Escape at Dannemora

di Leonardo Strano
Escape at Dannemora recensione miniserie

Nella carcassa di un realismo svuotato di epica Escape at Dannemora fa battere il cuore del suo racconto. La miniserie prodotta da Showtime, diretta da Ben Stiller e creata da Brett Johnson e Michael Tolkin, è infatti un’architettura audiovisiva che per organizzare la sua storia non tiene conto del peso di intrecci nervosi, tensioni muscolari e tracce spirituali, e usa solo lo scheletro della sua struttura formale per costruire il corpo della narrazione e la sua essenza e le sue parti. Non è un difetto, anzi, è l’estremo di un’operazione concettuale raffinata che è tutta grammatica e sintassi cinematografica, e che sceglie con coerenza e precisione come trattare il materiale della sua storia: l’evasione realmente avvenuta nel 2015 di due detenuti dal Clinton Correctional Facility grazie all’aiuto di una dipendente del carcere. Storia vera, da poco accaduta, evento di cronaca su cui ragionare a fondo e attraverso cui impostare una riflessione sul ruolo della riproduzione finzionale e sulla posizione della traduzione cinematografica della verità.

Come impostare il racconto del reale? Quale punto di vista utilizzare? Come gestire l’empatia prodotta dall’avventura narrativa? Sono interrogativi simili che presuppongono e anticipano questa scelta formale, e che trovano risposta in una precisa forma di minimalismo, che si adatta alla situazione di riferimento e organizza la narrazione in tutti i suoi dettagli per inseguire la piena verosimiglianza: la regia di Ben Stiller - fondamentale nell’indicare la direzione e distribuzione minimale degli elementi in campo; i personaggi – agenti narrativi in continuo spostamento; gli spazi – palcoscenico in cui concretizzare l’azione. Tutto sembra scarno ma è proprio nelle geometrie scheletriche che si addensa il contenuto del racconto e la riproduzione assume i connotati del realistico.

L’evasione di Richard Matt e David Sweat assume puntata dopo puntata le forme di una sinfonia lenta e apparentemente senza centro, ma in realtà coordinata per essere un corpo unicamente e organicamente teso alla riproduzione dei fatti, alla fattuale, fredda e congelante verità delle cose che sopravvive oltre le riflessioni sull’empatia e sul sentimento, sulle controversie etiche e sulle fragilità morali. Lo spettatore è turbato e affascinato dall’interpretazione mefistofelica di Benicio del Toro (Matt), dal portamento sofferto di Paul Dano (Sweat) e dal corpo viziato di Patricia Arquette (la dipendente basista Tilly) non per la natura finzionale della loro partecipazione ma per la credibilità presente nelle pieghe dei loro volti, dei loro corpi stanchi e sfatti, emblemi così evidenti della mitologia spiccia di un white trash che non è oggetto di farsa ma soggetto del dramma sociale. Le straordinarie prove attoriali non mimano il vero ma lo attualizzano nei gesti piccoli, nelle inezie, negli occhi e nell’azione. Azione che scorre in due spazi differenti e viene esaminata nelle zone dell’evidenza – i luoghi comuni della prigione – e rivelata nelle zone dell’inconscio – il labirinto di tubi che veicola la fuga, lo sgabuzzino della sartoria. Gli spazi sono attraversati con delicatezza dalla regia, che riunisce sotto la sua attenzione gli elementi dello spartito, in un crescendo di aderenza al reale che culmina nella volontà di non staccare mai e quindi di affondare nelle prospettive e nelle profondità della storia attraverso continui piani sequenza che provocano vertigini attraverso l’esposizione orizzontale e sintetica della cronaca che rovescia la potenziale analisi verticale – fatta di riflessioni sulle gerarchie, sulla classe, sull’impianto sociale – con un inseguimento che come linea retta unisce tutti verso il punto di fuga.

Escape at Dannemora evita di raccontare l’evasione come complessa e articolata vicenda sociale, rendendola cronaca lineare persa tra le sbarre di una cella qualunque. La complessità e l’intelligenza di questa serie risiede non a caso nello scarnificare l’evento da qualsiasi aggancio empatico, pur avendo alcuni raffinati momenti di introspezione psicologica. Il tutto senza patetismi, afflati glorificanti o ricatti emotivi, bensì grazie a un controllo maniacale sull’immagine e sugli interpreti, in virtù di un arco drammatico capace di riprodurre un evento realmente accaduto scegliendo validi punti da cui esaminarlo: legando piedi e mani degli spettatori di fronte alla violenza spoglia di effettistica, forzature e estetizzazioni; tagliando il fiato della finzione con un seghetto banale, usa e getta, brutale.

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Ben Stiller Benicio del Toro Paul Dano Patricia Arquette Miniserie da 7 episodi
USA 2018
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Leos Carax - Mirate al sesso!

di Samuele Sestieri
Leos Carax

Naked Eyes: una donna nuda mostra il seno, al posto dei capezzoli ha due occhi grandi che ci guardano. Siamo nel 2009, Leos Carax, regista maudit per eccellenza del cinema francese, non gira un film da dieci anni (se si esclude il cortometraggio Merde! del film a episodi Tokyo). Nei quaranta secondi di Naked Eyes è racchiuso il mistero del cinema caraxiano. Che è un cinema di sguardo e d'amore, di occhi nudi spalancati che ci riconoscono senza più filtri o mediazioni. Che siano gli occhi umidi di Juliette Binoche, quelli tristi dell’alter-ego Denis Lavant o perfino l’occhio di vetro bianco di Mr.Merde, lo sguardo dei suoi protagonisti vacilla sino a invocare la lacrima. Corpi liquidi, bagnati, traghettati dalla limousine/macchina da presa del suo cinema. Occhi scintillanti, traditi da un bagliore, da una luce che sembra venire direttamente dal muto.

Strano caso quello di Leos Carax: appena cinque film in poco più di trent’anni e un immaginario denso, gravido di passioni e di vita. Imprevedibile, disorganico e disarticolato, aperto a tutti gli scarti delle immagini, alle deflagrazioni e alle grida del funambolico Denis Lavant, figlio ideale di Buster Keaton e di un cartoon, con quella sua faccia vissuta a furia di interpretare Alex, protagonista della trilogia caraxiana (quella che comprende i suoi primi tre film: Boy Meets Girl, Mauvais Sang e Les Amants du Pont Neuf). Novello Rimbaud su celluloide, invisibile, reticente a concedere interviste, distrutto dal film-monstrum del cinema francese, il leggendario, sciagurato e bellissimo Les Amants du Pont Neuf paragonabile solo al ciminiano I Cancelli del cielo per come ha messo in ginocchio un’intera industria.

 

Mauvais Sang

 

La sua carriera inizia, alla stregua di molti registi cinephiles, tra le sedie della Cinémathèque française: l’imprinting godardiano (regista con cui arriva a dialogare nell'imperdibile corto Sans Titre, una sorta di risposta compendiaria a Histoire(s) du cinéma), la passione per Jean Epstein e le sue teorie fotogenetiche, il culto iniziatico per David Griffith. Il cinema di Carax comincia lì e prosegue con gli otto articoli per i Cahiers du cinéma, passaggio quasi obbligatorio dove perfino il fascino muscolare di Sylvester Stallone si insinua nei suoi occhi. A ventiquattro anni l’esordio, Boy Meets Girl cui segue il folgorante Mauvais Sang. Il cinema diventa un ministero di fantasmi vissuti sulla propria pelle.

Carax, madido di sudore e sangue, gioca a fare film illudendo tutti di essere l’ultimo discendente della nouvelle vague, poi li tradisce con improvvisi inserti pop e con la fascinazioni per il pot-pourri e il collage. Un cinema eterogeneo in continuo movimento, che muta al suo interno senza mai stancarsi di sperimentare. I fantasmi della memoria filmica si trasformano in nuove incarnazioni del desiderio: i primi piani di Lulù (Louise Brooks) rivivono godardianamente nel viso della Binoche. Gli amanti sul battello de L’Atalante diventano le ipotesi di un happy end impossibile di Les Amants du Pont Neuf. Tutto questo non ha nulla a che fare con la citazione o il postmodernismo: Carax ha interiorizzato a tal punto il cinema da farne una categoria esistenziale, un modo di leggere e di interpretare la vita. Le immagini si trasformano, il cinema esplode di rosso sangue, la furia selvaggia si scopre atto d’amore: Carax apre il vaso di Pandora. I movimenti epilettici di Denis Lavant diventano danze radiose e folli, inni al modern love del duca bianco. Il suo cinema traccia l'elegia del caos che ci abita: un musical ininterrotto che alterna estasi cromatiche e derive solitarie in b/n. Non è un caso che sarà Annette il nuovo progetto cui il regista francese sta lavorando da anni: finalmente un musical che è già maledetto, posticipato ogni volta in data da definire.

Noi di Point Blank non potevamo esimerci dal dedicare un dossier al suo cinema: che siano clochard o vittime del sesso senza amore, i personaggi caraxiani camminano, corrono, sbraitano, sbavano tra i resti delle cose. Per distruggerli “Mirate al sesso!” perché lì ritrovano se stessi. Sballottolati qua e là come palline del flipper (“Ho passato due anni davanti al flipper” racconta Carax sulla sua gioventù), lanciati come siluri verso sovrimpressioni, dissolvenze, sdoppiamenti, giochi ottici, sempre in lotta contro la morte, oscillano tra videoclip pop, lanterne magiche ed espressionismo tedesco. Ogni film di Carax riflette sul linguaggio e le sue mutazioni. Ossessionato dall’aurea magica del cinema classico, ne lascia tutti i resti al fuoco per vedere dove vanno le limousine di notte: che fine fanno i film quando non c’è più nessuno a guardarli? Le macchine (di trasporto e da presa) diventano sempre più piccole fino a scomparire. I supporti svaniscono, l’essenziale mira all’invisibile: buio. Così finisce Holy Motors, il più alieno dei film extraterrestri di Carax, una vera e propria bussola per orientarsi (o per perdersi?) tra le immagini del presente.

Infine, affrontare Carax significa riflettere sulle contaminazioni sinestetiche che abitano la sua intera filmografia: pensate alla bidimensionalità fumettistica di Mauvais Sang con tutte le smorfie e la caricature del pastiche. Significa cantare l’amore assoluto che sorge tra le macerie del reale, in una Parigi ricostruita in studio con l’ossessione di irrealizzare le proprie immagini come faceva Sternberg. Come se l’unica realtà del cinema fosse quella dell’emozione che ha bisogno di uccidere i propri padri per trovare tutta la sua verità. In lotta contro i media e le immagini codificate che lo hanno generato, Carax insegue un nuovo punto zero, una nuova dimensione fondativa: come Mr. Merde che l'autore stesso definisce felicemente l’infanzia dell’arte. Oltre ogni morale, non rimangono che la furia e il desiderio: Merde insudicia tutto con afflato anarchico, sputa, sporca, sbava, dichiarando guerra a qualsiasi ordine stabilito. Eccitato, trasforma l’oggetto del desiderio in una nuova Madonna da cui farsi cullare. Così Carax può permettersi di affidare il cinema intero a un’unica canzone, a un ultimo, disperato appello: Revivre!

 

LES AMANTS

 

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Se la strada potesse parlare

di Saverio Felici
se la strada potesse parlare - recensione film barry jenkins

Con Se la strada potesse parlare si può finalmente parlare di poetica per Barry Jenkins. Il regista americano, ora al terzo film, ne ha fatto una missione: partire da una tematica controversa, ed elaborarne la variazione sul tema in chiave soffusa, elegante, morbida come seta. La poetica dell'estetizzazione arty applicata a problematiche sociali complesse.
Il plot che If Beale Street Could Talk prende in prestito - dal romanzo del fondamentale e fino a qualche anno fa pochissimo tradotto autore James Baldwin - è volutamente esile, poco più che una traccia. Nella Harlem dei primi '70 vivono Tish e Fonny. Sono giovani, belli, afroamericani. Si conoscono, si innamorano, lei rimane incinta, decidono di sposarsi. Ma le difficoltà familiari ed economiche che il grande evento porta con sé sono poca cosa in confronto a ciò che li aspetta. Fonny viene infatti accusato di stupro, da una donna portoricana che non ha ragioni di mentire. Di fronte a un sistema penale che non ha nessuna fretta di ascoltare la loro versione, Tish intraprenderà un calvario personale per dimostrare l'innocenza di Fonny.

Dal novembre 2016, Hollywood sente la necessità di presentarsi con nuovi idoli. Le vecchie icone dell'industria cinematografica americana (anziani bianchi pacatamente riformisti) non rappresentano più l'ideale di un Paese con disperata voglia di cambiamento. L'incredibile, rocambolesco trionfo dello sconosciuto Barry Jenkins agli Oscar 2017 è stato il big bang della nuova sensibilità che tuttora guida le regole mediatiche dello showbiz USA. Allora, il “conservatore” La La Land fu sconfitto a sorpresa da Moonlight: giovanile, black, pacatamente progressista. Barry Jenkins era già tutto lì, con la sua estetica levigata, i suoi ritmi dreamy, la sua serenità da santone conscious. Un'opera, forse, la cui importanza sociale superava l'effettiva “caratura artistica” (non che nel cinema una simile distinzione abbia molto senso). In Europa molti, di fronte al film, si chiesero semplicemente “perché”. Se lo chiederanno anche con Se la strada potesse parlare.

Il film è la cartina tornasole di questo autore, eroe di un nuovo cinema civile positivo, che tende ponti e che piace. Non è un caso che questa seconda generazione di cineasti afroamericani così consapevoli del proprio ruolo (e di cui Jenkins è leader insieme a Ryan Coogler e Jordan Peele) piaccia tanto all'establishment. Rispetto alla prima storica ondata dei Mario Van Peebles, John Singleton (indirettamente presente qui grazie al recupero dell'immensa Regina King), e ovviamente Spike Lee, questa new wave non ce l'ha con nessuno. Non mira ad attaccare, quanto a conciliare. Finita l'era della contrapposizione politica, inizia quella dell'empowerment: diamo al nostro nuovo pubblico un prodotto suo, che li dipinga belli, forti, incorniciati in bei colori autunnali. E Se la strada potesse parlare è effettivamente bellissimo, pur secondo la concezione contemporanea un po' superficiale di “bello” applicato al cinema (plastiche inquadrature Instagram, musica sinfonica, attori fotomodelli). Bello, si, ma solo quello. Il cinema di Jenkins è sontuoso, affascinante, ma inesorabilmente debole. Ed è la sua stessa natura conciliatoria a renderlo tale.

Se la strada potesse parlare è un film orizzontale: non c'è una visione forte, un punto di vista, un'urgenza che catalizzi il racconto in una direzione. Necessariamente, finisce per vivere più che altro di singoli momenti, intuizioni. Che qui sono due: il violento e teatrale scontro tra le due famiglie all'annuncio del grande evento (scena magistrale, che avrebbe potuto essere al centro del film: il disprezzo della classista e uncle tom mamma di Tish – con quella parlata fasulla e i capelli piastrati in una disperata imitazione dell'élite bianca – nei confronti della più orgogliosa e proletaria famiglia di Fozzy), e un lungo, angosciante monologo del sempre fenomenale Brian Tyree Henry sulla sua agonia di pregiudicato. Momenti appunto, suggestioni che galleggiano in una lunga sinfonia tanto bella a guardarsi quanto priva di carica emotiva e drammatica. Non a caso i due eroi, Tish e Fozzy, rimangono personaggi a metà, sospesi in una passività inquietante.
L'obiettivo prima di tutto politico di Jenkins sembra quello di costruire in vitro l'estetica di un ideale cinema black-aristocratico: se Spike Lee aveva portato Godard prima e poi Scorsese nella sua Bed-Stuy, Jenkins mira alla legittimazione critica, con i santini di Antonioni e Wong Kar-wai attaccati alla cinepresa. Ma non è nessuno dei due, e al netto dei formalismi, della storia di Tish e Fozzy sembra importare poco a lui per primo.
Ampliando un discorso teorico e formale già sviluppato in Moonlight (che aveva dalla sua un'idea strutturale interessante a supportare il bozzetto di gender study), Barry Jenkins punta alla grandeur classicista e si conferma un autore americano importante. Peccato che i suoi film ancora non lo siano. Rimangono opere decorative, graziose, ma drammaticamente sterili.

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Barry Jenkins Kiki Layne Stephan James Regina King Brian Tyree Henry Colman Domingo Dave Franco 117
Usa 2018
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Cam

di Mattia Caruso
cam - recensione film goldhaber

Bastano i primi minuti di Cam, tra screen view di chat room e ragazze (apparentemente) pronte a tutto, per dimostrarci come l'ultima variazione Netflix (e Blumhouse) sul tema di thriller e tecnologia non sia esattamente quello che ci saremmo potuti aspettare.
Perché, proprio alla maniera della sua protagonista, l'opera prima dello statunitense Daniel Goldhaber gioca con il suo ruolo, si diverte a frustrare le nostre aspettative di spettatori/clienti, facendoci credere, per quei pochi minuti, di trovarci davanti all'ennesimo horror di matrice tecnologica – magari intriso di trovate snuff o splatter – e non, piuttosto, immersi in una storia dove è proprio l'identità (o la sua perdita) a diventare l'aspetto più problematico e cruciale dell'intera vicenda.

Ne sa qualcosa Alice (aka Lola, la Madeline Brewer già vista in Black Mirror e Handmaid's Tale), che a quel mondo fatto di ammiratori (paganti) e camere rosa shocking dedica tutta sé stessa, covando il sogno di scalare il ranking delle migliori camgirl di internet. Questo almeno fino a quando il suo posto non viene preso da una sua copia esatta, alter ego identico eppure molto più bravo di lei, un'immagine svincolata dal peso fisico di un corpo, dalle sue paure, dalle sue inibizioni e, per questo, davvero capace di tutto.

È sempre una questione di sguardo, il cinema, soprattutto oggi, quando si confronta con le nuove tecnologie, uno sguardo spesso negato, contraffatto, ingannato, alla ricerca di un'immagine sempre più difficile da inquadrare. Non è un caso, del resto, che sia proprio l'immagine, con tutti i risvolti e le problematiche che la sua riproduzione tecnica comporta, la principale antagonista di un film come Cam, voyeuristico gioco di specchi dove l'identità si sdoppia, si scompone in mille frammenti digitali, e la discesa nell'orrore si svincola da esempi recenti come Unfriended, Searching o Friend Request (incubi in cui la tecnologia è soprattutto pretesto, motore dell'azione), riesumando, ai tempi di Black Mirror, il tema di un doppio declinato in un presente che non ha bisogno di trovate distopiche e futuristiche per dare luogo ai suoi incubi.

Ecco allora, in una degenerazione depalmiana che pare guardare allo Showgirls di Paul Verhoeven e, soprattutto, a Perfect Blue di Satoshi Kon (con qualche deriva onirica che occhieggia a Twin Peaks e al Refn di Neon Demon), che l'immagine che Alice trova "Attraverso lo specchio” si sdoppia, prende il controllo di vite e detta regole, riscrivendo con toni pop e colorati la storia di una dissociazione – quella tra reale e digitale – ormai inevitabile.

Eppure non sono facili moralismi o apologhi apocalittici quelli di cui Cam, scritto dalla ex camgirl Isa Mazzei, va in cerca, forte di una storia che è, in definitiva, un viaggio di formazione dei nostri tempi, l'acquisita consapevolezza che, nel bene e nel male, è con l'immagine (la propria, prima di tutto) che ci si deve confrontare, imparando, riappropriandosene, a padroneggiarla, cercando (attraverso la carnalità e il sangue) quel briciolo di umanità e autenticità che ancora, tra schermi, chat e videocamere, il suo riflesso si porta appresso. Anche al di là dello schermo.

 

 

 

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Daniel Goldhaber Madeline Brewer Patch Darragh Devin Druid Melora Walters 94 minuti
USA 2018
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Aquaman

di Samuel Antichi
Aquaman - recensione film dc

In un Universo cinematografico e immaginifico ormai dominato dai supereroi, la Dc lancia un nuovo personaggio destinato a occupare un ruolo di primo piano nella propria scuderia: Aquaman. Il film ripercorre la storia di Arthur Curry (Jason Momoa), metà umano e metà atlantideo nato da una relazione proibita, figlio di Thomas Curry (Temuera Morrison) guardiano del faro di Amnesty Bay nel Maine, e Atlanna (Nicole Kidman) la regina di Atlantide. Già da bambino Arthur scopre di possedere dei superpoteri, sia capacità subacquee che li permettono di vivere nel mondo sottomarino (respirare sott’acqua, nuotare a velocità supersonica, comunicare telepaticamente con la fauna marina) sia abilità sovraumane su cui può fare affidamento in superficie (forza straordinaria, sensi potenziati e pelle impenetrabile dai colpi di arma da fuoco). Una figura invincibile a metà tra due ambienti, tra due mondi, riluttante a vestire i panni dell’eroe ma pronto a diventare una guida nel momento in cui si tratta di difendere le persone a lui care.

Tocca a James Wan – ormai esperto in saghe cinematografiche, dal genere horror di Saw, The Conjuring e Insidious al blockbuster di Fast & Furious 7il compito di resuscitare il DC Extended Universe (DEU), affossato dai disastrosi Batman v Superman: Dawn of Justice e Justice League, opere che avevano reso palesi le difficoltà per il media franchise di stare al passo dei cugini della Marvel. Il film ripercorre un topos narrativo classico ovvero l’eroe che deve confrontarsi con le proprie origini per riscoprire il suo passato  (ritrovare la madre creduta morta e sconfiggere il fratellastro) in una quest atta a formare i caratteri identitari di un personaggio che deve ancora comprendere le proprie potenzialità e trovare un ruolo nel mondo, sia sottomarino che sulla terraferma. Wan decide di non concentrarsi sulla back story di Aquaman, che viene affrontata in apertura di film e attraverso alcuni episodi rievocati da flashbacks, per dedicarsi meglio all’epicità del racconto, all’azione e all’intrattenimento, chiavi del successo del modello Marvel.  In questo modo il film tralascia alcuno scavo psicologico dei personaggi evitando di gettare luci su dilemmi interiori e conflitti repressi, che più che incupire il tono avevano spesso mancato di efficacia e focus nei precedenti film del DEU. Aquaman è un film fatto a immagine e somiglianza del suo protagonista Jason Momoa, plasmato e modellato sulla sua figura, tra bagnino di Baywatch e Conan il Barbaro (li ha interpretati entrambi), petto nudo, muscoli scolpiti, tamarreide a profusione e spirito spaccone ma dal cuore d’oro. Lontano dall’eroe biondo platino e dal viso pulito e candido dei fumetti, il film opta per una rilettura esotica del personaggio, un classico macho-man bidimensionale di origini hawaiiane; la sua controparte femminile è invece Mera (Amber Heard) figlia di Nereus, re degli Xebel, personaggio indipendente e pragmatico che si discosta dalla classica figura della damsel in distress, dal momento che sarà lei a salvare Aquaman in più di una situazione, configurandosi come compagna da buddy movie o spalla per una screwball comedy piuttosto che principessa da salvare.

Un aspetto molto importante del film, su cui i cinecomics focalizzano spesso la loro attenzione, è assunto dal villain. Oltre al personaggio di Black Manta, pirata terrorista che farà di tutto per portare a termine la propria vendetta e uccidere Aquaman, diretto responsabile della morte del padre, il vero antagonista dell’eroe è Re Orm (Patrick Wilson), fratellastro di Aquaman pronto a conquistare il mondo in superficie come punizione contro l’inquinamento del pianeta causato dall’uomo. Se da una parte il cinecomic è stato visto e analizzato, come del resto tutto il cinema americano, alla luce del trauma post 11 settembre, Aquaman, forse più come sintomo che come vero e proprio motore, getta luce su una nuova declinazione eco-traumatica. Sotto accusa infatti c’è la società civile della terraferma, le cui avidità e bramosia di potere hanno portato danni irreparabili all’ecosistema minacciando il regno sottomarino. Nonostante non sia una dinamica nuova quella della natura che si ribella all’uomo – d’altronde è l’assunto base per il disaster movie – il danno che la società compie attraverso l’inquinamento e il mancato sostentamento delle risorse sostenibili si ritorce qui per mezzo di cataclismi perpetrati da un villain, dal momento che questo è in grado di controllare gli elementi e scatenare la furia dei mari sulle coste Statunitensi, colpite da un disastroso tsunami. L’eco-trauma emerge da un paradosso che contraddistingue la nostra epoca. Se da una parte siamo consapevoli del danno che stiamo facendo all’ecosistema dall’altra non riusciamo ad intervenire concretamente, rassegnandoci al nostro futuro, che era poi l’assunto di base di Tomorrowland di Brad Bird. Ecco che in questo scenario, in cui vengono ancora una volta reiterate le immagini di distruzioni e catastrofi, tanto della superficie quanto del regno sottomarino, Aquaman sembra poter assumere il ruolo di paciere, mediatore tra due ambienti, tra due mondi. Un paladino del regno marino e animale pronto, attraverso il proprio coraggio e spirito di abnegazione, a caricarsi una responsabilità e una missione di cui l’essere umano non vuole ancora prendere azione salvare il mondo da una minaccia incombente più che mai. L’eroe di cui abbiamo bisogno adesso o quello che ci meritiamo?

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James Wan Jason Momoa Amber Heard Willem Dafoe Patrick Wilson Dolph Lundgren Nicole Kidman 143 minuti
USA 2018
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Vice - L'uomo nell'ombra

di Riccardo Bellini
Vice - recensione film mckay

«Ho cominciato con il desiderio di raccontare una storia seria. Lavoravo alla sceneggiatura e dopo alcune settimane finii per rendermi conto che tutte le buone idee, tutte le cose verosimili erano ridicole» disse Kubrick a proposito di Il dottor Stranamore. Spesso la realtà è così tragicamente demenziale che diventa difficile restituirla in modo convincente restando seri. Lo sa bene anche Adam McKay, che con il suo ultimo Vice - L’uomo nell’ombra decide di raccontarci ascesa e apogeo dell’ex vicepresidente americano Dick Cheney (Christian Bale) attraverso una satira spiazzante e dissacratoria, in cui i codici del biopic non solo si trovano irrimediabilmente scardinati ma diventano oggetto stesso di discussione. Del resto, la storia di un ubriacone buono a nulla diventato vice presidente di un perfetto idiota (George W. Bush, alias Sam Rockwell) a capo di una nazione molto potente (gli USA), insieme al quale è riuscito a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica una guerra in un Paese innocente (l’Iraq), sembra già di per sé il soggetto di una farsa imbecille.

McKay (Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy, Anchorman 2, Fratellastri a 40 anni) attinge a piene mani dal suo repertorio comico, con una varietà di invenzioni al limite dello stordente, mescola i registri e talvolta lascia che la tragedia irrompa improvvisa. C’è certa ironia alla Michael Moore, senz’altro, e il rimando a Fahrenheit 9/11 è fin troppo scontato. Ma c’è soprattutto Sorrentino. Con il regista partenopeo McKay condivide il gusto per la metafora di grana grossa (Bush preso all’amo dal pescatore Cheney in Vice, la pecora che muore di fronte ai programmi Mediaset in Loro 1), la rappresentazione dai toni forti e sovente grotteschi del potere, l’immediatezza di certe associazioni (il giuramento al Quirinale di Berlusconi accompagnato dagli scossoni del terremoto dell’Aquila; gli echi delle devastazioni in Iraq mentre Bush annuncia l’invasione alla tv). Ma soprattutto i due registi condividono la consapevolezza che un film su un uomo di potere non può che vivere di immense zone d’ombra, lacune, fatti indimostrabili. Ecco perché entrambi scartano e sovvertono l’idea del biopic, allontanandosene vertiginosamente fino a denudarne quell’arbitrarietà di fondo da riutilizzare intelligentemente. Se dunque non sapremo mai che cosa si sono detti Cheney e la moglie Lynne (Amy Adams) nella loro intimità domestica in un momento di importanza cruciale, e dal momento che ogni biografia non è che un’invenzione, perché non far parlare i due coniugi in versi shakespeariani di macbethiana memoria?

Vice finisce così con l’essere non solo e non tanto un film su un politico bensì un’opera sul potere stesso, sulla sua opacità, sulla sua distanza da chi – noi spettatori compresi – non vi ha accesso (Il divo, Loro). Certo, se con i due titoli sorrentiniani abbiamo a  che fare con due icone del potere, due divi appunto, e dunque con due film sull’immagine, qui al contrario siamo di fronte a un uomo che agisce esclusivamente nell’ombra, che si mostra pochissimo in pubblico, e di certo non ha né il carisma, né l’arguzia di un Andreotti o di un Berlusconi. Vice resta comunque un’allegoria in cui conta più l’immagine dell’opportunismo dilagante nelle maglie repubblicane dopo il Watergate che la storia di Cheney stesso. Ma è anche una spietata e nerissima attuazione del concetto di self-made man americano – e in questo risulta davvero convincente – per cui il sogno americano si trasforma in incubo nel suo stesso farsi.

Purtroppo, una riflessività più attenta avrebbe senz’altro donato maggior spessore a un’opera che rischia di avvilupparsi in un unico e deliberato – per quanto motivato – attacco su posizioni di per sé condivisibili. Le numerose gag, le diverse trovate comiche rischiano di perdere di efficacia proprio perché non supportate da una vera e profonda voglia di approfondimento. Peccato, perché, limiti a parte, Vice si dimostra un’ottima proposta capace potenzialmente di spiccare il balzo sulla maggior parte dei racconti pseudo politici del suo tempo.

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Adam McKay Christian Bale Amy Adams Steve Carell Sam Rockwell Alison Pill 132 minuti
USA, Gran Bretagna, Spagna, Emirati Arabi Uniti, 2018
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The Romanoffs

di Attilio Palmieri
The Romanoff - recensione serie tv weiner amazon

Mad Men è stata probabilmente la serie più amata dalla critica negli ultimi anni, quella più influente sulla produzione a lei contemporanea, quella in grado di vincere per molti anni di seguito i premi maggiori, proprio in un'epoca in cui la proliferazione dei prodotti rendeva sempre più difficile farlo. L'importanza di questa serie, assieme al lavoro fatto nelle ultime stagioni dei Soprano e alla pubblicazione nel 2017 di un bellissimo romanzo d'esordio (Heather, più di tutto), ha contribuito a fare di Matthew Weiner uno dei più apprezzati autori della contemporaneità, colui al quale un player ambizioso e potente come Amazon si rivolge con la convinzione di strappare il migliore alla concorrenza.
Detto in poche parole, The Romanoffs era la serie più attesa del 2018, quella in cui il grande Autore riceveva un'invidiabile batteria di star da utilizzare in piena libertà, insieme a un budget quasi illimitato. Nonostante una trama fino all'ultimo decisamente misteriosa, la struttura portante della serie è stata subito abbastanza chiara: otto episodi antologici che raccontano con un minutaggio iperdilatato le storie dei discendenti o finti discendenti dell'antica famiglia russa che dà il nome alla serie.

Già a partire da queste informazioni si presentano degli interrogativi abbastanza problematici: quale sarà il risultato di tutta questa libertà? Una durata episodica così espansa, che spesso arriva all'ora e mezza, sarà giustificata da necessità narrative precise, oppure si rivelerà solo un modo per mostrare i muscoli? Per quanto si sia voluto fin da subito e con ogni apertura mentale possibile dare credito allo show di Weiner, anche a partire da aspettative legittimamente molto alte, purtroppo le risposte a queste due domande sono state entrambe deludenti, perché in una forma espressiva come la serialità televisiva la libertà totale non coincide obbligatoriamente con la qualità, e soprattutto la durata dei singoli episodi di The Romanoffs non è mai stata in alcun modo giustificata, apparendo in alcuni casi come l'emblema di un progetto autoreferenziale e ombelicale. Del resto, in un panorama televisivo contraddistinto da innovazioni costanti e nuove voci pronte ad arricchirlo, arrivare con la spinta di elevate aspettative può risultare un'arma a doppio taglio, e infatti The Romanoffs ha deluso subito la critica americana a partire dai due episodi iniziali – ovvero il biglietto da visita della serie – che hanno svelato qualcosa di ben lontano dall'opera groundbreaking che ci si poteva legittimamente attendere: la serie esordisce con The Violet Hour, segmento narrativo ambientato in Francia, fatto di dialoghi raffinati ma anche comuni, una trama abbastanza sconclusionata, e che appare soprattutto un esercizio di stile senza alcun mordente; il secondo è The Royal We, forse il segmento più deludente di tutti, una sorta di satira del privilegio piena di problemi narrativi e con una trama che non va da nessuna parte, spiazzante considerato che a firmarla è l’autore di Mad Men; l’episodio, parte degli screener mostrati in anticipo alla critica americana, ha sicuramente contribuito alla forte reazione negativa delle riviste specializzate.

In compenso, ciò che non è mancato a The Romanoffs è senza dubbio l'imprevedibilità, soprattutto grazie a un format che permette di cambiare episodio dopo episodio presentando un'altalena di generi e qualità. Spicca House of Special Purpose, che vede la presenza di Isabelle Huppert e Christina Hendricks; in questi ottimi novanta minuti si percepisce in maniera decisa la scrittura di Mary Sweeney, fidata collaboratrice di David Lynch che in questo caso ha dato vita a un incubo horror sugli episodi di violenza sul set e sui limiti dell'Arte che ha sprigionato tutta la sua urgenza in occasione delle polemiche dopo la morte di Bertolucci. Expectation – quarto episodio – riduce la durata a un'ora abbondante, tagliando le parti superflue e dando ad Amanda Peet la possibilità di interpretare magistralmente una storia che ricorda molto da vicino il miglior Wood Allen. Il punto più alto della serie arriva però con il settimo episodio, End of the Line, che a partire da una gelida Russia racconta la storia di una coppia alle prese con un tentativo molto particolare di adozione che metterà a dura prova il matrimonio dei protagonisti. Per certi versi sembra il seguito di Private Life di Tamara Jenkins e si presenta forse come l'unico momento in cui Matthew Weiner riesce a dimostrare realmente le proprie qualità, forte anche di interpreti eccezionali tra le quali svetta Kathryn Hahn. Infine il sesto e l'ottavo, Panorama e The One Who Holds Everything, sono episodi che vanno da un inutile viaggio a Città del Messico al limite con l'appropriazione culturale ad un racconto biografico sulla transessualità stritolato da un meccanismo narrativo rigido e formulaico, posizionandosi entrambi su un livello di mediocrità che solo a tratti sfiora la sufficienza e che non dovrebbe avere dimora in un’opera che dichiara(va) ambizione a ogni pie’ sospinto.

Siamo infine al quinto (e ultimo episodio in questa ricognizione) Bright and High Circle, per il quale è impossibile non fare riferimento alle accuse di molestie sessuali ricevute dall’autore – specie considerato il fatto che alla vigilia della programmazione della serie non era da escludere di esser lì per assistere al tentativo da parte di Weiner di rispondere alla cosa attraverso ciò che sa fare meglio: raccontare storie. Sotto questo aspetto il quinto episodio è il più problematico di tutti, quello in cui il creatore di Mad Men sceglie di non sottrarsi e ne approfitta per realizzare un'indimenticabile arrampicata sugli specchi che ha comprensibilmente fatto infuriare la critica americana. Bright and High Circle infatti costruisce un discorso sul garantismo che vorrebbe avere una portata generale ma viene sviluppato invece in maniera abbastanza meschina, a partire da un caso molto specifico che coinvolge un omosessuale all'interno di un contesto omofobico. Sfruttando la difficoltà di un protagonista discriminato e per certi versi trattato con pregiudizio, l'episodio pretende di universalizzare il discorso mettendo in bocca a un personaggio molto diverso (maschio, bianco, di mezza età e privilegiato, praticamente l'alter ego di Weiner) un monologo irricevibile, messo in scena, tra l'altro, come una lezione di vita data a due bambini, che in quel momento incarnano il punto di vista dello spettatore (tanto per mettere in chiaro cosa pensava in quel momento l'autore del proprio pubblico). Le parole di Alex hanno un ruolo essenziale perché danno senso all'intera puntata – rendendo tutta la costruzione narrativa eticamente molto discutibile – e avvolgono di vittimismo un discorso dal carattere intimidatorio, che punta a far fare un passo indietro a tutte le vittime di molestie sessuali perché, secondo lui (e di riflesso secondo Weiner), rovinare la reputazione di un uomo sarebbe il peggiore dei mali possibili. Insomma, per usare una definizione di una bravissima giornalista dell'Atlantic: caccia alle streghe in versione estesa da 90 minuti.

In conclusione, se dovessimo analizzare The Romanoffs nel dettaglio e considerando il valore dei singoli episodi, solo tre su otto ne uscirebbero fuori in maniera davvero positiva. Un dato decisamente deludente. Analizzando invece il progetto complessivo emerge un’organicità ben scarsa e l’assenza di un discorso forte portante che faccia da ragione creativa dietro un investimento simile e una libertà autoriale così elevata. È soprattutto questo il motivo principale per cui The Romanoffs costituisce una delle operazioni più deludenti dell'anno, perché proprio nel momento in cui la TV ha pensato di dare tanti soldi e carta bianca a un autore (ovvero il sogno di quelli che credono che più libertà equivalga a più qualità), il risultato si è rivelato tutt'altro che rivoluzionario, bensì un prodotto ombelicale e irrilevante, che molto difficilmente lascerà traccia nella storia della TV.

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Matthew Weiner Aaron Eckhart Corey Stoll Noah Wyle Christina Hendricks Isabelle Huppert John Slattery Diane Lane Griffin Dunne 1 stagione da 8 episodi
USA 2018
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Il primo moto dell'immobile

di Carmen Albergo
Il primo moto dell'immobile recensione film Sebastiano d'Ayala Valva

Il primo moto dell'immobile di Sebastiano d'Ayala Valva è stato il premio speciale della giuria nella sezione Italiana.doc del 36moTFF, motivato dall' "equilibrio solido e curato" nella ricerca d'un artista enigmatico, nonché per la tenerezza di chi affronta la morte da vicino.

Non v'è dubbio infatti sulla suggestione della composizione di certe inquadrature e dettagli, realizzata dall'autore, pur attraverso soluzioni visive semplici, e forse per questo più efficaci nel dare forma e significanza alla complessità di parole e concetti, sovente più ineffabili che silenti. Un silenzio che non è tacere, ma predisporsi all'ascolto di se stessi e in se stessi.

Sebastiano d'Ayala Valva medesimo è difatti voce narrante del suo documentare ed è allo stesso tempo commento esplicativo della voce narrata, oggetto principale d'indagine, ovvero le registrazioni delle memorie di Giacinto Scelsi, il personaggio e la parabola umana che vuol ricostruire e ripercorrere, meno per scopo divulgativo e dichiaratamente come pretesto per saldare il legame col proprio anziano padre, corpo debilitato, al tramonto della vita, che riposa fianco a fianco alla (pre)figurazione di tronco d'albero abbattuto, riverso e inerte. Sondare, quanto e se, sia possibile e percepibile il transito da questa ad altra forma di vita, dall'esserci l'uno accanto all'altro, all'esserci l'uno nell'altro, in un eterno, che è solo passaggio. E se ciò non fosse, molto più semplicemente, tuffarsi nel loro comune immaginario, àncora di salvezza creativa. E dunque, nascita nuova.

L'esposizione prende le mosse da un ricordo d'infanzia dell'autore, il turbamento della prima volta in cui suo padre gli fece ascoltare la musica inconsueta e ostica del compositore Giacinto Scelsi, loro lontano parente. Musica inquietante che suscitò in lui bambino la stessa avversione che ha accompagnato, fatte salve affini eccezioni, tutta la vita musicale di Scelsi. Egli stesso non fu a suo dire un artista-musicista (per lui una degradazione pari a dirsi artigiano, fabbricante senza spiritualità) bensì un medium delle sonorità divine induiste e in quanto tale mai si dichiarò autore delle composizioni manifestatesi tramite le sue mani e le sue intenzioni. Egli imparò a vivere come assenza corporea (solitario, non presenziava ad eventi e non si lasciava mai fotografare, così pure il documentario stesso non ne ricerca l'immagine ma si rimette a giochi d'ombre proiettate sul passato) egli era presenza sonora, genio–strumento disponibile e sensibile all'elettiva ispirazione creativa dell'universo, svincolato dal componimento orizzontale melodico e apollineo confortante, era al contrario proteso alla vertigine della distorsione roboante e magniloquente di una sola nota, alla eco delle profondità viscerali, al dionisiaco primigenio, alle forze del creato, che hanno nel suono per l'appunto il primo moto dell'immobile (quel medesimo "In principio era il Verbo"... o vibrazione). "Scelsi era talmente libero da sembrare matto", così bene lo definisce una delle musiciste, tra gli ultimi e pochissimi suoi collaboratori esecutori, che il regista incontra e intervista per carpire le fascinazioni e le emozioni che Scelsi ha lasciato dietro di sé, segnando indelebilmente non solo i suoi adepti, ma anche il suo autista, che scettico ma speranzoso crede alle parole del nobiluomo quando gli confidò che si sarebbe reincarnato in una maestosa palma.

Così sotto lo sguardo di Sebastiano, il misticismo va a confinare con la cinematica, teoria che studia le forme create dal moto oscillatorio delle onde sonore e le intonazioni gravi e tetre divengono colonna sonora di una sorta di arte ipnotica, quasi un fantomatico cinema Dadaista. Se la storia della musica colta per orchestra e concerto ha sempre guardato con sospetto agli scritti scelsiani, il cinema che oggi gli dedica una pagina probabilmente avrebbe (e potrebbe ancora) meglio apprezzare questa produzione "aliena", non tanto in performance visuali e video arte, quanto proprio nel genere sci-fi, che il corpus scelsiano con le sue gradazioni atonali ricorda d'impatto.

L'intuizione non nasce neppure da questa assonanza spicciola, quanto dal simbolo che identifica l'onda sonora scelsiana, un cerchio bianco dischiuso, che riporta alla mente la scrittura semasiografica al centro del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve. La scrittura, che la sceneggiatura vuole coniata da una linguista, proprio per comprendere il messaggio di esseri superiori discesi sulla terra, comportava le estreme difficoltà e le insidie della decodificazione, della traduzione e del fraintendimento, tanto da paventare una guerra planetaria. Ecco perché per vie poi magari non del tutto traverse, la stravaganza di Giacinto Scelsi appare in definitiva, e come lo stesso regista conclude, il monito di una disposizione d'umiltà verso la vita nel suo respiro più ampio, che è ciclo di momenti, coincidenze di inizi e fine, incarnatosi ogni volta in arti e menti illuminate poi davvero mai comprese dai loro pari (altrimenti tali non sarebbero) sempre sovversivi per il tempo storico, vittime della paura dell'ignoto, riscoperte dei posteri. La storia delle arti ne è piena di questi passaggi "di passaggio".

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Sebastiano d'Ayala Valva Sebastiano d'Ayala Valva Franco d'Ayala Valva Michiko Hirayama 80 minuti
Francia, Italia 2018
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Eighth Grade

di Veronica Vituzzi
eighth grade - recensione film

Essere te stesso può essere difficile, afferma Kayla in uno dei video del suo canale Youtube. Anche se è solo una ragazzina, in procinto di andare al liceo, sa bene di cosa parla: a scuola il suo carattere silenzioso la emargina dagli altri compagni, non sa farsi notare e viene ignorata da tutti. Sembra la trama di un film già visto e in effetti Eighth Grade racconta una storia vista mille volte sul grande schermo, provando però a coglierne nuovi aspetti. Se Kayla cerca faticosamente di farsi accettare dai suoi coetanei indossando una maschera più appetibile, anche suo padre, al tempo della scuola, è stato un giovane anonimo e poco considerato: segno che negli ultimi decenni ogni generazione di giovani ha dovuto confrontarsi con le ansie e gli smarrimenti di un’età di metamorfosi. L’unica differenza, di non poco conto, è che la figlia può ora fingere su Internet, tramite selfie e video in cui appare felice, sicura e ben truccata, una serenità che non prova affatto.

È banale uso comune, per chi è ormai cresciuto, mostrare preoccupazione e scetticismo verso i più giovani: chissà perché paiono sempre più incolti, maleducati e stupidi di quel che eravamo noi alla loro età. È però vero che sarebbe da ciechi ignorare la particolare peculiarità dei nati nei primi anni del Duemila, sottoposti a un’evoluzione tecnologica e sociale di portata immensa e repentina.  Essere se stessi diventa oggi una questione raddoppiata, perché la costruzione di un’identità da inserire nella società va affiancata alla creazione di un’identità digitale sui social network. Poiché sta accadendo proprio in questi anni, è ancora difficile valutarne l’impatto mentale sul senso adolescenziale della percezione della realtà. Abituati a scorrere sul telefono ogni giorno un flusso infinito di informazioni e immagini frammentate, frasi banali espresse con un linguaggio semplificato, i giovani spesso rivelano una drammatica soglia di attenzione, benché abbiano già interiorizzato l’esigenza di essere in posa e sembrare felici, se non nella vita reale, almeno su Internet.

 Non che gli adulti siano più svegli e intelligenti; al massimo sono solo neurologicamente più maturi. Il padre di Kayla non manca di possedere un tablet, e malgrado deplori la scarsa attenzione della figlia alle sue parole non ne riconosce il latente disagio e la crede popolare e felice come lui non aveva saputo essere da ragazzino. L’abitudine a filtrare e rielaborare la realtà tramite lo schermo di cellulari e computer sembra rendere piatto e semplice lo stesso modo di interpretare le cose: Kayla, benché vittima di quel pregiudizio adolescenziale che considera degno di interesse chi sa meglio darsi un tono, lo perpetra essa stessa, disdegnando altri “sfigati” come lei per cercare l’attenzione di compagni che hanno saputo crearsi un’immagine più popolare. Certo, l’adolescenza è stata anche in passato sinonimo di immaturità e del desiderio di omologarsi abdicando alla propria autenticità, ma Eighth Grade sottolinea come a riguardo Internet abbia ora un ruolo amplificatore che può deformare il modo in cui i giovani percepiscono se stessi e gli altri. Soprattutto nel sesso. Nell’adolescenza l’appetibilità sessuale è una delle più potenti monete di scambio per acquisire successo con le persone, e applicata ai moderni mezzi tecnologici facilita enormemente l’esposizione degli individui in forma di immagini e video erotici. Incapace di sostenere una conversazione normale col ragazzo per cui ha una cotta, Kayla cerca di accendere il suo interesse parlando delle foto di lei nuda che tiene sul cellulare; questa eccessiva disponibilità, dovuta a nient’altro che una profonda insicurezza, viene facilmente fraintesa e sembra ovvio – e comodo – per molti pensare che l’esibizione di disinvoltura corrisponda a una reale consapevolezza sessuale.

Il film di Bo Bornham cresce di tono drammatico insieme allo smarrimento della protagonista; poi, dopo un’ultima tesa emozione, si scioglie nella sua dolceamara accettazione di sé e della propria solitudine. Bisogna rassegnarsi alla possibilità che l’adolescenza sia una battaglia dolorosa e irta di sconfitte dove si sotterrano i propri sogni infantili, ma ciò non significa che non se ne possano sognare altri. Eighth Grade si conclude in modo ambiguo, appiattendosi sulla formula di uno slogan che sembra una frasetta motivazionale da pubblicare su Instagram con accanto una foto patinata, ma lascia ai margini un senso più ampio di inquietudine per una generazione di cui non sappiamo immaginare il futuro.

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Bo Burnham Emily Robinson Josh Hamilton Elsie Fisher 94 minuti
USA 2018
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Benvenuti a Marwen

di Samuele Sestieri
BENVENUTIAMARWEN

La paura più grande, a Marwen come nel mondo vero, è quella di rimanere soli. Che siano orfani o conigli, naufraghi o bambole, i personaggi di Zemeckis sono alla perenne ricerca di un contact che li faccia sentire parte di qualcosa. L’intero dramma di Benvenuti a Marwen affonda nel terrore della solitudine, nell’altro come pericolo imminente o fantasia da idealizzare e poi sublimare.

Mark Hogancamp è ubriaco d’amore – come Forrest Gump - ma accecato dalla paura – come Eddie Valiant. Il suo alter-ego è un pupazzo, Hogie, eroico pilota di guerra americano animato dalla motion capture tanto cara al regista. Anche lui cade dal cielo, alla maniera di tanti personaggi di Zemeckis. Hogie ha una spiccata attrazione per le scarpe femminili, capaci di catturare l’essenza delle donne. Appena scampato alla caduta, viene sorpreso da alcuni soldati nazisti. “Non parlo nazista” dirà lui, prima di essere deriso e condannato a morte certa. Hogie però ha un asso nella manica, le sue pupe: un gruppo di bellissime bambole guerrigliere che sterminano i nazisti di turno. Nazisti zombie, per giunta. Poco dopo scopriamo che è Mark Hogancamp, il vero Hogie, a mettere in scena i pupazzi per fotografarli. Nel suo guardino ha perfino creato Marwen, un villaggio in miniatura ispirato a un paesino belga.

Sembrerebbe l’ennesimo film sul filo sottile che separa la realtà dalla finzione se non fosse che a generare Marwen è stato un trauma. In principio, infatti, un pestaggio di natura omofoba da parte di un gruppo di filonazisti che dà vita all’amnesia del protagonista. I calci e i pugni azzerano i suoi ricordi, la memoria scivola via per sempre. Mark una volta disegnava, ora non riesce neppure più a scrivere il suo nome.

Con senso del dolore sincero e mai edulcorato, Zemeckis mette in scena la perdita della memoria e degli affetti. Il trauma è una rimozione forzata dell’identità, una schiavitù psicologica che frena il desiderio e la vita. Mark sostituisce il suo passato rimosso con quello storico della seconda guerra mondiale. Marwen non è infatti l’isola felice, la possibilità d’evasione nel mondo dei sogni, ma un villaggio intriso di sevizie e violenze che reiterano ossessivamente la terribile scena madre della sua vita. Solo le donne sono capaci di salvare Mark dagli abissi cui è stato condannato ("Non lo sai che le donne salveranno il mondo?").

In questo senso Benvenuti a Marwen mette in scena un dolente processo psicoanalitico dove la guerra è prima di tutto contro se stessi e le proprie manie: la dipendenza da oppiacei prende le sembianze dell’affascinante strega Dejah Thoris, il sadismo dei nazisti riflette la violenza degli aggressori. Come Flight, Benvenuti a Marwen è un film sullo stress post-traumatico, sul dolore come propellente esistenziale. Mark non può fare a meno della sofferenza quale parte integrante di un processo terapeutico. L’intero mondo di Marwen, del resto, è un precisa messa in abisso della mente di Mark, costantemente sul punto di vacillare.

Ma il desiderio, alla fine, vince la paura.

Crisi di panico che si trasformano in raffiche di proiettili, incubi rossastri, saturi e deformi che sembrano usciti da fantasie lynchiane. E cosa dire della nuova, affascinante vicina di casa subito trasformata nella bambola più bella? Ancora una volta Zemeckis lavora su un incredibile immaginario di ferite e cicatrici con l’afflato umanista che lo rende – forse insieme solo a Spielberg e Eastwood – uno dei più grandi cinenarratori americani contemporanei. Uno dei pochi in grado di unire lo sguardo classico, debitore di Capra e del cinema hollywoodiano che fu, all’anima sperimentale di chi indaga corpi elastici e cartoonizzati come doppi dei nostri desideri e delle nostre paure più recondite.

Ormai il cinema di Zemeckis è così essenziale da non aver più bisogno di nulla: pensate alla figura della vicina di casa. L’enorme dolore di una madre s’insinua subito nei nostri occhi e nel nostro cuore: nessuna parola, solo due o tre fotografie del figlio perduto. Basta un attimo e abbiamo già la morte nel cuore. Ma poi uno sguardo – quello finale che Mark rivolge alla dolce Roberta – è capace di riaccendere il mondo intero.

Peccato che la critica americana scambi la fede incrollabile nei legami umani in retorica pomposa e stucchevole. Risultato? Ennesimo flop al botteghino ed ennesimo film bellissimo di un regista che non sbaglia un colpo. Speriamo che non lo fermino mai: intanto, anno dopo anno, noi ritorniamo al futuro, come fosse la prima volta.

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Robert Zemeckis Steve Carell Leslie Mann Diane Kruger 116 minuti
USA, 2018
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