una grande vignetta liquida che si offre spontanea, comica, veloce, in cui anche la grande quantità di riferimenti, organizzati con maestria, si allunga senza forzature e senza occhiolini di troppo. Tutto al film riesce in maniera sincera e assistervi è un’esperienza che vivifica e in qualche modo energizza e fa sentire bene, in parte grazie alla bellezza archetipica della storia di formazione e in parte grazie alla potenza della forma che aggrega temi musicali e immagini per continue folgorazioni in crescendo. Riuscendo a superare per certi versi anche Raimi, che da iniziatore aveva tematizzato il salto e il gesto atletico (straniante e assieme sublime per lo spettatore affascinato e inerme), grazie a un racconto che è nella sua interezza un movimento all’insù, un’espressione organica dell’identità di Spider-Man e dei supereroi in senso lato.

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Bob Persichetti Rodney Rothman Peter Ramsey 117 min
USA 2018
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Le terrificanti avventure di Sabrina

di Eugenia Fattori
Sabrina – recensione serie tv netflix Berlanti

Da sempre i generi cinematografici sono stati lo strumento, hollywoodiano e non, per dividere il pubblico in fasce abbastanza precise, ma da tempo queste tassonomie non bastano più perché ad esse va necessariamente aggiunta, in maniera ancora più prepotente nella serialità che nel cinema, l'età degli spettatori, da leggersi come una tra le direttrici principali nella creazione di sotto-generi.
Il target generazionale diventa così uno degli obiettivi primari per l'ibridazione dei generi e il teen horror si è dimostrato ormai da parecchi anni un sottogenere vincente nella serialità; si pensi ad esempio a show longevi e di successo (pur con una qualità decisamente bassa per gli standard attuali) come The Vampire Diaries o Teen Wolf: prodotti che hanno sfruttato il successo di Twilight sul grande schermo per mescolare temi classici dell'horror come il lupo mannaro e il vampiro con la narrazione glamour delle serie teen generaliste e la fanfiction. Non è quindi un caso che parte della diversificazione di Netflix, puntando sui teenager come pubblico da coltivare, si realizzi attraverso Le terrificanti avventure di Sabrina.

La serie è un esempio perfetto dell'ibridazione contemporanea dei generi, dei prodotti e dei pubblici: è al tempo stesso la rievocazione (ma non un remake) di un prodotto di culto dell'ABC, Sabrina, vita da strega, andato in onda dal 1996 al 2003; l'adattamento di una versione fumettistica in veste dark del personaggio stesso di Sabrina, edito nel 2014; un ampliamento dell'universo televisivo della Archie Comics – la stessa casa editrice creatrice di Riverdale, da cui è stata tratta una serie altrettanto di successo della CW – e la serie con cui il teen horror viene ufficialmente promosso ai toni, ai budget e alle prestazioni attoriali e registiche del prestige drama.

Prodotta da Greg Berlanti e Roberto Aguirre-Sacasa (anche direttore della Archie Comics), Le terrificanti avventure di Sabrina ha il budget di un prodotto prestigioso per adulti ma si rivolge a un pubblico misto, puntando sul racconto di formazione in chiave horror e sulla sua declinazione al femminile, nonché su una giovane diva come Kiernan Shipka (la Sally Draper di Mad Men), per raccontare la vita di Sabrina Spellman, una ragazza metà strega e metà umana che vive in un mondo scisso tra la sua vita di ragazzina normale e quella da giovane strega che ha di fronte un apprendistato nient'affatto semplice, immersa al tempo stesso nella quotidianità di una cittadina americana e in un universo orrorifico originale ma anche citazionista, che unisce l’approccio formativo alla Harry Potter con la passione per i freak e la diversità della famiglia Addams e del primo Tim Burton.

Sabrina è un'anti-eroina intelligente e brillante, che quindi finisce come molti anti-eroi per essere preda della propria sete di potere, ma il gender swap e la collocazione generazionale contribuiscono a rendere interessante e in parte rivoluzionario un racconto che poggia le proprie basi su una struttura molto convenzionale da bildungsroman e che si prende moltissimo tempo per introdurre non solo l'universo di riferimento ma la sua stessa protagonista.
Da questi punti di vista Le terrificanti avventure di Sabrina paga il pegno al proprio pubblico ideale di riferimento mantenendo spesso un tono molto esplicativo e quasi didattico, ma affianca a questa semplicità dei notevoli picchi nella scrittura dei personaggi di contorno (le due zie Zelda e Hilda sono costruite con grande precisione e con sprazzi di originalità, e il personaggio di Prudence, nemesi di Sabrina, funziona spesso meglio della protagonista stessa) e una grande attenzione alla costruzione della tensione e dell'atmosfera.

Sebbene a fine prima stagione si abbia la sensazione di aver assistito a una lunga introduzione, e l'episodio di Natale non abbia contribuito sensibilmente a fugare quest'impressione, l'attento world bulding e l'attenzione verso temi molto contemporanei come l'identità di genere contribuiscono a collocare la serie su un gradino piuttosto alto rispetto alla maggioranza dei prodotti teen, ibridati o meno che siano con altri generi, e stabilisce un ottimo presupposto creativo per una seconda stagione che avrà la solidità e lo spazio per osare di più.

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Roberto Aguirre-Sacasa Kiernan Shipka Ross Lynch Lucy Davis Michelle Gomez Miranda Otto 1 stagione da 10 episodi + 1 speciale
USA 2018 - in corso
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Cold War

di Samuel Antichi
Cold War Pawlikowski  - recensione film

Polonia, 1949. Wiktor (Tomasz Kot) e Irena, etnomusicologi a capo della compagnia Mazurek, viaggiano nelle campagne e nei piccoli villaggi del Paese per cercare ciò che resta della tradizione musicale folkloristica, volti, corpi, voci che possano far riscoprire una realtà in via d’estinzione. Nonostante l’intento primario promosso dalla scuola e dai due insegnati sia in linea con una ricerca etnologica atta a preservare e restaurare la tradizione popolare, a seguito del considerevole successo, la compagnia viene ingaggiata dal regime comunista e diventa strumento di propaganda. La ricerca e la riscoperta delle antiche origini e radici identitarie della Polonia si infrange in una fitta rete di negoziazioni e compromessi, che portano allo stravolgimento del repertorio musicale con l’inserimento di canzoni sulla riforma agraria o odi a Stalin e al regime comunista. Questo clima oppressivo e ricattatorio, fa da sfondo, ma anche da motore, alla storia d’amore tra Wiktor e una delle allieve della scuola, Zula (Joanna Kulig).

Dopo il successo di Ida, Premio Oscar nel 2015 per il Miglior Film Straniero, Paweł Pawlikowski torna con Cold War nel proprio paese d’origine (lasciato al tempo per conseguire gli studi in Inghilterra) e racconta una storia d’amore impossibile tra due anime tormentate e dislocate. Le vicende dei due protagonisti, come afferma lo stesso regista, si ispirerebbero, seppur a grandi linee, a quelle dei propri genitori, scomparsi prima del crollo del muro nel 1989. «Erano tutte e due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale», ricorda lo stesso Pawlikowski. La narrazione abbraccia un arco temporale di quindici anni, uno svolgimento sequenziale in cui vengono colte delle istantanee, momenti fugaci, incontri/scontri di questa coppia che non riesce a trovare stabilità in terra straniera. Wiktor ormai è diventato un apolide, fuggito dal proprio Paese  oltrepassando la cortina di ferro, mentre Zula è rimasta intrappolata nelle maglie del blocco sovietico. Pawlikowski rigetta le grandi narrazioni storiche per concentrarsi invece sui mutamenti personali e privati, in stretta interconnessione, tuttavia, con quelli collettivi e pubblici.

La musica assume un ruolo centrale nel film, cogliendo i cambiamenti e le trasformazioni sociali, e assumendo il ruolo di mediatore della memoria, strumento atto a contribuire alla definizione e ridefinizione dei caratteri identitari, dell’immaginario collettivo e della memoria nazionale e culturale – come il cinema, una forma di riscrittura storica e mnemonica. La liturgia del regime provvede alla distruzione, alla manipolazione e alla falsificazione dell’autenticità della memoria culturale.

Come per il suo film precedente il regista adotta il formato 1:1.33 (Academy format) comprimendo l’azione in uno spazio molto ristretto, avvicinando le figure e dando notevole importanza al fuori campo. Tuttavia, a differenza di Ida, Pawlikowski non ricorre a piani sequenza contemplativi con inquadrature fisse ma la macchina da presa viene trasportata dal virtuosismo e dall’energia della musica e dalla protagonista del film. La dialettica tra campo e fuori campo si evince specialmente a livello sonoro, la musica scandisce i momenti di sviluppo narrativi e di contaminazione culturale, dal folklore delle campagne in Polonia al jazz, dal rock dei locali Parigini alla canzone italiana con 24mila baci.

La contingenza storica è comunque presente, tra costruzione e smantellamento, lo spazio suburbano diventa paesaggio fisico, sociale e psicologico riflettendo la crisi dei valori riguardo le relazioni personali di due amanti persi a vagabondare. La memoria personale è anche la memoria del luogo, macerie e rovine del tempo passato, lasciti della tempesta del progresso che confina i protagonisti in una condizione di isolamento. L’erosione e la perdita del senso di appartenenza e identità ad un particolare luogo, così come il sentimento di pericolo e preoccupazione (desolazione psicologica) risulta evidente nella scena finale, dove in una chiesa ormai distrutta dal fuoco della guerra la coppia celebra il proprio (impossibile) amore. Sempre in movimento fuori e dentro l’inquadratura alla ricerca della vista migliore sulla natura delle cose.

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Pawel Pawlikowski Joanna Kulig Tomasz Kot 85 minuti
Polonia 2018
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Lontano da qui

di Veronica Vituzzi
Lontano da qui - recensione film colangelo

Lisa (Maggie Gyllenhaal) è una maestra d’asilo. Lisa ama la poesia, segue un corso di scrittura poetica, cerca di mantenersi ispirata per comporre versi che possano essere apprezzati dai compagni di classe e dal suo insegnante (Gael Garcia Bernal). Un giorno scopre che uno dei suoi allievi, Jimmy, sa comporre spontaneamente brevi poesie di profondità stupefacente per un bambino così piccolo. Colpita dal suo talento, Lisa sente l’urgenza di svilupparlo e proteggerlo dal mondo circostante, indifferente o preoccupato per un’abilità che considera invalidante. In una società che celebra l’impoverimento del linguaggio e della fantasia, incarnata dai figli col viso incollato ai propri cellulari, non c’è orecchio per la poesia.

Diretto da Sara Colangelo, Lontano da qui è il remake di The Kindergarten Teacher, film israeliano del 2014, e affronta due temi tanto celebrati nella forma quanto negletti nella pratica. Il nostro immaginario culturale assegna un valore importante ai concetti di poesia e infanzia: entrambe servono a mantenere uno spazio di innocenza spirituale, uno sguardo non irrigidito o schematizzato sulla realtà dove ci si lascia andare al flusso delle immagini senza pregiudizi. Il mondo è sempre cosa nuova per i poeti e i bambini, ogni oggetto deve essere nominato per la prima volta, le parole non sono ancora consumate dall’abitudine.
Questa dimensione del vivere è affine al carattere di Lisa, che persegue un’esistenza più intensa dove le parole creano esperienze emotive e le immagini stimolano il linguaggio. Ma il mondo va da un’altra parte. Il dono di Jimmy però è troppo prezioso per accettare di vederlo soffocato, pertanto la donna si dedica prima a lezioni private e non richieste di “apertura mentale” verso la realtà, forzando lo sguardo del bambino a cercare immagini inedite del mondo; poi, in una progressiva crociata contro l’altrui disinteresse, lo sequestra e lo porta a recitare le proprie poesie davanti a un pubblico adulto.

È interessante il fatto che Lontano da qui non solo mantenga il carattere urtante e morboso della sua protagonista così com’era descritta nella versione originale, ma che addirittura lo esasperi. Lisa è fastidiosa nel ricercare continuamente il bambino, e ridicola nella sua pretesa di infliggere lezioni di poesia al bambino quando nei fatti è lui quello capace di comporre versi significativi; la sua visione poetica si fonda su un concetto di bellezza piuttosto scontato. Ciò nonostante le persone che la circondano sanno essere ben più feroci nella loro noncuranza. Nella società del piacere immediato, dove è incessante la ricerca di nuove consolazioni per le proprie miserie, un bambino che parli di Dio e della morte è individuo insensato che si condanna a una vita di infelicità; giacché dedicarsi a dipanare il filo complesso delle cose richiede un sistema di pensiero talvolta doloroso per chi lo adopera. È dunque preferibile un linguaggio semplificato, che restringa le maglie della mente allorché non fuoriescano dettagli disorientanti.  Il padre di Jimmy lo spiega bene a Lisa: non vuole che il figlio diventi una di quelle persone che combinano poco nella vita.

Lontano da qui si mantiene all’altezza della complessità dei suoi temi, evita i facili stereotipi e indugia nello sfumare i personaggi senza assegnare ruoli positivi o negativi. Lisa ricerca nella sua vita e nelle persone un’intensità ideale e poco definita, e il suo scarso talento artistico è in fondo figlio di una parziale miopia spirituale. Forse è lei a non vedere davvero i figli che considera inaccessibili e vuoti; forse è solo una grande appassionata d’arte che vuol sentir riconosciuta la propria sensibilità. Jimmy invece non cerca approvazione, non reagisce con particolare entusiasmo alle lezioni poetiche della maestra, ma la segue pacatamente nelle sue iniziative sempre più esagerate senza esprimere giudizi. Difficile capire se egli sia più vittima di una società distratta o di un’autoproclamatesi eroina che vuol crescere un’anima infantile come un fiore in serra. Certo è che il film della Colangelo riconferma la poesia come ideale paradossale entro un mondo che insegue la bellezza ma non vuole confrontarsi con le responsabilità che questa pretende. Un verso può commuovere se possiede il sapore disarmante di ciò che è antico ma inedito per chi lo legge: bisogna saper essere vulnerabili per accettare senza difese le immagini che la vita ci offre.

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Sara Colangelo Maggie Gyllenhaal Parker Sevak Gael García Bernal Anna Baryshnikov 96 minuti
USA 2018
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Ralph Spacca Internet

di Matteo Marescalco
Ralph Spacca Internet - recensione film Johnston e Moore

Anche ai margini del Regno delle Principesse Disney c'è vita. Lo aveva dimostrato, 7 anni fa, Ralph Spaccatutto, l'antagonista di un videogioco arcade impegnato a provare ai suoi colleghi che sono le imperfezioni, i glitch e i disturbi nel sistema a strappare il cielo e a fornire vie di fuga in grado di aggirare i percorsi precostituiti. A dar vita alle nuove avventure di Ralph e Vanellope in Ralph Spacca Internet sono Phil Johnston e Rich Moore, lo stesso duo alle spalle di Ralph Spaccatutto e di Zootropolis. E si ritorna ancora in una sala buia o nel retrobottega di qualche bar, in cui pulsano le luci di tanti videogiochi che offrono ore e ore di divertimento a 8-bit. Questa volta, però, c'è una novità. A causa di un incidente al volante del suo arcade, Vanellope rischia di rimanere senza vita. L'unica soluzione è uscire dalla gabbia della sala giochi e immergersi nell'infinito universo di Internet, reso raggiungibile dalle autostrade virtuali inaugurate dall'arrivo del wi-fi. L'obiettivo è raggiungere Ebay, uno strano magazzino che vende oggetti in gran parte usati, e ordinare un articolo di ricambio per il videogame di Vanellope. Ma su Internet ogni cosa ha un prezzo, e quest'avventura potrebbe costare cara al forte sentimento di amicizia che lega Ralph e Vanellope.

Uno dei principali pregi di Ralph Spacca Internet è aver trasformato il mondo del world wide web in qualcosa di tangibile e di fisico. Come accaduto in Inside Out, anche il film di Johnston e Moore prova a rendere palpabile l'impalpabile. Nel film Pixar, toccava alle emozioni primarie e ai labirinti dei sentimenti assumere un volto e un aspetto; qui, il gigantesco universo di Internet è rappresentato come fosse un aeroporto del futuro. Metropolis, Blade Runner, la catena di montaggio Ford e King Kong sono i primi spettri referenziali che vengono in mente. Il caos nevrotico dell'universo digitale è riprodotto in ogni sfumatura. Infatti, a trovare spazio è sia Oh My Disney, il sito ufficiale del colosso americano rappresentato, ovviamente, come un gigantesco castello-parco di divertimenti che ospita al suo interno tutte le creature Disney, sia l'anfratto periferico del darknet, popolato da pop-up e malware con felpe e cappuccio.

Insomma, a scapito di un'elaborata costruzione narrativa, a far da padrone è l'elemento visivo. L'esplosione di colori e di tridimensionalità della CGI vanno a braccetto con il design dei personaggi secondari che popolano il mondo dei videogiochi arcade. Il nitido fulgore delle immagini si appoggia ad un racconto costruito su svolte prevedibili ma orchestrate in modo tale da agire sui giusti accordi emotivi di grandi e piccoli. Ma il luogo ideale in grado di elettrizzare maggiormente lo spettatore è proprio Oh My Disney, dove trovano posto i membri del Marvel Cinematic Universe e di Star Wars, Biancaneve, Cenerentola, Merida, Woody, Buzz e persino i pinguini di Mary Poppins. Come un Ready Player One di casa Disney, Ralph Spacca Internet abbatte ogni confine spazio-temporale e riallaccia le linee e i flussi costruiti nell'arco di quasi 100 anni per i propri spettatori.

Costruendo una memoria interna, il film riavvolge la propria cosmogonia di riferimento e la affida al sostrato del linguaggio universale per eccellenza. Il tema della ricerca di identità è comune a tutte le fiabe e l'universo Disney è chiamato in causa per aiutare Vanellope a trovare la propria via. Il coming-of-age della principessa sui generis chiede di accettare il tempo che passa come parte della propria identità e non come una torre che isola da un mondo distante e ormai divenuto incomprensibile. È in questo senso che Ralph Spacca Internet consente la convivenza di un nuovo contesto e delle sfide epocali Disney in cui si muove ciò che è eterno.

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Phil Johnston Rich Moore John C. Reilly Sarah Silverman Gal Gadot 112 minuti
USA 2018
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Lost in Space

di Mattia Caruso
Lost in space - recensione serie tv netflix

Non ci fossero stati in mezzo un lungometraggio (discutibile) e la rivoluzione seriale più importante di tutti i tempi, parrebbe quasi venire direttamente dal passato un prodotto come Lost in Space, serie originale Netflix ispirata all'omonimo telefilm di culto del 1965.
Perché, se è vero che l'odissea spaziale della famiglia Robinson – tra schianti su pianeti sconosciuti e inospitali e una lotta per la sopravvivenza sempre più simile, episodio dopo episodio, a una corsa contro il tempo – non è certo priva di attrattiva, a partire dal suo solido impianto visivo ed effettistico, è altrettanto vero che la continuità con il passato leggero ed edulcorato della serie andata in onda per tre anni sulla CBS è garantita dal senso stesso di un'operazione che ha dell'archeologico, riesumazione spiazzante di un mondo riportato alla luce senza eccessivi strappi o stravolgimenti.

È proprio da quel passato intriso di conservatorismo che la serie reboot creata da Matt Sazama e Burk Sharpless e prodotta da Neil Marshall decide infatti di ripartire, accantonando gli esiti infelici del film di Stephen Hopkins del 1998 (Lost in Space – Perduti nello spazio) e aggiornandosi alla serialità ai tempi di Lost, pur mantenendo intatto il suo nucleo fortemente tradizionale.
Che il cult di J.J. Abrams abbia fatto, d'altronde, da modello principale alla vicenda di questi naufraghi spaziali – dall'impostazione corale al gusto per il mistero, dai flashback rivelatori ai colpi di scena – è evidente sin dal principio, ma è altrettanto chiaro come questo modello rimanga un'ispirazione di facciata, che la serie è incapace di portare a fondo limitandosi ad imbastire risvolti e percorsi narrativi costantemente abbozzati e mai realmente approfonditi.

Il risultato è uno sci-fi diluito e stemperato nei toni del family drama e nelle logiche di un politicamente corretto imperante, in cui tutto, dalla scrittura superficiale dei personaggi (tra cui spiccano il capofamiglia del Toby Stephens di Black Sails e, soprattutto, l'inedito Dottor Smith di Parker Posey) allo svolgimento (quasi sempre) lineare degli eventi, sembra partecipare a questa visione estremamente tradizionale e poco complessa.

Nell'anno di Annientamento e di un'idea di fantascienza “alta” e lungi dall'essere conciliante, Lost in Space va così nella direzione opposta, mostrandosi per quello che è (o per quello che vorrebbe essere): un'epopea avventurosa e ben curata per tutta la famiglia, senza quegli elementi di criticità o disturbo che la (apparente) confezione di sci-fi contemporanea farebbe supporre. Un obiettivo, quello di farsi prodotto confortante e sicuro per famiglie, che la serie però non centra appieno, presentando un'idea di intrattenimento in cui, paradossalmente, è proprio l'azione a latitare in una vicenda che vorrebbe emulare apertamente l'estetica e le dinamiche del più classico dei blockbuster ma che, proprio come i suoi personaggi, non riesce a uscire dal ristagno in cui è intrappolata.

Lineare e bidimensionale, Lost in Space arranca così per dieci episodi dagli intrecci elementari e dai colpi di scena spesso inconsistenti, riservandosi solo nel finale di stagione un cliffhanger degno di nota. Un salvataggio in extremis, per una serie datata che, tra una quotidianità simulata e posticcia e un universo (narrativo) abbandonato per lo più a se stesso, non si rende conto di esser nata fuori tempo massimo, lontano oramai dai gusti di quella famiglia ostinatamente inseguita e posta al centro della sua narrazione.

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Toby Stephens Parker Posey Ignacio Serricchio Molly Parker 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Old Man & the Gun

di Saverio Felici
Old Man and the gun - robert redford recensione film

Succede che certi film finiscano tolti dalla potestà del proprio regista e consegnati ai posteri come prodotti personali di un attore. In pochi, in occasione del suo anniversario, hanno ricordato che era stato John G. Avildsen a dirigere Rocky, e non Stallone stesso. Succede. Quando l'immedesimazione tra personaggio e interprete è così marcata, così evidente, diventa impossibile pensare che quella storia non sia parto dalla mente del suo stesso protagonista. David Lowry, regista e scrittore di Old Man & The Gun, è un tipo particolare, “autore” come lo si intende in America (cioè: creativo intellettuale e indipendente, almeno finché non gli viene offerto il remake disney di Elliott il drago invisibile), e personalità quantomeno interessante, tra quelle emerse in questo decennio. Ma questo film non gli appartiene. Dalle prime immagini promozionali, dalle voci dal set, fino alle presentazioni per i festival di mezzo mondo e l'uscita americana, Old Man  & The Gun è stato annunciato essere l'ultimo film di Robert Redford. Ed è diventato il suo.

La storia del sessantenne Forest Tucker (Redford), affiancato da una coppia di geriatrici complici (Danny Glover e Tom Waits), che dopo una vita passata ad evadere di prigione si dedica alla rapina in banca “di classe” (senza sparare, senza urlare, consolando le cassiere terrorizzate) non poteva avere nessun altro volto se non quello dell'eterna simpatica canaglia d'America. Robert Redford, l'uomo che non ucciderebbe mai, che non può essere cattivo, che a ottant'anni non chiede altro che di imbarcarsi in un'altra storia d'amore con Sissy Spacek. Ma all'ennesima evasione, Tucker sentirà il peso degli anni, la voglia di fermarsi, la stanchezza. E dovrà decidere.

Come in una sorta di comunione di intenti, Lowry e Redford invertono il tono che si potrebbe aspettare da un caper movie con anziani (un genere più proficuo di quanto non sembri). Poca commedia, niente azione. Old Man & The Gun è un film di saluti, di bilanci finali: si ascrive con stile e abilità in un'ottica di cinema crepuscolare da terza età, in  cui  lo sguardo  è perennemente rivolto all'indietro, a quello che i personaggi hanno fatto prima, al loro rapporto con questi fantasmi. L'indagine di Casey Affleck è uno strumento narrativo, non è di questo che parla il film. Come lui, così tanti altri pesi massimi come Glover e Waits (ma anche caratteristi leggendari come Keith Carradine e Isaiah Whitlock) finiscono  messi da parte.

Il film è tutto Redford. Che lo cannibalizza, lo fa suo, lo plasma a sua immagine e somiglianza relegando tutto il resto del comparto creativo (attori e regista) al ruolo di spalle. Ed è proprio questo che distingue Old Man & The Gun da, per dire, Vivere alla grande di Martin Brest. Il film di Lowry si trasforma sotto i nostri occhi in un'operazione esplicitamente metacinematografica, con  spazio per immagini di repertorio, ringiovanimento digitale, rimandi visivi espliciti a mille film, da Butch Cassidy a Tutti gli uomini del Presidente. E ovviamente la metafora: l'uomo che tutta la vita ha derubato banche grazie solo al sorriso e all'eleganza è in fondo il vecchio divo, che ha sempre recitato davanti a un pubblico, e come lui sente avvicinarsi il momento di farsi da parte.

Old Man & The Gun è dunque un poliziesco a metà. Come il suo hemingwayano titolo lascia supporre, non vuole tenere gli spettatori sulla punta della sedia con il racconto di una rapina ad alto rischio (il pericolo non si sente mai), ma spingerli a fare i conti con l'avvicinarsi della fine, del come affrontarla. Con tanta piacioneria americana (il suo protagonista è un buono a tutti gli effetti, senza traccia di ambiguità: d'altronde, è Robert Redford!), ritmi lenti, e tono da commossa festa di pensionamento tra amici.

Tutto in Old Man & The Gun vive per il suo divo. Sembra che tutto il progetto, in realtà in produzione da anni e tratto da un celebre articolo-inchiesta del 2003, non sia mai in fondo esistito se non come elegia della sua star. Vedere Old Man & The Gun senza curarsi di cosa rappresenti per Redford è possibile, ma viene a mancare una parte essenziale della visione. È un film di congedo, che pure si chiude con una nota beffarda, che sembra rimandare ancora una volta a un prossimo colpo, un  prossimo film, come se la fine non debba arrivare mai, e ci sia sempre un'altra prigione da cui evadere, un'altra pallottola da cui guarire e un'altra famiglia da lasciarsi alle spalle. Redford potrebbe alla fine ripensarci, al suo ritiro (ci ha ripensato Clint Eastwood, a ottantotto anni). Ma il suo epitaffio lo ha scritto qui.

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David Lowery Robert Redford Casey Affleck Danny Glover Tom Waits Isiah Whitlock jr. 94 minuti
USA 2018
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Tre volti

di Alessandro Gaudiano
Tre Volti - recensione film Panahi

Dopo Taxi Teheran, il regista iraniano Jafar Panahi torna al volante per un nuovo viaggio in auto, una nuova incursione oltre il divieto di creare e mostrare. Questa volta, Panahi si spinge fuori dalla capitale, tra le alture del nord-est e verso la periferia di un paese immenso e ricco di ambiguità. Tre volti si accende con un piccolo mistero, con l’intenzione di parlare d’altro: di uomini e soprattutto di donne, di vita quotidiana e lotta altrettanto quotidiana, di vite e di prigioni.

Attraverso l’inquadratura tremolante di uno smartphone, le prime immagini del film sono quelle di una ragazzina impaurita. Marziyeh registra un video dove confessa la propria disperazione: la famiglia non le permette di studiare e diventare un’attrice. Dopo la confessione, la ragazza mette in scena il proprio suicidio per impiccagione.
Riemerso dal formato verticale e dalle immagini sgranate del telefonino, lo spettatore scopre che il destinatario del video è una nota attrice iraniana, Amin Jafari (Amin Jafari), a cui la ragazza fa appello. Un mistero da risolvere, un senso di colpa da fugare: il suicidio è vero o simulato? Ed è vero che la ragazzina ha provato più volte a contattare Amin, senza successo? A partire da queste domande, Amir e il regista (Panahi che interpreta ancora una volta se stesso) partono in auto alla volta del villaggio.

Tre volti è un film in viaggio, se non “di” viaggio: l’auto è una cabina di regia mobile, un luogo di incontro, uno spazio di reclusione forzata a partire dal quale l’autore costruisce un film giocato su barriere, muri e confini. Il viaggio esplode in un gioco narrativo dove tasselli documentari e di finzione sono accostati senza soluzione di continuità e dove emerge, prima del desiderio di tessere storie, quello di testimoniare.

Questo è il quarto film di Panahi da quando il governo iraniano gli ha vietato di realizzare film o viaggiare all’interno del paese o all’estero: un confino su cui il regista riflette attraverso le sue immagini e la sua messa in scena. Panahi riesce a trasformare i vincoli e i divieti in un’opportunità: Tre volti è ambientato quasi esclusivamente dentro e attorno il veicolo, che l’autore trasforma, volta per volta, in teatro di posa, spazio mentale, camera oscura da cui costruire un’immagine del mondo esterno. Oppure, a volte, un’auto è soltanto un’auto: un veicolo ingombrante, inadatto alla strada a senso unico che conduce al villaggio e che costringe a complessi rituali di segnalazione con il clacson per evitare tamponamenti e conflitti. Il futuro, tra le montagne, arriva solo a fatica, e quando arriva non è sempre equo: gli abitanti del villaggio si lamentano del fatto che ci sono più antenne che medici, e che la gente di città si fa viva solo quando ha bisogno di qualcosa e mai per dare loro una mano.

Dalla sua postazione di guida e di regia, Panahi interroga la tradizione e le paure del paese, dove le donne sono tenute sotto lo scacco del patriarcato: Amin, Marziyeh e anche l’anziana Sharazhad, stella dei tempi d’oro del cinema iraniano che l’autore immagina come esiliata al limitare di questo villaggio sospeso nel tempo, isolata e scacciata come una strega ma ancora orgogliosamente artista. Tre volti e tre generazioni che il regista immagina danzare insieme, all’ombra di una lanterna, protette dall’oscurità della notte e dal giudizio degli uomini che hanno stabilito i rigidi paletti delle loro vite.

La distanza tra Teheran e il paesino di montagna è anche temporale: la capitale è immersa nel caos del traffico e del rumore, è il calderone ribollente dove la ragazza vuole studiare cinema e andare incontro al futuro. Il viaggio verso le montagne riporta, invece, ad un passato tribale e tradizionale, sospettoso verso l’avvenire e legato ad un misticismo quasi pagano.
Quello di Panahi è, letteralmente e allegoricamente, un viaggio nel tempo, e Tre volti è da intendere, innanzitutto, come uno zibaldone di appunti, poesie, note di colore e fulminante bellezza. Con lo stile agile che gli è proprio, Panahi ci accompagna oltre la soglia di un Iran irriducibile a etichette e aggettivi perentori, invitandoci ad osservare e capire. Anche se è difficile immaginare un futuro roseo per Marziyeh, non tutto è perduto: l’autore sembra suggerirci che la ragazzina non è sola e che il desiderio di libertà è più forte di una lunga storia di repressioni e paure.

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Jafar Panahi Behnaz Jafari Jafar Panahi Marziyeh Rezaei 102 minuti
Iran, 2018
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Capri-Revolution

di Matteo Berardini
Capri - revolution recensione film

«Se ricerchiamo la vera origine della danza, se ritorniamo alla natura, troviamo che la danza del futuro è la danza del passato, la danza dell'eternità, che è sempre stata e sempre sarà la stessa. […] Solo i movimenti del corpo nudo possono essere completamente naturali. L'uomo, giunto al termine della civilizzazione, dovrà ritornare alla nudità: non alla nudità inconsapevole del selvaggio, ma a quella conscia e riconosciuta dell'uomo maturo, il cui corpo sarà l'espressione armoniosa della sua vita spirituale. […] Per questa ragione l'arte dei greci non è un'arte nazionale o tipica, ma è stata e sarà sempre l'arte di tutta l'umanità e di tutti i tempi. Quando allora io danzo a piedi nudi sulla terra, mi vengono spontanei gli atteggiamenti greci, proprio perché sono semplicemente atteggiamenti della natura»
Isadora Duncan – Lettere dalla danza

 

Spesso del Decamerone di Boccaccio, complice uno studio scolastico affrettato e instradato sui soliti binari, ci si limita a ricordare alcune novelle assieme agli elementi basilari della cornice: una dozzina di giovani di bell’aspetto e alto lignaggio, fuggiti da Firenze per evitare l’orrore della peste, decide di trascorrere il suo tempo recitando novelle di svariati argomenti, così da riempire le giornate e allietare i pensieri di tutti. In realtà il capolavoro del maestro fiorentino è qualcosa di decisamente più ambizioso, è una rifondazione ideale della società messa in atto intessendo tra loro le molte narrazioni condivise, un processo di creazione collettiva nato non tanto per sfuggire alla malattia quanto per erigere un nuovo mondo di cortesia e nobiltà da opporre a quello assoggettato alla crisi morale del suo tempo. In quanto narratori, i protagonisti di Boccaccio sono i creatori di un modello alternativo di società che entra in diretta opposizione con le macerie che ne circondano il rifugio. Incarnazioni di un’utopia di palingenesi da esercitare attraverso l’arte, vivono un sogno simile a quello perseguito dalla comune attorno a cui ruota Capri-Revolution, solo che al posto della narrazione Mario Martone pone la danza come cardine di questo processo rigenerativo.

Ispirato dall’esperienza storica della comune fondata a Capri dal pittore tedesco Karl Diefenbach, Martone chiude la propria riscrittura della giovane nazione Italia lavorando sui corpi e sui volti di una gioventù idealistica e romantica nella cui danza si iscrivono le preghiere e le immagini di un nuovo mondo, lontano tanto dalla macchina bellica che sta per cibarsi dell’Europa alle soglie della Prima Guerra Mondiale, tanto dalle utopie ideologiche che corteggiano l’uomo a cavallo dei due secoli, le sirene del Positivismo scientifico da una parte e quelle dell’insurrezione internazionalista dall’altra. Capri-Revolution si svela così un film intimamente legato all’esperienza de Il giovane favoloso, di cui conserva la matrice letteraria rilanciandola lungo un orizzonte universale capace di contenere avanguardie e suggestioni proprie di tanta arte e riflessione artistica del Novecento.
Non a caso le basi etiche ed estetiche della comune provengono per gran parte dal pensiero di Joseph Beuys, artista e teorico dell’arte le cui idee, parole e performance si innestano nel film come schegge provenienti dal futuro. Gli anni Sessanta infatti sono il periodo che vede nascere le idee di Beuys in relazione all’energia spirituale del calore, alla portata rivoluzionaria di ogni uomo e ogni gesto d’arte, al valore capitale che questa e la cultura e la sensibilità possono avere in una nuova economia immaginata a misura d’uomo. Il sincretismo temporale tentato da Martone abbraccia ogni aspetto artistico della comune fondata dal cristologico Seybu, compresa proprio quella danza che vediamo esplodere e rinnovarsi libera attraverso i corpi nudi dei ballerini, ma che dovrà verso la fine del suo percorso trovare una forma, sostituendo la struttura di un palco alla spontaneità della foresta, affinché possa essere comunicata, condivisa, moltiplicata (ma di conseguenza mercificata).
Sbilanciato e irregolare come mai prima, Martone riversa in Capri-Revolution l’ambizione sfrenata di raccogliere enigmi, contraddizioni e speranze del Novecento, tornando a contatto con la tradizione teatrale attraverso il corpo scenico, quei corpi nudi, illuminati, naturali, che assorbono nelle loro movenze la complessità delle grandi utopie del secolo con uno slancio che sfalda il racconto e cattura magnetico lo sguardo.

Per dare forma ad un gesto cinematografico tanto grandioso, Martone e la sua sceneggiatrice Ippolita Di Majo pongono al centro del racconto la bella Lucia (bravissima Marianna Fontana), figlia e sorella di pastori che si ribella al suo destino famigliare spinta da una fame di libertà e scoperta. Lucia infatti finisce preda del fascino di Seybu e della sua comunità di artisti e intellettuali, uomini e donne che si sono ritirati tra gli anfratti più nascosti di Capri per condividere assieme l’utopia di una vita lontana dai dettami della società moderna. Al polo opposto del suo orizzonte di crescita, della sua fuga da un mondo contadino ancorato al rigore della tradizione, Lucia troverà Carlo, un socialista che esercita la professione di medico e professa l’interventismo appassionato, illuso che la grande macelleria bellica possa rivelarsi il palco ideale per l’affermarsi di nuovi equilibri sociali.
Costruito su illusioni politiche o ideologiche, chiese laiche o spirituali, Capri-Revolution è il film di Martone che più si apre alla fede, alla necessità umana di credere in qualcosa, terrena o metafisica che sia. Lucia diventa così la similitudine dell’Italia tutta, una nazione ancora giovane e ingenua che oscilla tra razionalità e spiritualità. In questa scissione però il film tenda a svelare la sua natura schematica, progettuale, di cui pagano il prezzo i personaggi, privi di psicologie e identità proprie. E tuttavia è difficile non farsi coinvolgere dal coraggio messo ancora una volta in campo da Martone, l’unico regista italiano capace oggi di far propria la tradizione didattica di Rossellini per applicarla all’immagine televisiva RAI, delle cui logiche questa trilogia storica evidentemente si nutre ma come un tarlo dall’interno, sovvertendone i meccanismi per arrivare ad una forma altissima di cinema ontologicamente nazionalpopolare, efficace, colto e quanto mai importante.

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Mario Martone Marianna Fontana Reinout Scholten van Aschat Antonio Folletto Donatella Finocchiaro 122 minuti
Italia, Francia 2018
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Noi credevamo

di Pietro Masciullo
Noi credevamo - recensione film Mario Martone

«L’albero è stato piantato, con delle radici malate, ma è stato piantato».

Scrive così Cristina di Belgiojoso al deluso repubblicano Domenico, in quel fatidico 1862, l’alba della nazione. Prima, però, c’è stata tutta la “credenza” e la disillusione di un sogno lungo quarant’anni che ha attraversato l’Italia: il Risorgimento visto come rivoluzione mancata e scintilla di libertà ammansita. Noi credevamo è uno dei film italiani più importanti e decisivi del XXI secolo: quattro atti per un’opera-mondo che racchiude istanze e sentimenti, erranze e narrazioni, passioni e riflessioni, documenti e monumenti di un’intera generazione di repubblicani e monarchici, politici e politicanti, ideologi e insurrezionalisti, letterati e teatranti. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Anna Banti, il film di Mario Martone si distacca volutamente da qualsiasi agiografia sulle tappe fondamentali del Risorgimento per incunearsi subito nelle pieghe degli eventi, illuminare le zone buie, mettere in ellissi le grandi suture storiche e far luce sulle grandi fratture sociali relegate all’oblio dalla storiografia ufficiale. Un film coraggiosissimo nell’insistere con fiducia sul paradigma della complessità in un tempo (il nostro) così attratto dalla semplificazione perenne del passato.

1828. Si inizia dall’incendio di Bosco, nel Cilento, dove alcuni rivoltosi vengono decapitati dall’esercito borbonico che per vendetta incenerisce il paese. L’episodio spinge tre ragazzi del posto (Salvatore, Angelo e Domenico) ad affiliarsi alla Giovine Italia di Mazzini e contribuire al suo sogno rivoluzionario... da quel momento in poi seguiremo i loro destini nei successivi quattro decenni. Martone immerge i suoi protagonisti nel dibattito politico in atto, li rende automi spirituali intrisi di istanze politiche, sociali, culturali, declamate con impeto intimamente teatrale. Nel contempo però (in una straordinaria contaminazione) supera ogni sovrastruttura con la potenza delle emozioni prime, con il dato reale del set e con l’insistenza dei primi-piani sul paesaggio dei loro volti. Proprio come nella splendida sequenza dell’incontro tra il “figlio del trappitaro” Salvatore e la “leggenda” Giuseppe Mazzini: un incontro decisivo che sottende un attentato al Re Carlo Alberto, risolto però sugli occhi del ragazzo che scrutano il volto di Mazzini in un mix di paura e devozione, tensione e candore, stupore e sospetto.

Il tempo passa. Dal Cilento a Parigi, da Torino al carcere di Montefusco, da Londra a Roma… durante il cammino dei suoi tre personaggi fittizi Martone ci fa incontrare figure storiche come Cristina di Belgiojoso, Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, Felice Orsini, Simon Bernard, Antonio Gallenga, Francesco Crispi, l’ombra di Giuseppe Garibaldi e poi ovviamente Mazzini. Una maschera di cera rosa dai rimpianti e dalla responsabilità che puntella il film come anima fiera e ferita. Le musiche di Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini e Gioachino Rossini innestano umori d’opera in questa paradossale gestione rosselliniana degli spazi del set. Martone, quindi, assorbe e restituisce con straordinaria naturalezza la memoria cinematografica di 1860 di Blasetti (citato nella sequenza iniziale), di Senso e Il Gattopardo di Visconti, de La pattuglia sperduta di Piero Nelli, poi di tutto il Rossellini didattico delle biografie televisive, per concludere con echi del Bertolucci di Strategia del Ragno o Novecento. Un film vertiginoso, sì, che nell’enorme lavoro sul fuori campo trova la sua più alta mediazione estetica: Martone relega alla memoria ufficiale dei “libri di testo” ogni evento saliente della storia patria per concedere al cinema il privilegio di indagare “solo” le contrastanti e ambigue passioni umane. Ossia la credenza primigenia e pura di Salvatore, quella malata e violenta di Angelo (che verrà condannato per il fallito attentato a Napoleone III), infine quella sofferta e riflessiva di Domenico, che diventerà lo sguardo (dis)illuso del nostro film. Liberamente or piangi

Il sogno di un’Italia libera(ta) e repubblicana si trasforma pian piano, con l’intervento dei Savoia e di Cavour, in Italia unita ma monarchica. Dal 1828 al 1862 la riunificazione del Paese segnerà la progressiva separazione degli ideali originari dalla realtà politica imponendo scelte di compromesso e relegando ogni memoria privata all’oblio della storia. Ma il cinema si ribella: l’uomo col canarino, omaggio a Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortense, getta un ponte ai successivi film di Martone in una magnifica trilogia ideale (con Il giovane Favoloso e Capri-Revolution) basata proprio sulle persone e sui sentimenti come motore nascosto della storia. Un film di impressionante lucidità e urgenza, dove le pulsioni vive e contrastanti che hanno generato (e generano ancora) l’Italia si coagulano nell’inesorabile declinazione all’imperfetto di ogni ideale originario. Noi credevamo…

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Mario Martone Luigi Lo Cascio Valerio Binasco Francesca Inaudi Edoardo Natoli 170 minuti
Italia 2010
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