February – L’innocenza del male

di Gian Giacomo Petrone
February - l'innocenza del male - recensione film perkins

Il variegato universo horror è sovente abitato da film che tentano di aggredire percettivamente lo spettatore, per vellicarne le emozioni più immediate e per stimolarne le reazioni psico-fisiche che ne sostanziano la natura di essere umano. Tuttavia, capita talvolta di imbattersi in titoli che, differentemente, agiscono a un livello più recondito, apparendo magari come corpi estranei rispetto al genere: in apparenza pigri e assorti, a volte resi asettici da un’astrattezza ai limiti del metafisico, essi possiedono – nei casi più riusciti – la rara capacità di scivolare impercettibilmente sottopelle, crescendo lentamente inquadratura dopo inquadratura, visione dopo visione, e toccando quelle medesime emozioni, anche se in modo più sottile e insinuante.

February – L’innocenza del male, esordio alla regia di Osgood “Oz” Perkins (primogenito di Anthony Perkins), si colloca senza tentennamenti su questo secondo versante, delineando una vicenda dagli incerti contorni narrativi, priva di forzature psicologi(sti)che e caratterizzata da un’attenzione certosina ai dettagli visivi e sonori. Ne emerge una partitura in levare, costruita su ritmi lenti, talora trasognati, sull’interazione fra gli attoniti personaggi e un ambiente spoglio e invernale, su una recitazione che agisce per sottrazione e in cui l’intonazione vocale (che scandisce poche ma sempre significative parole), l’espressione facciale e la postura corporea esprimono l’efficace lavoro sotterraneo svolto dagli e sugli attori.

Il racconto procede attraverso lo sviluppo di due storie in apparenza simultanee e non collegate fra loro; un finale spiazzante ricollocherà le tessere del puzzle in un disegno radicalmente diverso, sia dal punto di vista temporale sia da quello dell’identità dei personaggi e del significato delle loro azioni.
In un collegio religioso ai confini dell’area metropolitana di New York, gli studenti si preparano al break invernale di febbraio, salvo due studentesse, la giovanissima Katherine (Kiernan Shipka) e la più matura Joan (Lucy Boynton), visto che i genitori di entrambe, per motivi diversi, risultano in preoccupante ritardo nel recupero delle figlie, che rimangono perciò bloccate nell’edificio. Altrove, una giovane donna, Joan (Emma Roberts), in fuga da un ospedale psichiatrico e diretta nella località dove è situato il collegio, viene soccorsa da una coppia di coniugi di mezza età (Lauren Holly e James Remar), che le offrono un passaggio in auto.

Se la dimensione più prettamente horror è affidata da Perkins a una soluzione di possessione “demoniaca” (delineata più esplicitamente con Katherine, in modo più strisciante e oscuro con Joan), con un approccio meno banale di quanto sia lecito supporre, visto l’abuso del tema, il vero fulcro della vicenda è costituito dalla solitudine, dal terrore dell’abbandono, dall’incombere di un mondo vuoto di umanità, in ogni senso. Del resto, la possessione potrebbe essere chiarita proprio come un sintomo delle problematiche testé esposte. Ecco allora che le due vicende parallele e in apparenza  non comunicanti (quando, in realtà, parecchi indizi lasciano ipotizzare verosimilmente che l’una sia il preludio dell’altra) risultano collegate dal fil rouge della deriva esistenziale, segnata dalla fragilità soggettiva nel fronteggiare un mondo costitutivamente invernale. Figli e genitori, giovani e adulti sono i duali attorno a cui ruota l’approccio antropologico e psicologico del regista, che focalizza la propria attenzione in particolare su una gioventù costretta dalle circostanze a misurarsi con l’incombere di una prematura e opprimente maturità. Perkins, in tali fragili rapporti, marcati da mancanze, distanze, ritardi (tutto appare inesorabilmente fuori tempo nel racconto: il dialogo, l’apertura all’altro, l’abbraccio consolante della presenza, l’elaborazione della morte e del lutto), inserisce sottilmente anche una dolorosa nota autobiografica, legata al difficile rapporto col celebre padre scomparso prematuramente.

D’altro canto, il procedere lento, dilatato, quasi a-patico degli avvenimenti aiuta il crescere sotterraneo della tensione e fa emergere con crudele efficacia la dissonanza degli scoppi di violenza, di cui si rendono protagoniste Katherine e Joan, una violenza ottusa e meccanica, operata da figure svuotate di ogni barlume di umanità e tuttavia massimamente fragili, in quanto (anche) vittime. La possessione diabolica da cui entrambe (l’identità delle due ragazze costituisce il coup de théâtre di un intreccio comunque dipanato in modo ellittico e oscuro) paiono dominate è uno dei molti punti di forza nel tratteggio dei due personaggi, nonché il veicolo dell’inquietudine di cui sono latori, soprattutto a causa della loro innocenza, essendo tramiti di un Male che, più che infero, appare immanente al mondo.

Perkins cesella un suggestivo impianto audio-visuale (con l’ausilio delle musiche elaborate dal fratello Elvis), attraversato da un fitto (e sagacemente “invisibile”) reticolo di soggettive, semi-soggettive e nobosy’shots, e fondato sul contrasto – simbolico prima ancora che percettivo – fra il territorio innevato e “indifferente”, l’edificio del college letteralmente disumanizzato, perciò vuoto, cupo e silenzioso, e i personaggi, sorta di sonnambuli in cammino verso il (o in attesa del) nulla. È un cinema ai limiti dell’astrazione, non privo di ambizioni autoriali forse premature e, certamente, non adatto a tutti i palati, ma se lo si lascia sedimentare nella coscienza, potrà insediarvisi per lungo tempo.

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Osgood Perkins Kiernan Shipka Emma Roberts Lucy Boynton Lauren Holly James Remar 93 minuti
Canada, USA 2015
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La regina di Casetta

di Riccardo Bellini
La regina di Casetta, Feserico Fei

Gregoria Giorgi è l’unica ragazzina di Casetta di Tiara, frazione di Palazzuolo sul Senio, sull’Appennino tosco-emiliano, che ancora resiste allo spopolamento cui è destinata con i suoi dieci, orgogliosi abitanti. Se Dino Campana avesse incontrato Gregoria forse l’avrebbe inserita, accanto alle ostesse faentine o alle opulenti matrone bolognesi, nel novero delle visioni femminee che popolano la sua poesia, ognuna regina e custode della propria città di cui incarna memorie ancestrali. Anche Casetta dunque ha la sua giovane sovrana. Ma la ragazza sta per concludere le scuole medie e tra dodici mesi dovrà abbandonare il paesino sperduto per iscriversi alle superiori. La regina di Casetta, ultimo documentario di Francesco Fei vincitore come miglior film italiano al 59esimo Festival dei Popoli, segue appunto l’ultimo anno di Gregoria nel borgo natio, muovendosi tra l’entusiasmo tipico dell’adolescenza verso una (nuova) vita che comincia e la nostalgia per un presente sempre più simile a un lontano passato.

La caccia al cinghiale, le nevicate, i giochi al fiume e i pettegolezzi delle serate estive con i «vecchini» del paese: la vita di Gregoria a Casetta trascorre scandita dai rituali di stagione di un mondo dove è ancora possibile trovare, come direbbe Campana, «La sanità delle prime cose». I versi del poeta di Marradi, - che nel 1916 proprio a Casetta consumò l’idillio amoroso con Sibilla Aleramo, tornando al borgo più volte da solo, - accompagnano qua e là il passare dei mesi, riscoprendo sotto la naturalezza di una vita semplice, un sentire diverso. Ma Fei non mitizza la vita di Casetta e quella della sua giovane abitante. Non trasfigura, come in Campana, la realtà comune attraverso il filtro dell’arte - soprattutto pittorica - e la visionarietà del poeta orfico. Al contrario, lo sguardo del regista si fa il più discreto possibile, lascia che siano le cose, la natura e le persone, il tempo e i suoi cicli a parlare di sé, osservando nel suo dipanarsi quotidiano la comune eccezionalità di una storia giunta a un momento cruciale del proprio percorso.

La regina di Casetta è infatti una riflessione sul tempo e sul cambiamento, che intreccia abilmente la vicenda del paesino toscano alla storia unica e al tempo stesso universale di Gregoria, costretta a confrontarsi con le paure ma anche le speranze - come il sogno di diventare chef di una nave da crociera - connaturate alla delicata transizione dall’infanzia all’adolescenza. Un film non a caso costellato di continui riti di passaggio, in cui aleggia la consapevolezza che, all’arrivo del prossimo autunno, per Gregoria - e un giorno non molto lontano anche per tutta Casetta - nulla sarà più come prima. Grazie alla delicatezza di Fei, al rispetto dimostrato nel non forzare mai eventi e situazioni, lo spettatore entra a far parte del mondo di Gregoria a poco a poco, partecipando ai suoi turbamenti e alle sue gioie, alla vita serena di un mondo quasi perduto che si dischiude in tutta la sua magica prosaicità.

La storia di Gregoria, grazie soprattutto al modo con cui La regina di Casetta sceglie di raccontarcela, ha la forza di parlare a tutti con l’immediatezza di un occhio sincero e attento alle piccole, importanti cose della vita. Una storia, infine, di luce e di ottimismo, un percorso di maturazione nella consapevolezza che ad una realtà che lentamente scompare - in quanto protesa all’immaterialità chimerica di campaniana memoria - succeda una vita capace di trovare la propria strada nel mondo, nel farsi coraggio per le sfide che l’aspettano.

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Francesco Fei 79 minuti
Italia, 2018
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Bohemian Rhapsody

di Matteo Marescalco
Bohemian Rhapsody - recensione film Synger

Annunciato nel 2010 e girato a partire dal 2017 (in mezzo è da registrare anche l'abbandono del progetto per divergenze creative da parte di Sacha Baron Cohen), Bohemian Rhapsody, iniziato da Bryan Singer e terminato da Dexter Fletcher, si è affermato come uno dei film dal processo produttivo più travagliato degli ultimi tempi. E, in effetti, è possibile affermare che questi continui saliscendi e le spinte centrifughe a cui è stata sottoposta l'operazione siano quanto mai in linea con l'esistenza del personaggio che il film omaggia.

In un certo senso, tutto inizia e tutto termina con la leggendaria performance di 20 minuti in occasione del Live Aid del 1985. Quattro canzoni bastarono per mandare in visibilio il pubblico dei presenti e dei telespettatori di tutto il mondo e per abbracciare l'immortalità del mito. Il Freddie Mercury portato in scena nel biopic di Singer era già Freddie Mercury quando ancora non si faceva chiamare in quel modo. Nel percorso di vita di Farrokh Bulsara, è inscritto il più tradizionale percorso che caratterizza lo schema di un biopic: infanzia modesta, trauma, l'ascensione con una serie di conseguenze da pagare, la caduta, la rinascita con redenzione e, infine, la morte improvvisa. A questo schema si aggiungano una fisionomia quanto meno singolare, la divina estensione vocale di quattro ottave e la galoppante energia, unita al gusto per l'eccesso e lo spropositato - aspetti che hanno trasformato Mercury in uno dei più grandi performer di tutti i tempi - per dare adito ad una serie di ottimistiche speranze nei confronti della buona riuscita del film.

Bohemian Rhapsody inizia con un flashforward, come se la prima sequenza fosse una premonizione divina, e ingrana ufficialmente a partire dal 1970, comprimendo, all'interno del suo racconto, i 15 anni di vita della band fino al Live Aid di Wembley. Dal primo incontro con Roger Taylor e Brian May in poi, il film costruisce un percorso edulcorato e agiografico che procede per accumulo di situazioni e non riesce mai a slanciarsi e a superare le tappe del biopic costruito per trionfare ai Premi Oscar. Il Freddie Mercury interpretato da Rami Malek è una tradizionale rockstar, con i suoi eccessi leggendari, che, tra cadute e risalite, desidera semplicemente sentirsi parte di una famiglia. Dopo una serie di errori, rinsavisce e prosegue sulla retta via. L'urgenza comunicativa esplosiva del vero Mercury, il suo volto dionisiaco e la sua energia poderosa, pur impossibili da riprodurre, nel film di Synger non vengono nemmeno sfiorati.

Piuttosto, ogni vignetta appare ossessionata dalla riproduzione millimetrica della forma del reale che racconta e rimane vittima dell'aura del personaggio che porta in scena. Ogni tentativo di fuga dai canoni è appiattito e addomesticato e il risultato è quello di una storia che si concentra unicamente su un personaggio trattato superficialmente e mai sviscerato. Il film non riesce mai ad assurgere al livello di rito collettivo sui demoni di Mercury, nemmeno quando la forsennata colonna sonora risveglia antiche sensazioni. Senza parlare, poi, di una serie di licenze in fase di sceneggiatura, che avrebbero anche giovato al film se fossero riuscite a piegare gli errori storici in punti di forza atti a creare un insieme spettacolare e narrativamente coinvolgente. Al contrario, la superficialità e l'assenza di immaginazione e di una ricostruzione storica più vera del reale sono il prezzo più duro che Bohemian Rhapsody si è ritrovato a pagare.

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Bryan Singer Rami Malek Lucy Boynton Gwilym Lee Ben Hardy Aidan Gillen Mike Myers 134 minuti
Regno Unito, USA 2018
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L'odore del sangue

di Domenico Saracino
L'odore del sangue - recensione film Martone

Un corpo nudo cammina su una striscia scogliosa immersa nel mare turchese. Pochi istanti. Poi lo vediamo nuotare, sott’acqua, e riaffiorare, mettersi supino, il viso e i seni verso il sole. Si fa strada, con difficoltà, tra la solidità delle rocce ricoperte di alghe e i tratti liquidi, avanza carponi verso un altro corpo nudo, maschile, disteso in posizione fetale, il capo poggiato sulla pietra asciutta, il cinto e le gambe abbandonate. I due amanti si stringono a sé, avviluppati in un abbraccio che ne fa un solo corpo. Il mare, sullo sfondo, è un gorgo limaccioso di alghe e smeraldo, torbido e impastato, come miscuglio di tempere. L’incipit di L’odore del sangue, film che Mario Martone dirige sei anni dopo Teatro di guerra, trasponendo liberamente un romanzo postumo di Goffredo Parise, ha tutto il fascino di quella compenetrazione panica che poi sarà elemento preminente in Capri-Revolution, ultimo lavoro ad oggi del regista napoletano.

Una comunione, quella tra uomo e natura, su cui Martone da sempre indaga, sensibile com’è all’influenza quasi geo-psicologica dell’ambiente sull’essere umano, condizione indispensabile per (ri)trovare equilibrio, sincerità, sentimento ed ispirazione (si veda anche il Leopardi de Il giovane favoloso). Ed è emozionante vedere come i due innamorati – Carlo (Michele Placido) più grande di Lù (Giovanna Giuliani) di almeno trent’anni – esprimano fisicamente, energicamente, tra ruzzolate nell’erba e rincorse nei boschi, l’impeto della passione e la spensieratezza dell’amore, sulle note di quella ballata struggente, senza tempo, che è Amore che vieni, amore che vai, in cui De Andrè ne canta tutta la mutevolezza e labilità.
Ma l’idillio bucolico dura poco, pochissimo. Una telefonata riporta Carlo in città, a Roma, dove lo attendono una stanca vita borghese, frutto del suo successo come giornalista e scrittore, e la moglie Silvia (Fanny Ardant), con cui vive da separato, in un rapporto aperto fatto di reciproche concessioni e conseguenti rivelazioni sulle proprie frequentazioni extraconiugali. Se Carlo frequenta Lù, una ragazza di campagna dal fisico androgino e dalla vitalità dolce, Silvia si è invaghita di un giovane muscoloso col “culto della forza”, un violento fascista (di quelli «che hanno ammazzato Pasolini», dice Parise nel libro, ambientato negli anni Settanta, a differenza del film) di cui per tutto il racconto non vedremo mai le fattezze. Una presenza misteriosa e minacciosa che riaccende la gelosia del marito e lo porterà verso una deriva che sembra ineludibile, al pari di quella del matematico napoletano Renato Caccioppoli, protagonista del primo film di Martone.

Ossessionato, anche di notte, dalla ricerca di un’immagine da associare ad un rivale cui non può neanche dare un volto, Carlo chiede ripetutamente a Silvia di descriverglielo in tutti i suoi particolari, soprattutto quelli più intimi, sessuali, trascurandone tragicamente gli aspetti psicologici e la pericolosità, come se il ragazzo esistesse soltanto in funzione fallica. Ne viene fuori il ritratto di una borghesia romana dalla sessualità perversa, persa nell’edonismo e nel voyeurismo più sfrenato, contrassegnata da una inerzia e vacuità esistenziale già abbondantemente portate sullo schermo da Antonioni (e a lui rimanda, inequivocabilmente, la scena ambientata tra i blocchi cementificati di Burri nel Grande Cretto di Gibellina).

Nonostante Silvia viva in prima persona la violenza, la prepotenza e l’inadeguatezza del giovane a cui si concede, da lei stessa definito in più occasioni «disadattato, confusionario, malato, ignorantissimo», non riesce a sganciarsi, masochisticamente, da questo rapporto imprudente e sembra anzi eccitata ferinamente dall’odore del sangue, della gioventù, di una brutalità vitale testosteronica. Una parafilia che arriva a mostrare chiaramente la propria natura sadica quando Silvia propone a Carlo di fare l’amore, perché «adesso sarebbe tanto più bello», dopo che lui ha provato a strangolarla per mettere fine ad una situazione diventata ormai insostenibile.

Alla fine, però, a mancare è proprio il dolore, quello vero e non finalizzato al semplice eccitamento sessuale. Una sofferenza che sia genuinamente sentimentale, ma anche semplicemente viscerale, qualcosa insomma che inneschi una reazione fisiologica, indirizzata ad abbatterne la fonte. A dominare è l’apatia grigia e consunta di una coppia finita, fatta di individui altrettanto svuotati di spirito (ri)costruttivo. Non è un caso che Martone scelga di raccontare tutta la vicenda, dai momenti più sereni e amorosi a quelli più melodrammatici, senza grandi variazioni di stile e trattamento registico. L’amore, quello vero, tra Carlo e Lù, è tutto nei primi, intensi minuti di L’odore del sangue, prima della telefonata che introduce il giovane contendente, prima che la gelosia e le pulsioni di morte prendano progressivamente il sopravvento, facendo svanire, come un ricordo d’estate, l’amore che venne, l’amore che andò.

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Mario Martone Michele Placido Fanny Ardant Giovanna Giuliani Sergio Tramonti 100 minuti
Italia 2004
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Il rituale

di Mattia Caruso
Il rituale - recensione film bruckner

The Blair Witch Project, La casa, The Wicker Man (Ritual, non a caso, il titolo del romanzo da cui era tratto il film di Robin Hardy). Ma anche I guerrieri della palude silenziosa, Le colline hanno gli occhi, Cabin Fever. Compaiono non appena evocate le decine di riferimenti cinematografici che stanno dietro a un film come Il rituale, piccolo horror boschivo e demoniaco che non teme la ripetizione, il già visto, il deja vu.
Pare non aver bisogno di altro, in fondo, l'esordio nel lungo dello statunitense David Bruckner (alle spalle la co-regia di The Signal e degli antologici VHS e Southbound), capace com'è di riversare nella disavventura di quattro amici inglesi (Rafe Spall, Robert James-Collier, Arsher Ali, Sam Troughton) in vacanza nei boschi della Svezia, tra rimorsi e sensi di colpa per la morte recente e drammatica di un loro compagno, un intero immaginario fatto di foreste e presenze invisibili, capanni abbandonati e simboli esoterici, ma, allo stesso tempo, anche in grado di infondere alla materia trattata un respiro nuovo e rigoroso, un tocco esperto e misurato che fa di questo titolo tutt'altro che originale un film sorprendentemente valido e interessante.

Prodotto dalla Imaginarium di Andy Serkis e distribuito da una Netflix smaniosa di farsi perdonare una serie di titoli di genere tutt'altro che brillanti, Il rituale diviene così un horror che tenta di dissimulare la propria natura di ibrido, lontano sia da facili citazioni e strizzate d'occhio che da derive postmoderne inevitabilmente subissate dalla sua avvolgente immediatezza.
Il risultato è un dramma serrato e claustrofobico infarcito di minacce invisibili e deliri paranormali, una fuga continua dentro una prigione fatta di legno e foglie, innalzata per nascondere (e contenere) un orrore appena intravisto e suggerito, misterioso e oscuro come una leggenda pagana dimenticata.

È così che, lasciatasi alle spalle l'estetica traballante da found footage in favore di una regia misurata e dalla mano ferma, Bruckner dà vita a un incubo dove, nella sua ineffabilità, il Mostro si confonde inevitabilmente con i fantasmi dei protagonisti, con le loro inadeguatezze e i loro sensi di colpa, fino a comparire, suggestivo e terrificante (evidente l'apporto effettistico del Keith Thompson di Guillermo del Toro), in un finale dal gusto catartico e oscuramente fantasy.
Tra misteriosi riti sacrificali e incubi ad occhi aperti, boschi immersi nell'oscurità e divinità brutali, va così in scena la più classica lotta contro i (propri) demoni, una formula fatta di paura, riscatto e luoghi comuni, all'interno di cui il genere ritrova la propria paradossale genuinità scoprendo le (nuove) possibilità di un filone potenzialmente inesauribile.

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David Bruckner Rafe Spall Robert James-Collier Arsher Ali Sam Troughton 95 minuti
Regno Unito 2017
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L'amore molesto

di Carmen Albergo
L'amore molesto - film martone recensione

Con L'amore molesto del 1995 (di recente tornato in sala in versione restaurata) il regista napoletano Mario Martone potè già dirsi promessa ben mantenuta del cinema italiano contemporaneo. L'opera, presentata in concorso al 48° Festival di Cannes,  valse oltre una lunga serie di nomination e premi i David di Donatello al Miglior regista e alle Miglior attrici protagonista e non protagonista, Anna Bonaiuto (nei panni di Delia, personaggio principale) e Angela Luce (interprete dell'anziana madre Amalia).

Martone traspose per il grande schermo il romanzo omonimo, il primo della misteriosa scrittrice Elena Ferrante (con Martone anche co-sceneggiatrice) della cui successiva produzione nel tempo si sarebbe parlato di "Ferrante fever", quanto a fenomeni editoriali, tant'è risulta quasi impossibile, ad oggi, non menzionare la quadrilogia best seller de L'amica geniale, attualmente portata in Tv dall’egregia regia di Saverio Costanzo.
Il riferimento a ritroso diventa imprescindibile e a tratti lampante, se si evidenzia come già ne L'amore molesto ricorrevano topoi comuni, con buona probabilità fondanti l'immaginario narrativo della Ferrante stessa, e che Martone poté restituire più visionariamente che visivamente in senso stretto, per esaltare nelle soluzioni compositive e formali adottate tutta la carica psicologica e enigmatica volutamente in costante implosione e che un tradizionale genere drammatico avrebbe forse sprecato.

Si tratta in prima battuta di Napoli, città brulicante e affollata nelle strade e nei mezzi pubblici, intasata dal traffico delle auto, accalcata sotto la pioggia, in un ostile fuggi fuggi, in cui tutto e tutti paiono dileguarsi, nascondersi, voler scappare e allo stesso tempo inseguire qualcuno, come sé stessi. Attraverso le traversie intime di una donna e le peripezie della sua famiglia, L'amore molesto affonda il coltello nella piaga del maschilismo imperante, nella miseria nera del dopoguerra e nel tempo a venire, quando essere donna ed essere sensuale e solare per natura poteva essere una condanna e sopruso inflitti alla sola posa dello sguardo altrui.

In questo vagare di luogo in luogo, del tempo e dello spazio, domina dunque la violenza domestica perpetrata sotto gli occhi di tutti tra le rampe delle scale condominiali, in una guerriglia di vicinato che si sussegue senza scampo dall'androne in su, salendo di pianerottolo in pianerottolo, tra le mura di casa, le finestre spalancate e poi a strabiombo nei sotterranei ammuffiti e abbandonati, nella semioscurità dell'infanzia abusata,sepolta, taciuta, deformata. Un ciclone che tutto travolge e travalica. Comune anche l'incipit, in cui sonno e sogno si compenetrano e una telefonata notturna squarcia il cuore della notte col frastuono di un fulmine e il baleno di un lampo, per far luce su un presente fittizio, mentite spoglie del baratro del passato.

Martone sceglie di decostruire la narrazione secondo metafore architettoniche di salita e discesa, fasi alternate di catabasi e anabasi, su e giù negli inferi dell'inconscio, così ad ogni discesa (in ascensore fin in seminterrato; sulle scale mobili in metropolitana) corrisponde un flashback, mentre ad ogni risalita (gli spostamenti in funicolare,  i piani a livelli di un negozio di lingerie) segue unagnizione, quasi sempre un’incertezza, mai una verità definitiva. Che la guerra dei ricordi si giochi tutta nella mente della protagonista Delia, donna riservata e scialba, intenta a ricostruire l'ultima notte di vita della madre Amalia, ritrovata inspiegabilmente nuda e annegata, il regista lo palesa e ostenta attraverso il motivo degli occhiali da vista indossati da Delia sin da bambina, lenti che focalizzano e poi si frantumano, perchè Delia appunto smetta di indagare l'esterno e getti il suo sguardo a capofitto dentro se stessa, nella se stessa rifratta, sè bambina e sè adulta in un gioco di specchi e versioni di fatti, fantasticherie e colpe. Mea culpa è l'espiazione che non può più riparare, ma solo traslare dalle allucinazioni alle illusioni. L'illusione bruciata al fuoco di un falò, una stregoneria che muta la vivacità in morte, che mitizza l'eredità salvifica nel rosso provocante di un abito succinto.

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Mario Martone Anna Bonaiuto Licia Maglietta Angela Luce Gianni Cajafa 104 minuti
Italia1995
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Teatro di guerra

di Giorgio Sedona
Teatro di Guerra, Film, Mario Martone, Recensione

Teatro di guerra è un termine polivalente. Contestualizzante. Definisce un’identità di luogo dove convivono azioni disperate e violente. Genius loci di un conflitto interno ed esterno. In gergo giornalistico, teatro di guerra, è la zona dove si combatte un conflitto armato. Ma il teatro di guerra è anche una zona rossa dentro la quale si attua il conflitto teatrale, tra sperimentazione e classicità; inoltre può essere uno spazio di dialettica feroce, affilata, con sé stessi e con gli altri. Partendo dal tentativo di messa in scena della tragedia greca di Eschilo (Sette contro Tebe) nel teatro di guerra dell’assedio di Sarajevo, Mario Martone, spinge al massimo il livello di identità avanguardistica dei suoi Teatri Uniti. Teatro aperto a ogni sperimentazione artistica, teatro che si ritaglia uno spazio trasversale aperto al linguaggio cinematografico, e che in questa obliquità artistica viene narrato. Fucina di talenti, spazio aperto, comprensivo, fulcro intorno al quale si è mossa l’arte teatrale, cinematografica e narrativa degli anni ‘90 napoletana. Teatro nel quale il proscenio sconfina nella polivalenza artistica e in luoghi sconfinati, in spazi senza platee, in strade, condomini, garage, vicoli. E’ attraverso questa complicità tra teatro tradizionale, qui definito nel personaggio sclerotico e classista di Toni Servillo ed il suo teatro stabile in procinto di realizzare una pièce shakespeariana, e il teatro avanguardistico, povero di mezzi, carico di stenti, ma ricco d’intenti, predisposto alla ricerca della fluidità e disciplina del corpo attoriale, di una povertà grotowskiana e che trova nella sua essenza l’intenzione e il bisogno di esistere, che si configura l’anima del film di Martone.

Mondi paralleli che si uniscono in una simbiotica zona di guerra, parallelismi di tensione, di odio, di povertà e violenza, luoghi agli antipodi geografici, oltre la terra ed oltre l’adriatico, dei cordoni rosso sangue che uniscono due teatri di guerra, Sarajevo e Napoli, ed in particolare, in quest’ultimo caso, i Quartieri Spagnoli e la camorra. Un conflitto che fuoriesce dalla quinta teatrale, che si espande per le strade di quartiere, sul confine dove la vita e la rappresentazione si tramandano le abitudini violente e sanguinarie, dove l’attore è parte di una recitazione oltraggiosa, pericolosa, ma allo stesso tempo etica. Ed è proprio in questa eterna lotta, tra idealismo e materialismo, tra principio e sostanza, che si inserisce Teatro di Guerra di Martone. E in questa dicotomica diatriba che il suo cinema si traduce e che Teatro di Guerra si definisce. Uno schiaffo finale arriva proprio dalle parole di Servillo, che durante la cena conclusiva della prima shakespeariana, sentenzia che alla popolazione di Sarajevo non serve il teatro (l’ideale, la vicinanza, la comprensione, la mistificazione positiva) ma le armi (la distruzione, l’interesse, la sostanza volgare e violenta).

Martone non si tira indietro, non dispone una tesi e antitesi senza una sintesi finale, e attraverso i suoi personaggi produce un teatro di guerra che si consuma nei loro animi, di vinti e vincitori. Prima ancora della riflessione sui grandi eventi storici, ed eccezionali personalità poetiche italiane, dell’Italia Risorgimentale, il cinema di Martone già si posizionava al centro di un conflitto d’intenti tra idealismo e materialismo, diatriba intestina d’identità nazionale, in perenne lotta e in conflitto interno nell’animo di ogni italiano. Come a volerci rammentare che i nostri conflitti nazionali sono scaturiti da una scelta tra l’eroismo, l’idealismo, e la sopravvivenza, egoismo, in un Paese diviso, scissi tra l’interventismo candido e il neutralismo bigio, in un Paese diviso, perennemente diviso, tra scuole di pensiero agli antipodi una dall’altra. “Se si deve affrontare un male, che sia senza vergona”, è questa la massima che passa dalla tragedia di Eschilo alle parole declamate a teatro, ed è questa la motivazione e il balsamo per gli animi eroici dei vinti.

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Mario Martone Andrea Renzi Anna Bonaiuto Iaia Forte Roberto De Francesco Marco Baliani Toni Servillo Peppe Lanzetta Salvatore Cantalupo 112 minuti
Italia, 1998
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Santiago, Italia

di Attilio Palmieri
Santiago-Italia moretti film

Santiago, Italia è un film su un'Italia che non c'è più, su una sorta di paradiso perduto, idealizzato non tanto dalla nostalgia ma da esperienze concrete relative a un passato prossimo che, guardato con gli occhi di oggi, sembra lontanissimo. Quel titolo che fin dall'annuncio ha rimandato a un corto circuito, a un errore, a uno smaccato parallelo, viene riempito di una lunga serie di significati e doppi sensi: è ovviamente l'ambasciata italiana, è la comunità di cileni in Italia ed è il nostro paese nell'epoca in cui la vicenda cilena era sia una fondamentale questione politica, sia un tema molto sentito dal punto di vista sociale. Presentato in chiusura della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, l'ultimo film di Nanni Moretti è un'opera profondamente militante, commovente e apertamente schierata, come già altre volte è capitato al regista di Palombella rossa.

Il soggetto del film è il golpe cileno dell'11 settembre del 1973, giorno in cui le truppe armate facenti capo a Augusto Pinochet rovesciarono con la violenza il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto, seppur con una maggioranza relativa e sottilissima. Al centro del documentario ci sono i rifugiati che in quei giorni hanno trovato asilo nell'ambasciata italiana a Santiago e successivamente si sono trasferiti in Italia. Il film affronta la vicenda da diversi punti di vista divisi in sezioni esplicitate da apposite didascalie: si inizia con lo spaccato prettamente politico contenente i valori del movimento facente capo ad Allende, si passa al racconto di quel famigerato 11 settembre, si continua spostando i focus sull'ambasciata italiana, il cui ruolo fu fondamentale in quei giorni di grandissima crisi, e si finisce con il viaggio in Italia e il racconto dell'integrazione dei rifugiati cileni.

Moretti unisce una serie di preziosissimi video di repertorio a una ricca quantità di interviste ai superstiti di quel periodo, facendo domande a persone di diversa estrazione, mettendo a fuoco tanti punti di vista senza mai perdere la coerenza del suo sguardo. È davvero impressionante l'entusiasmo di queste persone che ormai anziane ricordano con grandissimo orgoglio la portata politica di Unidad Popular e dell'unico governo socialista davvero democratico, lontanissimo dall'autoritarismo dei regimi totalitari e dalle gerarchie interno di altri sistemi di ispirazione socialista. Dal punto di vista strettamente politico emerge quanto già all'epoca ci fosse il conflitto tra una componente più morbida convinta dell'importanza di non inimicarsi la borghesia e una più radicale, certa che ormai il partito era abbastanza grande da poter prendere decisioni forti e in maniera convinta.

La parte del film incentrata sull'11 settembre è costruita alla perfezione e può giovare di una serie di video originali di grandissimo impatto, come quelli che riguardano la violenza delle truppe militari e il bombardamento del Palazzo Presidenziale. Moretti intervista uomini e donne cileni mettendo a fuoco punti di vista molto diversi, concentrandosi in particolare su alcuni eventi molto brutali come le torture. In quei giorni di settembre lo Stadio Nazionale divenne un campo di concentramento dove avvenivano torture ed esecuzioni; a questo proposito sono molto forti le parole di Victoria Saez, che nonostante abbia lottato con tutte le proprie forze e con grande integrità, dichiara di non potersela prendere con chi sotto tortura ha fatto il suo nome, perché se questo ha significato far smettere chi gli stava somministrando scariche elettriche ai testicoli allora è stato giusto così.

La forza di Santiago, Italia consiste nel riuscire a dare voce anche agli uomini che stavano con Pinochet, a coloro che in quegli anni sono stati protagonisti o testimoni di violenze e torture. Pur permettendo loro di raccontare la propria esperienza, Moretti è sempre rigorosissimo nel non consentire mai a quel punto di vista di appropriarsi del baricentro del film, mettendo all'angolo l'omertà e l'egoismo di quelle persone in maniera costante.
La voce dei militari è quella di chi specifica la propria identità apolitica, mascherando la complicità attraverso una sorta di finta ignoranza di ciò che stava succedendo. Di fronte alla rabbia di chi in quegli anni è stato con Pinochet e adesso vorrebbe che tutto fosse perdonato, zero a zero e palla al centro, Moretti non arretra di un millimetro, rivendicando la propria assoluta parzialità di sguardo (perché è nell'imparzialità che spesso si annidano le peggiori pulsioni reazionarie), sbattendo in faccia a queste persone il peso di uno degli eventi più tragici del secondo Novecento.

A proposito di violenza, il film dà voce anche alla prospettiva femminile, sottolineando quanto la tortura che avveniva spesso attraverso scariche elettriche su strutture in ferro fosse direttamente collegata all'abuso sessuale. Il sessismo era ovviamente all'ordine del giorno e i traumi subiti sono stati incalcolabili, tuttavia una testimonianza importante riguarda una donna che racconta quanto le femmine essendo più abituate a parlare delle loro sofferenze siano riuscite ad elaborarle con meno problemi, mentre gli uomini comunicandosi poco o nulla le rispettive fragilità portano ancora dentro ferite che rimangono aperte a decenni di distanza.

A dare una possibilità e una speranza a tantissimi cileni è stata però l'Italia, prima con la sua ambasciata, poi accogliendo tantissimi rifugiati sul suo territorio, offrendo loro lavoro, casa e famiglia. I racconti delle giornate in ambasciata sono commoventi ma anche molto divertiti, soprattutto perché si tratta di testimonianze di persone che all'epoca erano venti-trentenni e che quindi hanno vissuto questa esperienza di resistenza come un'avventura continua, per quanto molto spesso caratterizzata da grandi sofferenze. In alcuni momenti il film riesce anche a strappare un sorriso allo spettatore, ad esempio quando la giornalista Patricia Mayorga racconta di come all'interno dell'ambasciata si era istituito una sorta di socialismo reale, che livellava le differenti estrazioni sociali obbligando tutti a cooperare per il bene comune.

L'ultima parte del film è quella più amara, quella in cui si concentrano le parti più positive dei racconti degli intervistati che però al contempo lasciano gli spettatori ammutoliti per la radicale differenza tra il tessuto sociale e politico italiano attuale e quello dell'epoca, restituito dalle interviste dei protagonisti. Sono donne e uomini che senza affetti, vestiti o soldi si sono trovati catapultati in un paese straniero dall'altra parte dell'Atlantico, un luogo governato da una forza politica alleata degli Stati Uniti (e quindi nemica di Allende) ma con all'interno un Partito Comunista fortissimo, sacche di estrema sinistra molto ampie e un vivo interesse per la questione cilena. Commuovono le parole del traduttore Rodrigo Vergara, il quale chiama ancora l'Emilia Romagna “Emilia Rossa”, raccontando della gioia provata stando in luoghi in cui il 70% votava comunista e in cui veniva accolto come un eroe, trovando lavoro e stima da parte di tutti.

Santiago, Italia è il film in cui Nanni Moretti torna a ricordarci quanto ancora abbiamo bisogno di lui, del suo equilibrio, del suo sguardo, della sua capacità di sollevare le coscienze e del suo coraggio di indicare senza mezzi termini la strada da seguire. Perché è questo che fanno gli intellettuali.

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Nanni Moretti 80 minuti
Italia 2018
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Apostolo

di Giacomo Calzoni
Apostolo

Nel cult The Wicker Man di Robin Hardy, tratto dal romanzo Ritual di David Pinner, il protagonista si recava in un’isola delle Ebridi alla ricerca di una bambina misteriosamente scomparsa, ritrovandosi a che fare con una comunità devota alle divinità pagane guidata da Lord Summerisle, una sorta di santone interpretato da Christopher Lee in uno dei ruoli più iconici della sua carriera. Cristianesimo contro paganesimo, raziocinio contro istinto, repressione contro libertà sessuale: queste erano le tematiche principali di un’opera ambiziosa e folle, punto di incontro liberissimo tra l’horror della tradizione inglese classica e il musical, mescolati insieme in un grande calderone per dare vita a un incubo dal sapore folk e genuinamente ambiguo.
Come del resto hanno sottolineato in tanti, è inevitabile guardare Apostolo e pensare al film di Hardy (o al suo remake americano Il prescelto, realizzato nel 2006 da Neil LaBute) come a uno dei punti di riferimento principali per Gareth Evans, che di fatto si muove da premesse narrative molto simili senza per questo rinunciare a un’impronta personale dai tratti molto marcati.

Dopo il buon successo di pubblico e di critica ottenuto con i due capitoli di The Raid, il regista britannico mette da parte la componente action che finora aveva prevalentemente caratterizzato il suo cinema per dedicarsi a un racconto dal respiro più ampio, assecondando quella grandeur di scrittura e messa in scena già dimostrata con The Raid 2 – Berandal e che qui si manifesta in tutta la sua ambizione, attraverso un affresco d’epoca (la vicenda è collocata temporalmente nel 1905) che abbraccia generi diversi seppur rivelandosi geneticamente un horror a tutti gli effetti (e non è difficile capirne il motivo). Ma al di là dell’appartenenza di genere, Apostolo rimane comunque un oggetto difficile da identificare con un’etichetta, distante com’è da qualsiasi forma preconfezionata di racconto da dare in pasto a un (grande) pubblico sempre più pigro e ormai arroccato quasi unicamente sulle icone del proprio passato; e se è vero che l’acquisizione da parte di Netflix ha garantito a Evans una visibilità forse non scontata, è altresì innegabile il rammarico per non aver potuto godere sul grande schermo di un film che fa dell’esperienza visiva e uditiva uno dei suoi maggiori punti di forza: ma questo, naturalmente, è un discorso da proseguire in altre sedi.

L’impressione più grande che si prova di fronte alla visione di Apostolo è quella di un film che crede fortemente nel ruolo, oggi forse un po’ dimenticato o addirittura sbertucciato, del racconto: anche sceneggiatore, Evans supera il limite delle due ore di durata e costruisce un intreccio che si dipana progressivamente, prendendosi i suoi tempi e lasciando che lo spettatore si immerga un poco alla volta all’interno di un film che non sembra possedere alcuna fretta di spiegare tutto e subito. Un approccio quasi classico, improntato molto sull’attesa e poco sul colpo di scena, in netta controtendenza rispetto a molti canoni attuali, e che almeno nella prima metà del film sembra promettere molto più di quello che poi riuscirà effettivamente a mantenere. Questo perché l’indagine del tenebroso protagonista Thomas Richardson, giunto su una lontana isola per riportare a casa la sorella rapita da una misteriosa setta di fanatici, all’inizio sembra il risultato di una perfetta alchimia tra fascino e mistero, complice anche tutta una serie di elementi sapientemente messi in campo da Evans: l’isola sperduta, i riti arcani che regolano la vita degli adepti della congrega, i cunicoli sotterranei che si nascondono sotto le case, il culto verso una divinità pagana ancestrale e sanguinaria. Complice anche il contributo notevole della fotografia di Matt Flannery e delle musiche di Fajar Yusekemal e Aria Prayogi, Evans si dimostra un narratore attento alle dinamiche del fantastico e capace di lavorare sui luoghi comuni del genere (si prenda ad esempio la sottotrama dei giovani amanti sfortunati, che sembra provenire direttamente da La maledizione dei Frankenstein di Terence Fisher, o da Il grande inquisitore di Michael Reeves), mettendo uno di fianco all’altro tanti piccoli tasselli in grado di formare un unico, grande arco narrativo costantemente sul punto di esplodere. Cosa che puntualmente avviene, ma troppo in fretta: tutta la seconda parte di Apostolo pullula di situazioni e personaggi dei quali vorremmo saperne di più, ma che alla fine rimangono abbozzati e in superficie (a cominciare dal protagonista e dalle sue tragiche esperienze passate in Cina, per esempio, qui soltanto accennate); come se i confini del formato film non fossero più sufficienti a contenere una mole di stimoli e idee che invece avrebbe necessitato di molto più tempo (e spazio) per respirare e vivere fino in fondo di vita propria. E quando il cerchio si chiude con una rabbia furiosa che ammanta qualsiasi cosa, lasciando intendere finalmente dov’è che voleva portarci Evans sin dal principio, ci si ritrova con la fastidiosa sensazione di doversi alzare da tavola per nulla sazi: come quando il film scopre le sue carte e si rivela per l’horror che è, storia di una terra che reclama carne e sangue, allontanandosi quindi dai territori di The Wicker Man per avvicinarsi molto di più a quelli del (colpevolmente) dimenticato L’albero del male di William Friedkin.

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Gareth Evans Dan Stevens Michael Sheen Lucy Boynton Bill Milner 130 minuti
USA, Gran Bretagna 2018
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Juliet, Naked – Tutta un’altra musica

di Attilio Palmieri
Juliet, Naked - recensione film

«Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio» disse una volta José Mourinho, uno degli allenatori più vincenti di sempre, oltre che uno dei personaggi più significativi del calcio degli ultimi anni. L'acutezza di questa famosa frase emerge anche traslando il settore di riferimento, come dimostra alla perfezione Jesse Peretz con il suo Juliet, Naked, film presentato nella sezione Festa Mobile nel corso della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival – dove ha riscosso un notevole successo durante tutte le proiezioni. Il compagno della protagonista, Duncan, è un insegnante al college ma soprattutto un uomo ossessionato da anni dal musicista americano Tucker Crowe, sul quale ha realizzato un sito che contiene aneddoti e informazioni di ogni genere. Duncan si considera un'autorità sulla vita e la poetica di Crowe, ma con il procedere del film si scontra con l'evidenza che in realtà conosce molto meno di quanto immagina.

Al centro di Juliet, Naked c'è però Annie, donna sui quaranta che ormai da tanti anni vive una storia d'amore con Duncan fatta soprattutto di insoddisfazioni e compromessi al ribasso, frustrata da un uomo che a ben guardare non ha nulla di particolarmente negativo, ma con il quale non è mai scoppiata una vera scintilla. Il film è tratto da un romanzo di Nick Hornby e possiede al proprio interno tutte le classiche ossessioni dell'autore, compreso il lato più nerd-sfigato di cui Duncan rappresenta un'incarnazione creepy e al contempo umanissima. Cosa succede se una donna si innamora dell'ossessione del proprio compagno? A partire da questa premessa narrativa il film si sviluppa con una cura maniacale di ogni dettaglio, sviluppandosi in una serie di sequenze in cui ogni gesto è finalizzato a uno motivo comico o drammatico e il punto di vista è spiccatamente femminile, grazie a un team di sceneggiatrici tra cui figura anche Tamara Jenkins, il cui ultimo e bellissimo film (Private Life) è uscito da poche settimane su Netflix.

Il film modella la rivisitazione dei tradizionali dettami della rom-com tenendo ben presente da una parte l'ambientazione indie-rock e dall'altra l'intenzione di guardare alla battaglia tra i sessi da una prospettiva femminile. Modificando la prospettiva emerge è un mondo fatto di maschi che vivono delle loro ombelicali ossessioni, bramosi di una irraggiungibile conoscenza enciclopedica e assetati di aneddoti da collezionare. Il discorso del film si estende dall'opera di Tucker Crow alla musica, fino alla cultura tout court: il confronto tra i sessi inquadra alla perfezione una cultura ossessionata dall'intertestualità, in cui ciò che viene prima nobilita ciò che viene dopo e The Wire può essere realmente capita solo se si conosce la Tragedia Greca, così come gli show contemporanei ricevono legittimazione se guardano a The Wire, e poco importa se oltre al tentativo di innalzarsi sulle spalle dei giganti ci sia o meno qualcos'altro di significativo.

Jesse Peretz si prende gioco in maniera esplicita di questo sistema scegliendo forse l'esempio più emblematico possibile, la versione inedita di un brano di culto, quella “nuda”, registrata male, quella che per alcuni rivelerebbe l'autenticità dell'Artista, il vero cuore pulsante del Genio. Naturalmente quello che per Duncan è il segno di una Verità Artistica insindacabile per Annie (come per il suo autore) è semplicemente una registrazione venuta male non meritevole di quel genere di culto, ai suoi occhi così cieco da spingerla ad esporsi in maniera pubblica e netta sul sito del compagno. È al contempo brillante e rivelatorio che Tucker Crow, praticamente scomparso da diversi decenni, si faccia vivo proprio ora e si innamori di Annie proprio a partire dal suo spirito critico.

La regia di Peretz descrive con precisione la costruzione del rapporto tra Annie e Tucker, soprattutto quando legge in controluce le conseguenze del privilegio in relazione al personaggio interpretato da Ethan Hawke. Forte della regia di una lunga serie di episodi di Girls, il regista dimostra di avere la sensibilità adeguata per trattare questo genere di storia e affrontare il percorso di autocritica e rinascita di Tucker dopo anni in cui hanno prevalso egoismo e dissoluzione.
A produrre il film c'è Judd Apatow, una delle figure più interessanti della commedia americana contemporanea, che in questo caso proietta nell'opera la capacità di approfondire i punti di vista maschile e femminile che già era al centro di Love, così come quella di costruire situazioni comiche davvero esilaranti grazie anche alla recitazione dei tre protagonisti. Se Ruby Byrne e Ethan Hawke dimostrano un'ottima chimica, è Chris O'Dowd la versa sorpresa: il suo Duncan riesce ad essere al contempo divertentissimo, inquietante e incredibilmente ricco di sfumature e autentica umanità.

Juliet, Naked lascia i propri spettatori dopo un'ora e mezza esilarante, fatta di battute a ripetizione e una storia che appassiona in tutte le sue parti, ricca di nuance legate alla mascolinità (mettere da parte l'autocommiserazione è il primo passo per ricominciare, per entrambi gli uomini) e con una stupenda colonna sonora, curata e quasi totalmente cantata proprio da Ethan Hawke.

Categoria
Jesse Peretz Ethan Hawke Rose Byrne Chris O'Dowd 105minuti
Gran Bretagna 2018
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