Ouija - L'origine del male

di Pietro Lafiandra
Ouija - l'origine del male - recensione film flanagan

A cominciare dal logo retrò della Universal Pictures, continuando con i titoli di testa anni ’60, per terminare con le macchie, le bruciature che compaiono sporadicamente ai bordi dell’inquadratura mimando le storture della pellicola. Tutto in Ouija - L’origine del male dialoga con la contraffazione: la forma, i contenuti, la sceneggiatura. Mike Flanagan, chiamato dalla Blumhouse per provare a dare lustro al precedente Ouija, che aveva ricevuto riscontri inversamente proporzionali tra botteghino (positivo) e critica (estremamente negativa), lo dichiara sin dall’inizio. La storia di una famiglia tutta al femminile (una madre e due figlie) che si trova a inscenare sedute spiritiche per racimolare quel tanto che basta per pagare l’affitto della casa dopo la prematura scomparsa del padre, più che con l’elaborazione del lutto e la paura del fallo — temi comunque centrali, anche se solo abbozzati — ha a che fare con il rapporto tra vero e falso.

Lo spettatore viene forzato a uno stato confusionale dalle continue bugie che gli si presentano davanti fino a quando si scopre incapace di capire a chi o cosa credere, trovandosi a dubitare   persino della stessa natura del film: horror o divertissement? Sembra che i personaggi che si muovono in un’inesistente Los Angeles (non a caso, la patria del cinema: il luogo dove finzione e realtà si scambiano informazioni continue) del 1967 non sappiano far altro che mentire per raggiungere i propri scopi, reali o immateriali che siano: Alice, la madre, che truffa i suoi clienti con le patetiche messinscena di sedute spiritiche; il demone che possiede la figlia, che finge di essere il padre defunto; il parroco, che inventa informazioni false per smascherarne la natura. Gli uomini mentono ai fantasmi e i fantasmi mentono agli uomini in quello che diventa un circolo vizioso e virtuoso che può essere dipanato solo con la più classica delle carneficine.

Il grande pregio della sceneggiatura (firmata dallo stesso Flanagan) è quello di concepire l’ouija e, di riflesso, il film che ne porta il nome, non come strumento realmente orrorifico, come tavola per la comunicazione medianica che possa mettere in contatto con un mondo altro, ma come gioco attraverso cui “ci si spaventa da soli” (per dirlo con le parole di Lina, la maggiore delle sorelle). Non a caso la tavoletta ouija che scatenerà le ire dei demoni che infestano da anni la casa in cui abitano le donne viene prelevata dalla protagonista da uno stock di giochi in scatola ed è successivamente a un finta seduta spiritica fatta da Lina con i suoi amici che ha inizio la concatenazione di eventi. È nel continuo dialogo con il cinematografico che vanno ricercati i (non)significati del film, nell’uso della tavola ouija simile all’uso di una macchina da presa che dà vita ai giochi e agli incubi. È guardando all’interno della lente con cui gli spiriti indicano le lettere, come si guarda nel mirino di una telecamera, che i protagonisti vedono gli spiriti muoversi per la casa; spiriti che, di rimando, come lo spettatore voyeur, spiano le azioni che avvengono all’interno della casa da anni.

É all’interno di questa chiave di lettura che va analizzata la grafica del titolo, con la scritta “Ouija” che appare dentro un rettangolo che ricalca, certo, la struttura della tavoletta, ma che è altrettanto simile al mirino della macchina da presa. Tutto nasce dalla tavoletta e finisce con la tavoletta: il gioco per il gioco stesso. Un enunciato che serve a Flanagan per mettere in luce la natura ludica del film horror, i suoi cliché e i suoi aspetti autoreferenziali che, poi, sono quegli aspetti (i ripetuti jump scares, gli effetti speciali curati ma già visti) che finiscono per limitare il film a una canonica produzione horror contemporanea, per quanto avvalorata dallo stile asciutto e certosino del regista. Con questa operazione Flanagan dichiara furbamente di essere pienamente consapevole della natura del lavoro che gli è stato commissionato, lo costruisce come da copione e si diverte con l’etichetta di “mestierante” che gli è stata più volte affibbiata: si sa, nei giochi si usano delle strategie per ottenere il massimo risultato, e queste strategie, in fin dei conti, sono sempre le stesse.

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Mike Flanagan Kate Siegel Elizabeth Reaser Henry Thomas Lin Shaye 99 minuti
USA 2016
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Sex Education

di Stefano Lo Verme
Sex Education - recensione serie tv netflix

L’attenzione al pubblico degli adolescenti, anche e soprattutto in ambito seriale, ha rappresentato da subito una delle chiavi del successo di Netflix: sia nell’acquisto di titoli di catalogo più o meno già noti, sia nella produzione di serie originali in cui il genere teen è stato declinato secondo varie categorie. L’esempio più fortunato rimane senz’altro Stranger Things, fenomeno di massa in grado di fondere teen comedy, horror sci-fi ed effetto-nostalgia degli anni Ottanta, mentre nel filone drammatico ha suscitato un’eco vastissima la prima stagione di Tredici. Nel settore del dramedy più modulato e dal taglio brillante si collocano Atypical e The End of the F***ing World, mentre costituisce un caso a sé l’eccellente American Vandal, in cui il formato del mockumentary funge da veicolo per uno sguardo lucido e satirico sull’universo scolastico. Scorre invece su binari ben più convenzionali una delle recenti novità della scuderia Netflix: Sex Education, serie britannica in otto episodi ideata da Laurie Nunn, con Ben Taylor e Kate Herron alla regia, resa disponibile nel gennaio 2019.

L’ambientazione privilegiata è naturalmente il microcosmo del liceo, con la sua riproposizione di spregiudicati meccanismi sociali e di complesse dinamiche relazionali, e il personaggio focalizzatore è Otis Milburn, che ha il volto del ventunenne Asa Butterfield: un ragazzo timido, pacato e responsabile, che si mantiene ai margini dell’agone scolastico in compagnia del suo miglior amico, Eric Effiong, più spigliato ed esuberante, il quale fatica a conciliare la propria omosessualità con una famiglia religiosa e conservatrice. Ma il tratto distintivo di Otis, benché paralizzato di fronte al sesso e con difficoltà insormontabili nella masturbazione, risiede in un’approfondita conoscenza teorica della sessualità e dei suoi risvolti psicologici: una conoscenza assorbita da sua madre, Jean F. Milburn (ruolo affidato a Gillian Anderson), stimata sessuologa autrice di best-seller e con una vita privata alquanto vivace.

Nella cornice domestica, il conflitto alla base di Sex Education è appunto quello fra un adolescente insicuro come Otis e una figura materna spesso ‘ingombrante’, a cui il giovane rimprovera una mancata riservatezza e lo scarso rispetto nei propri confronti; un conflitto esacerbato in prossimità del finale di stagione, ma ancora in corso di sviluppo. Uno spazio assai più ampio è dedicato alla scuola, teatro di sfide incessanti per Otis ed Eric: due tipici outsider impegnati a farsi accettare dagli altri e ad accettare pienamente se stessi, a dispetto di ipocrisie, pregiudizi e piccole crudeltà dei loro coetanei. In questa prospettiva il modello di riferimento più prossimo di Sex Education non è tanto il già citato Tredici ma piuttosto Glee, teen comedy musicale arrivata esattamente con un decennio d’anticipo: per l’intensa empatia espressa verso i protagonisti, relegati ai gradini più bassi della gerarchia del liceo; per l’approccio sostanzialmente ironico e talvolta sopra le righe della narrazione, in cui i drammi vengono stemperati nella leggerezza e nell’umorismo; e per la tendenza ad allontanarsi da un registro davvero realistico in favore di una comicità che a tratti rasenta quasi la parodia (seppure in misura molto più calibrata di quanto non accadesse in Glee).

A Otis e al suo deuteragonista Eric si aggiunge fin dal pilot un’altra outsider: Maeve Wiley, che dietro l’attitudine punk da scostante bad girl non tarda a rivelare una profonda intelligenza e una sensibilità pari a quella di Otis. I due, infatti, stipuleranno un bizzarro accordo alla radice del titolo stesso della serie: sfruttare le competenze di Otis per fornire ai compagni di scuola un’opportuna “educazione sessuale”, che permetterà loro di affrontare con maggiore consapevolezza i più disparati problemi in campo erotico e affettivo. In ogni episodio, pertanto, Otis si cimenta in qualità di terapeuta del sesso su un caso specifico, dando modo agli autori di portare di volta in volta in primo piano i vari personaggi secondari; personaggi che, tuttavia, appaiono fin troppo vincolati ai classici stereotipi del genere di riferimento, risultando di rado compiuti e credibili.

Nel legame con la tradizione, del resto, è individuabile il principale limite della prima stagione della serie: tanto nella caratterizzazione dei comprimari, quanto in alcune soluzioni narrative forzate o prevedibili. E nell’economia del racconto, ovviamente, un’importanza rilevante è destinata al plot romantico: il sentimento di Otis per Maeve, frenato però dal senso di inadeguatezza del ragazzo e ostacolato dalla concorrenza di un ‘rivale’, il nuotatore Jackson Marchetti. Amori e amicizie, la scuola e la famiglia, il rapporto con gli altri e una rinnovata coscienza di se stessi sono dunque le coordinate di questo coming of age abbastanza canonico ma pur sempre accattivante: Sex Education non avrà l’ambizione di sfidare il paradigma delle serie teen, ma in compenso aderisce a tale paradigma con un funzionale amalgama di furbizia e gradevolezza.

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Asa Butterfield Emma Mackey Ncuti Gatwa Gillian Anderson 1 stagione da 8 episodi
UK 2019
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Cocaine - La Vera Storia di White Boy Rick

di Saverio Felici
White Boy Rick - Recensione film Demange

La vicenda da cui parte Cocaine – La vera storia di White Boy Rick di Yann Demange è talmente assurda, talmente incredibile e talmente significativa, che poteva soltanto essere vera. Ha il sapore della leggenda metropolitana, e negli anni lo è diventata, o almeno qualcosa di simile: uno spauracchio, una tragedia mitopoietica di una città (Detroit) che da allora non ha fatto altro che sprofondare ancora.
Nel 2017, Richard Wershe Jr. è uscito dal carcere dove ha passato gli ultimi trent'anni di vita. Il film, accolto con comprensibile sospetto in patria, ne racconta finalmente la vicenda, provando a tracciarne la portata spaventosa.

Rick Wershe Jr. (Richie Merritt), 14 anni, white trash di Detroit, figlio di Rick Sr. (Matthew McConaughey), vive insieme al padre nello scenario postapocalittico dell'ex patria del trionfo fordista. Siamo a metà anni '80, e la città è un inferno di povertà e crimine (generò Robocop, per dire). Wershe Sr., un disperato con un'irrazionale fiducia nell'american dream più rampante, vive comprando fucili d'assalto nei Gun Shows, le fiere delle armi libere acquistabili da privati senza documentazione. Il piano: rivenderle da incensurato alle gang di afroamericani che in quel periodo stanno scoprendo sulla propria pelle gli effetti dell'epidemia di crack (non certo della cocaina, come il titolo italiano fa supporre: piuttosto la sua variante mortale e low-cost).
C'è Reagan, e c'è una “guerra alla droga” di dubbia natura da combattere per le strade. Rick Jr., “White Boy” per i ragazzi di colore che costituiscono il 100% delle sue frequentazioni, è nato e cresciuto tra i gangster di quartiere. Se ne accorge l'FBI, che in un'operazione apparentemente segreta spinge il ragazzino allo spaccio, fornendo personalmente crack e soldi. Per un informatore in più, questo ed altro. Se la talpa è giovane, impressionabile e facilmente scaricabile, meglio ancora. Rick scoprirà presto di non poter più abbandonare il gioco, neanche volendolo. E quando la situazione sfuggirà di mano a tutti, finirà abbandonato e sacrificato al giustizialismo USA da quegli stessi che l'avevano spinto nell'ingranaggio.

Tutte queste componenti, tutte queste intuizioni e trame tangenti Cocaine le sintetizza con sapienza in centodieci minuti di grandiosa ricchezza tematica. La tragedia del suo anti-eroe è emblematica di realtà che vanno ben al di là del semplice racconto crime: il coinvolgimento del Governo americano nell'espandersi dell'epidemia; la follia della war on drugs, che genera più morti e vite distrutte di quante non pretenda di salvare; il terrore sociale dei narcotici e la feticizzazione delle armi da fuoco; le generazioni di ragazzini usati come carne da cannone in una guerra che non si può vincere e nella quale le forze dell'ordine hanno più di un interesse in gioco. E White Boy Rick, dato in pasto al sistema da quegli stessi che pretendono di combatterlo, e che non esiteranno ad abbandonarlo nel momento in cui le strategie del Bureau rischieranno di essere rese pubbliche. Ponendosi di raccontare tutto ciò, è inevitabile che il focus del film di Demange tenda a perdersi per strada.

Con un po' di timore, le implicazioni politiche della storia vengono quindi messe in secondo piano. Cocaine vira verso un più consueto racconto scorsesiano di formazione criminale, con lo spettatore chiamato a dare il giudizio morale. Ancora un ragazzo che “ha sempre sognato di fare il gangster”, stavolta perché incapace di immaginare un futuro di benessere nei deprimenti sogni di gloria di quel fallito di suo padre (che vorrebbe aprire una catena di videonoleggio, nientemeno). White Boy Rick racconta - ancora - un rapporto padre-figlio, con il personaggio di MacCounaghey inconsapevole corruttore di quel ragazzo che pure ama sinceramente. Ed è l'amore per il padre, con la sua retorica patetica del self-made man e la fiducia in un sogno americano dai contorni distopici, a spingere Rick Jr. in bocca agli squali: non i ragazzi neri degli hoods, poveri e disperati quanto lui, quanto i mostri che pattugliano le strade notturne dentro automobili blu.

Whte Boy Rick, ignaro insetto schiacciato dai macchinari di un'istituzione metafisica e maligna, è protagonista di una parabola che ricorderebbe più i capolavori televisivi di David Simon che non Scorsese. Ma lo script (a otto mani, Steven Kloves di Harry Potter incluso), un po' per paura un po' per timidezza, sceglie di lasciare sullo sfondo gli elementi politici più spaventosi della vicenda. Cocaine vira sul privato, le implicazioni sociali restano suggerite, e il racconto si chiude anzi con una nota vagamente melensa sulle “scelte sbagliate” di Rick e sui cattivi modelli della sua vita. Il secondo film del regista francese (dopo il non dissimile 71) diventa quindi una tragedia personale sui sogni infranti del proletariato yankee, presentato in uno slancio umanista come un sottomondo multirazziale e solidale, dove la guerra tra poveri non esiste e le minoranze più marginali appaiono unite nella loro miseria, e nell'illusione di tirarsene fuori o morire provando. Un bel dramma umano dai contorni morali, che con più ambizione e dieci minuti in più sul terzo atto sarebbe potuto essere un capolavoro.

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Yann Demange Matthew McConaughey Richie Merritt Bel Powley Jennifer Jason Leigh Bryan Tyree Henry Bruce Dern Piper Laurie 111 minuti
Usa 2018
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Varda par Agnès

di Emanuele Di Nicola
Varda par Agnès di Agnès Varda

È imprendibile, Agnès Varda. Quando pensi che la regista novantenne si sia fermata, abbia raggiunto un porto, all’improvviso scopri che è ancora in movimento, che sta andando da un’altra parte. All’inizio di Varda par Agnès lei è ferma, seduta: tiene un incontro su di sé sopra un palcoscenico teatrale, davanti a un vasto pubblico. Alla fine scompare in una tempesta di sabbia. In mezzo c’è una videoconfessione che è un percorso dentro il suo cinema iniziato 64 anni fa, con l’esordio La Pointe Courte del 1955, girato a Sète dove oggi gira Kechiche. Ma non solo: il viaggio non si limita al recinto limitante del cinema, essendo Varda anche (e prima) fotografa e videoartista. Ed è un percorso solo in senso cronologico: si tratta piuttosto di un movimento frastagliato e oscillante nelle sue opere come specchio di un pensiero, che si consegna volutamente alla divagazione. Un momento è più importante di un altro? Lei si sofferma su quello, senza alcuna democrazia narrativa, per esempio su un uomo che rovista negli scarti del mercato e parla a lungo con Agnès. Un istante, semplicemente, rilevante: d’altronde con Agnès Varda la Nouvelle Vague non è mai morta, anzi è più viva che mai, dunque le gerarchie e il formato tradizionale del racconto sono orpelli da evitare.

Detto così, però, Varda par Agnès potrebbe sembrare un auto-documentario sul cinema di Agnès Varda. Non proprio. A partire dal titolo, Varda secondo Agnès ma anche - in un possibile gioco di parole - lo sguardo secondo Agnès, che pone simbolicamente prima il cognome (la regista) e poi il nome (la persona), in una torsione di significato che lo rende intimo: è Agnès che racconta Varda e il suo modo di vedere-pensare. Quindi Varda par Agnès è anche un film di finzione, apertamente diretto dalla regista quando dialoga con altri e le viene richiesto di tornare sulle tappe della carriera: ecco che, colpo di genio, il carrello con cui è girato Senza tetto né legge prende vita oggi, con Agnès e Sandrine Bonnaire sedute su un carrello che scorre mentre evocano la realizzazione di quel film.

Per i cinefili è una passeggiata nelle pellicole dell’autrice, sottovalutata in Italia malgrado il Leone veneziano, da lei stessa commentate a svelare i meccanismi che le sottendono, in una mescola di teoria e pratica, tra adesione al canone e clamorose fughe in avanti: come la camminata di Corinne Marchand in Cleo dalle 5 alle 7, ripresa integralmente in rottura della convenzione che prevede lo stacco di montaggio. C’è la perenne attrazione per il documentario, a cui sempre si torna, lo dimostra nello stesso film la scena dell’artista di strada incontrato casualmente dalla regista (“Il caso è sempre stato il mio miglior assistente”). Ci sono le dissolvenze colorate de Le Bonheur, arditamente sperimentale, che chiudono le scene non in bianco o nero bensì in rosso e giallo. C’è l’incontro con Jane Birkin in Jane B. par Agnès V., titolo che fa rima con questo, e c’è il lungo lavoro nei musei che produce - tra i molti - l’installazione Potatutopia, opera sulle patate che fu alla Biennale 2003.Ma c’è anche dell’altro. Perché il moto è vorticoso e resta sempre qualcosa che sfugge, il non previsto, l’inaspettato che fa capolino. In Visages Villages Varda bussa alla porta del suo amico Godard, che però non le apre. Qui accoglie una classe di bambini per visitare la videoinstallazione dedicata al suo gatto e poi, all’improvviso, mentre tutti se ne vanno uno torna indietro a rivedere la proiezione. Perché? “Al cinema bisogna andare da soli”, risponde. Ecco: nulla è totalmente dirigibile, la vita e l’arte non sono cerchi chiusi, per questo il tempo non si può fermare ma solo accompagnare, e l’accompagnamento prevede il movimento.

Varda par Agnès di Agnès Varda

Agnès Varda ama la spiaggia, il luogo del cinema francese per eccellenza (Truffaut, Rohmer, Ozon...). Lo aveva mostrato ne Les plages d’Agnès e sulla spiaggia torna qui, manomettendola per esigenza narrativa e costruendo un’installazione sotto i nostri occhi: mancano gli uccelli e allora dei bimbi portano sagome di uccelli per completare la scenografia. Nella sabbia, infine, Agnès si dissolve in un momento che a prima vista può apparire esiziale e definitivo: ma nella consapevolezza della fine c’è uno strano alone di felicità che la circonda, perché l’essere felice è una delle chiavi della donna e dell’artista. “I’m a joyful feminist”, ha detto in conferenza stampa a Berlino, per poi smentire categoricamente un giornalista che l’ha definita una leggenda: “Non sono una leggenda, sono ancora viva!”. E così, a ben guardare, anche quella sembra una sparizione gioiosa, l’ennesima mossa inattesa, un’uscita dal campo dello sguardo. Non per andare sotto la sabbia ma, ancora una volta, da un'altra parte.

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Agnès Varda Agnès Varda 115 minuti
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True Detective (3° stagione)

di Giovanni De Matteo
True Detective terza stagione recensione serie tv

Cosa rimarrà di me e te
A parte le foto e i ricordi?
Questa è la scuola in cui impariamo,
quel tempo è il fuoco in cui bruciamo.

L’ultima puntata della terza stagione di True Detective si apre con una scena apparentemente slegata dalla storia che ci ha tenuti inchiodati fin qui, così come è apparentemente slegata dalla storia la scena finale, su cui torneremo: a scandire il giro di ispezione di Wayne Hays nel campus in cui ha preso servizio, sono i versi di una poesia di Delmore Schwartz, recitati ai suoi studenti dalla voce di Amelia Reardon, che adesso insegna al college.
Siamo quindi in un periodo successivo al 1990, l’anno in cui viene brevemente riaperto il caso Purcell, che il detective Hays aveva seguito con il collega Roland West nel 1980, e antecedente al 2015, quando Hays si presta a farsi intervistare per un documentario sul dramma che trentacinque anni prima aveva sconvolto la comunità della contea di Washington. Ed è l’unico momento in cui Hays (detto Purple fin dai suoi giorni di recog in Vietnam, come l’epocale Purple Haze dell’inconfondibile riff di chitarra di Jimi Hendrix) può abbandonare quell’ombra di ossessione e tormento che lo abbiamo visto indossare con naturalezza finora, mostrando se non il volto della felicità almeno un’espressione di serenità ricomposta, di pace ritrovata. Forse è davvero così, o forse è solo un sogno, un inganno della mente di Hays che ha deciso di venire a patti con se stessa e con il suo passato, dopo avere finalmente raggiunto la verità nascosta dietro un caso irrisolto che per tutti quei trentacinque anni, un giorno dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, non lo ha mai abbandonato.

Siamo tra gli Ozark dell’Arkansas, in una delle regioni più depresse dello stato («È assurdo, vero? Come è morta velocemente questa città?» osserverà nella sesta puntata West. «Non è morta» lo correggerà Hays, «È stata assassinata»). È il 7 novembre del 1980, il giorno della morte di Steve McQueen, quando Will e Julie Purcell, di 12 e 10 anni, svaniscono improvvisamente nel nulla, innescando una ridda di sospetti che, come nella più classica tradizione cinetelevisiva da Peyton Place a Twin Peaks, serve a gettare lo sguardo dietro le quinte della vita apparentemente tranquilla di una comunità di provincia.
Come si confidano a un certo punto Wayne e Amelia, è il caso che li ha fatti incontrare e ha tenuto insieme le loro vite. «C’è sempre stato questo enorme segreto tra di noi. Ed è questo, tu ed io… chi siamo insieme, questo matrimonio, i nostri figli. È tutto tenuto insieme da un bambino morto e una bambina scomparsa», osserva Hays dopo avere incontrato Hoyt, il magnate dell’industria agroalimentare che condiziona la vita politica della zona e l’esercizio stesso della giustizia. I suoi segreti di famiglia finiscono per incombere sul caso nel 1990, al punto da costringerlo a scendere in campo e mettere a tacere i sospetti che si stanno addensando sulla casa, facendo in modo che la polizia affossi nuovamente le indagini. Dopo l’ennesimo insabbiamento, Hays deve confessare ad Amelia qualcosa che difficilmente ci saremmo aspettati da un personaggio così affezionato alla propria idea di sé com’è stato finora: «Vorrei smetterla e andare avanti».

Cosa sono ora che ero anche allora?
I ricordi si rinnovano ancora e ancora.
Il colore più leggero del giorno più breve:
Il tempo è la scuola in cui impariamo,
Il tempo è il fuoco in cui bruciamo.

La poesia di Schwartz letta da Amelia ai suoi ragazzi, Calmly We Walk through This April’s Day, prosegue con questi versi, che echeggiano quelli di Tell Me a Story di Robert Penn Warren, che Amelia leggeva ai compagni di scuola di Will Purcell nella prima puntata e che Hays ricorda proprio nel momento cruciale del finale di stagione, con un’epifania che gli schiude l’accesso alla verità:

Raccontami una storia.
Fanne una storia di grandi distanze e di chiarore stellare.
Il nome della storia sarà Tempo,
ma non devi pronunciare il suo nome.
Raccontami una storia di profondo piacere.

Nella terza puntata, mentre setacciavano i dintorni del parco in cui erano stati visti giocare per l’ultima volta Will e Julie, Amelia aveva spiegato ad Hays che «siamo nel tempo e del tempo, ma pronunciare il suo nome… quando lo nomini, ti separi da qualcosa. E credo che voglia dire che siamo imprescindibili dal tempo».
Finché si è calati nella storia, suggerisce Nic Pizzolatto, che con questa dimostra di essersi lasciato alle spalle i postumi della seconda stagione tornando ad avvicinarsi alle vette della prima, si è una cosa sola con essa e non c’è distinzione tra vittime e carnefici, tra scomparsi e rapitori, tra inseguitori e investigatori; si è tutti parte dello spettacolo e in quanto attori in scena possiamo solo coglierne una prospettiva parziale, necessariamente limitata, distorta. «… le considerazioni che ti fa fare questo lavoro sono terribili. […] Ma queste sono solo congetture, che conducono a quelle che definiamo proiezioni. Distorcono ciò che vedi e offuscano la verità» spiega Hays alla giornalista che lo sta intervistando nel sesto episodio.

Bisogna scendere dal palco per poter avere una visione completa. Ma questo significa non fare più parte dello spettacolo, un po’ come il Wayne Hays del 2015, invecchiato, afflitto dai sintomi dell’Alzheimer, braccato dai fantasmi del passato (le sue vittime, sua moglie…) da cui non riesce in nessun modo a liberarsi. La memoria è il filo che tiene insieme gli ultimi pezzi della sua identità e li unisce all’ossessione per quel vecchio caso che ancora lo perseguita. Anzi, non sembra esagerato dire che è proprio quell’ossessione, quell’idea fissa, quel pensiero totalizzante, a tenere insieme i frammenti della sua personalità ancora adesso, a fare di lui la persona che è.

True Detective mette così da parte gli elementi weird che pure aveva disseminato nelle prime puntate (le foreste di Leng, le bambole di paglia), che non a caso suggerivano una connessione proprio con le indagini di Rustin Cohle e Marty Hart raccontate nella prima indimenticabile stagione (Carcosa, il Re Giallo, le spirali spezzate) e riconduce in una dimensione terrena, rurale e fin troppo realistica l’eterno scontro tra razionale e irrazionale, con l’irruzione improvvisa del caos nella quotidianità di West Finger, un posto come tanti altri nel profondo cuore di tenebra dell’America e dell’Occidente.

La memoria è il tema centrale di questa stagione e il tempo è il nemico contro cui lottano i protagonisti. Il tempo che stringe vanificando la corsa, il tempo che stinge i particolari rendendo sempre più difficile la scoperta della verità. «È sempre troppo tardi» dice Hays a Junius, l’inserviente della famiglia Hoyt che finalmente aiuta lui e West a far luce sulla sparizione di Julie. «E se la fine non fosse affatto la fine?» domanda il fantasma di Amelia manifestandosi nella casa infestata che ormai è la testa del vecchio Hays, insistendo poi sul punto: «Questa vita, questa perdita… e se fosse solo una lunga storia che prosegue all’infinito, fino a risolversi da sola?» Una storia che non può essere racchiusa in ciò che manca (la soluzione tanto attesa), ma che comprende necessariamente tutto il resto (i drammi familiari, i conflitti sociali, l’amicizia, il lavoro, le passioni, le delusioni), che tutto insieme va a comporre il quadro più grande delle nostre vite. Ma a cui quell’ultimo tassello mancante può conferire, malgrado tutto, quel senso che nessuno di noi può fare a meno di cercare.
Se la struttura dell’intreccio fin dalla prima puntata sembra voler riprodurre l’effetto della mente in progressiva, inesorabile «disgregazione» del suo protagonista, con salti continui tra i tre momenti storici in cui la storia si snoda, alcune soluzioni di regia ripetute episodio dopo episodio fino a questo finale rendono alla perfezione i meccanismi della memoria, con gli echi del passato che fanno irruzione all’improvviso nel presente, e la mente che a fronte di un dettaglio finisce per rivivere con chiarezza cristallina scene perdute nel flusso inesorabile del tempo. Sono solo momenti, parentesi di luce avvolgente che irrompono nel cuore di tenebra della foresta in cui siamo costretti a brancolare, la giungla da cui come Purple Hays non potremo mai davvero venire fuori. Ma è per quei momenti che vale la pena lottare e andare avanti, anche se non sappiamo cosa ci aspetta nel buio.

«Non sarebbe una storia che vale la pena raccontare?» ribadisce ad Hays l’ennesima apparizione di Amelia. È quello che Nic Pizzolatto ha fatto con questa terza stagione, con una resa di scrittura e performance (Mahershala Ali, Stephen Dorff, Carmen Ejogo, Scoot McNairy) che non hanno nulla da invidiare alla prima di Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Noi, ancora una volta, siamo rimasti inchiodati ad ascoltarlo. Ci troverà ancora qui, la prossima volta che avrà una storia così da raccontarci.

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Mahershala Ali Stephen Dorff Carmen Ejogo Scoot McNairy Ray Fisher 3° stagione da 8 episodi
USA 2018
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Hush - Il terrore del silenzio

di Mattia Caruso
Hush - recensione film flanagan

Sarebbe fin troppo facile, all'interno di una filmografia fatta per lo più di titoli tutt'altro che banali, collocare un prodotto come Hush - Il terrore del silenzio nell'esigua schiera dei film meno riusciti di un autore tra i più interessanti e incisivi del panorama horror contemporaneo. Perché, se è vero che questo piccolo thriller d'assedio, prodotto da Blumhouse, distribuito da Netflix e diretto da quel Mike Flanagan passato agli onori della cronaca per cult a basso costo come Absentia e Oculus, è quanto di più semplice e immediato si possa immaginare, è anche vero che sarebbe ingiusto liquidarlo come un semplice passo falso all'interno di una schiera di titoli a prima vista ben più significativi.

Certo, Flanagan, nel corso di una manciata d'anni, ci aveva abituato a ben altro, capace com'è sempre stato di gestire e mischiare generi in maniera originale e poco convenzionale, eppure c'è qualcosa, in questo film sfacciatamente di serie b, in grado di farci intravedere uno sguardo preciso nascosto dietro a una regia solo apparentemente invisibile e dalle trovate risapute.

Guardando meglio la lotta per la sopravvivenza di Madison Young (Kate Siegel), scrittrice sordomuta alle prese con uno psicopatico più che determinato a irrompere nella sua casa sperduta nel bosco, pare infatti che il futuro regista di Hill House, messo da parte un cinema impregnato di fantasmi, lutti e sensi di colpa, abbia deciso di rinunciare al soprannaturale e a qualsivoglia approfondimento psicologico per cedere il passo al più classico degli home invasion (da Cane di paglia fino a The Strangers, i riferimenti si sprecano), arricchendolo, però, di un semplice e salvifico guizzo inventivo. È la mancanza (fisica), infatti, il perno attorno a cui ruota l'esile quanto vincente trovata di Hush, una privazione sensoriale che si rispecchia in quella della sua protagonista (incapace di chiedere aiuto ma, soprattutto, di sentire il pericolo), facendo dell'handicap il motore di un'azione in cui è il suono (e la sua negazione) a diventare l'elemento fondamentale per costruire la tensione e la suspense di un film fatto di silenzi, pochissimi dialoghi e improvvisi soprassalti emotivi.

E se è vero che questa intuizione sarà ben presto ripresa da altri prodotti più elaborati e compiuti (uno su tutti, A Quiet Place), è innegabile l'abilità che sta dietro a questo film dal ritmo implacabile e ben calibrato, un incubo claustrofobico che Flanagan colora di lievi ma evidenti suggestioni kinghiane.
Sì, perché forse è proprio alla luce dei film successivi, che Hush acquista il suo principale valore, quasi fosse non più solamente un semplice (e dignitoso) esercizio di stile, ma la prova generale di incubi e orrori futuri. Come non vedere, del resto, nella (almeno apparente) vulnerabilità della protagonista (una scrittrice in piena crisi creativa, quindi di per sé già kinghiana) o nei suoi brevi, stravolti monologhi interiori, un'avvisaglia e un vago abbozzo proprio di quel Gerald's Game il cui adattamento, di lì a qualche anno, aumenterà la schiera di successi del regista, regalando alla sua filmografia l'ennesimo personaggio femminile forte e determinato?

Scombinando ancora una volta le aspettative, Hush si dimostra così non solo l'esempio lampante dell'abilità di Flanagan di muoversi con disinvoltura tanto all'interno dell'horror più evocativo quanto negli spazi angusti del thriller più brutale, ma anche un titolo entrato a pieno diritto nel percorso di un autore capace di parlare agli spettatori anche attraverso le sue opere minori, persino nell'assordante silenzio di quelle che non hanno bisogno di parole.

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Mike Flanagan Kate Siegel John Gallagher Jr. Michael Trucco Samantha Sloyan 81 minuti
USA 2016
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La casa di Jack

di Giorgio Sedona
La casa di Jack, Lars Von Trier

«Lo scopo finale dell’assassinio considerato come un’arte è precisamente lo stesso di quello secondo aristotile, cioè “purificare il cuore dalla pietà o dal terrore”. Ora, se ci può essere terrore, come potrebbe esserci pietà alcuna davanti a una tigre distrutta da un’altra tigre?» Thomas De Quincey – L’assassinio come una delle belle arti

Egocentrismo, volgarità, maleducazione, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, sessismo. Aggettivi tutti associati ed associabili a Lars Von Trier. Ed invece no, o meglio, non solo, anche cartelli diegetici in seguenza esposti da Jack durante uno dei vari siparietti brechtiani di intermezzo tra un capitolo e l’altro, tra un omicidio ed un altro. La confessione psicanalitica di uno psicopatico che coincide con la confessione di un regista sociopatico. La strada di Jack\Lars non porta in nessun girone infernale, non presuppone stasi, punizione, pentimento, per loro vale la regola dell’assoluto, o tutto o niente ( o capolavoro o nefandezza), o salvezza o dannazione, o l’inferno lo si raggira o si scivola nel gorgo di lava e fiamme. L’amato\odiato\censurato\respinto\adorato La casa di Jack è il film di arrivo di un regista che vuole metaforizzare il suo cinema. Prodotto metacinematografico nella sua valenza artisticamente autobiografica, nel suo incedere saggistico, nella sua espressività che rasenta l’elzeviro, Lars e il suo doppelgänger Jack formano un due associativo che cammina su uno stesso percorso di sincera dannazione. Nella metafora del lampione si sintetizza tutta la necessità di cinema del regista danese. Una necessità patologica, un bisogno irresistibile che porta Jack all’omicidio e Lars alla regia. Piacere e dolore, bipolarismo manicheo che restringe la trinità del bisogno, e della solitudine, definita in Nymphomaniac dal Cantus Firmus. Le tre voci: la voce bassa (il rituale), la voce mancina (il desiderio), la voce destra nonché l'ingrediente segreto (l'amore) si riducono a due: Jack e Lars. Il sangue e lo stile. Dualismo che potremmo ridurre all’immagine dell’uomo che avanza tra un lampione e l’altro, dove l’ombra che precede e decresce e l’ombra che segue e cresce sono dapprima uno e poi l’altro, il suo doppio e il suo simile. Come se nel movimento Dottor Jekyll venisse consumato da Mister Hyde, se William Wilson venisse assorbito da William Wilson, se Peter Schlemihl non riuscisse più a scrollarsi di dosso l’ombra perduta, se il narratore di Maupassant venisse risucchiato dalla Horla, e tutti, allo zenit di luce, al passaggio perpendicolare sotto al nuovo, e raggiunto, lampione si unissero e sentissero il bisogno di agire\creare. Un atto (un omicidio? Un film? Un libro?) che riesca a muovere il bisogno verso l’appagamento per far rinascere il desiderio. Una strada perversa nel piacere inconfessabile. Un percorso nell’arte e nell’arte dell’omicidio, nella bellezza del gesto affilato, nello stile che si sporca di sangue. Lars Von Trier dirige il film come se ripulisse, ossessivamente e compulsivamente, una scena del crimine. Questa necessità di intagliare il suo cinema nel carbonio, cristallizzandolo in un reticolo tetraedico, è parte dell’insicurezza del solitario, del vagabondo, del pazzo prima ancora di diventare artefice, prima di diventare bagatto, questa sua disposizione a non lasciare sfuggire nulla al suo controllo è una casa claustrofobica fin troppo definita dal suo carattere spigoloso, una struttura ad angoli acuti, taglienti, che non traspira aria cinematografica, fluidità imprevista, libertà espressiva, ma che restringe dentro ad una forma adamantina, dentro ad un pensiero senza compromessi: il suo e di nessun altro. Ed è proprio questo il limite di Von Trier ed il limite di Jack: il troppo controllo. La stessa patologica ossessione che farà tornare più e più volte Mr Sofistication sulla scena del crimine rischiando di essere catturato. La stessa ossessione per il materiale, mattoni, legno, corpi umani, una casa cinematografica di corpi che apre la porta verso l’inferno dantesco. E torna ad essere l’arte il contrappunto necessario per rappresentare un atto artistico, per tratteggiare un’impalcatura di sangue e tessuti organici. Lars, il narcisista, Jack, l’egocentrico e l’impulsivo, avanzano nella (e tra) la ragione, la diplomazia, la comprensione, l’ascolto di un traghettatore (Bruno Ganz nella sua ultima apparizione), Verge, mediatore tra gli istinti e le passioni, medicina curativa, entità betabloccante. Luce splendente e contraltare simbolico alla dark light, al negativo fotografico che orienta lo sguardo verso l’oscurità, verso la strada poco battuta e laterale, verso la provocazione, l’idealismo sfrontato, la sincerità brutale di un carattere cinematografico (Lars) ed incarnato (Jack) a cui non importa nulla del giudizio dello spettatore, nonostante tenti in tutti i modi di farsi notare. Dalla parabola della tigre e dell’agnello di Blake alla famosa tela di Delacroix, passando per le variazioni di Glenn Gould – perché il cinema di Von Trier è anche e soprattutto questo, è variazione intorno ad uno stesso tema (povero Jorgen Leth!) - le immagini e gli intrecci apodittici percorrono una dimostrazione dell’artisticità, o meglio della creatività, come fenomeno che, per l’istinto di Jack\Lars, deriva dalla putrefazione, dal nettare del creato. Ma la dialettica presuppone l’intervento sempre della ragione a ricordare che non c’è arte se non c’è amore. Distruzione cinica dell’artista e cinetica sentimentale che si danno battaglia a sei piedi sotto terra. Pensare alla tigre come ad un aspetto fondante di un processo necessario all’elevazione della vittima (l’agnello) ad arte, divina ed imperitura; contestare la religione per la sua funzione consapevole di oppiaceo per l’istinto, palliativo alla naturale ciclicità tra vittima e carnefice; o vedere nello Stuka (La tromba di Jeriko) un sadico capolavoro, nonché ragionare sulla bellezza presistente (L’albero di Goethe) nel terrore e nella tragedia di Buchenwald, similitudine forte ed ampiamente spiazzante di una concezione taoista dell’esistenza, più che le innumerevoli scene di violenza, sono queste le tematiche, esposte in maniera così manichea e netta, che potrebbero non far accettare la visione da parte di una buona fetta di pubblico. Ma d'altronde questo è Lars Von Trier, prendere o lasciare, un regista che in ogni film esprime sempre (e con estrema sincerità e lucidità) la sua, accettabile o ripugnante, filosofia esistenziale. Non ci possono essere scale di grigi in una personalità che crede di essere il creatore ed il distruttore dell’icona, l’anticristo del cinema contemporaneo, l’anticristo del canone comune, l’anticristo dello sguardo libero; inflessibile, antipatico, l’eretico per eccellenza (e per scelta consapevole).

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Lars Von Trier Matt Dillon Bruno Ganz Uma Thurman Siobhan Fallon Hogan Sofie Gråbøl Riley Keough 155 minuti
Danimarca, Francia, Germania, Svezia
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The Front Runner - Il vizio del potere

di Riccardo Bellini
The front runner - il vizio del potere recensione film reitman

Probabilmente Gary Hart sarebbe stato un ottimo presidente USA. Avrebbe potuto cambiare la storia del proprio Paese, influenzando non poco con la sua elezione il corso dei futuri decenni politici fino ai giorni nostri. E invece fu proprio l’incapacità di leggere i mutamenti del proprio tempo a determinare la sua sconfitta. Senatore democratico del Colorado in corsa per le elezioni presidenziali, intellettuale dai saldi principi etici e dall’incrollabile idealismo, nonché candidato favorito dai sondaggi, Hart vide sfumare la propria corsa alla Casa Bianca a seguito di uno scandalo sessuale che nel 1987 travolse la sua vita e la sua carriera, quando fu accusato dal «Miami Herald» di intrattenere una relazione extraconiugale con la giovane Donna Rice.

Con The Front Runner - Il vizio del potere, attraverso la parabola mediatica di Gary Hart (Hugh Jackman), Jason Reitman fotografa un momento di passaggio fondamentale non solo per la politica americana ma soprattutto per l’evolversi della sensibilità occidentale sul rapporto tra dimensione pubblica e privata. Reitman punta il dito contro una stampa sempre più cinica e approssimativa, colpevole di avere nutrito e assecondato senza scrupoli l’ingerenza della vita privata in quella politica, trasformando il giornalismo più qualificato in una caccia all’ultimo scandalo. E in tempi come i nostri, in cui la giustizia mediatica prende spesso il posto di quella legale, in cui - immemori della lezione di Céline - si tende a condannare l’operato artistico di un autore in base alle nefandezze commesse da quest’ultimo mentre paradossalmente l’America assume il volto contradditorio di Trump, la storia di Hart avrebbe potuto diventare il veicolo per un’interessante, persino scomoda riflessione su questi temi, ben al di là del mero contesto politico di riferimento. Ma in The Front Runner mancano a Reitman quella grinta e cattiveria dimostrate in film come Thank You for Smoking o Tra le nuvole, uno sguardo più deciso che avrebbe potuto giovare al film donandogli una maggiore lucidità. Il racconto finisce piuttosto con il ridursi a un’operetta informativa, densa di didascalismo per quanto scorrevole, che si limita a muovere sacrosante accuse alla gogna mediatica senza trovare però la capacità di riflettere con incidenza intorno a un sistema su cui tuttora, e forse mai come ora, dovremmo interrogarci.
Hugh Jackman convince nella parte della vittima illustre Gary Hart, con una recitazione contenuta. Convince meno invece la scrittura del personaggio, tanto da risultare fin troppo calcato nella sua ingenuità e nel suo idealismo a tratti ottuso. Le esigenze sono però chiare e ammissibili: contrapporre una visione anacronistica del fare politica a un mondo in cui – quando fa comodo – i panni sporchi si lavano soprattutto in pubblico, perché «le telecamere sono ovunque». Non a caso, con Reagan, l’immagine del politico come divo hollywoodiano si era già concretizzata e la Guerra del Golfo, la prima in diretta TV, scoppiò ad appena tre anni dallo scandalo Hart.

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Jason Reitman Hugh Jackman Vera Farmiga J.K. Simmons Sara Paxton 113 minuti
USA 2018
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Mr. Jones

di Andreina Di Sanzo
Mr Jones - recensione film Berlinale

Diretto da Agnieszka Holland, Mr. Jones è la storia vera del giornalista Gareth Jones che ha denunciato per la prima volta la carestia indotta da Stalin in Ucraina.

In concorso alla Berlinale 2019, il film della Holland mira a riportare alla memoria una pagina spesso dimenticata della storia del Novecento. L’intrepido reporter gallese, dopo essere stato uno dei pochi a intervistare Adolf Hitler prima della guerra che sconvolse il mondo, ha come obiettivo quello entrare in Russia per strappare una conversazione a Stalin. Integerrimo e serioso, Jones si aggira nella Mosca notturna dei vizi e della corruzione, senza lasciarsi affabulare da quel mondo vizioso e sotterraneo.
Mentre l’ossessione di Jones è quella di incontrare il dittatore russo, sulla sua strada incombe un’ombra che lo porterà a una scoperta sconcertante. Dopo la morte misteriosa di un collega e amico, il giornalista si ritrova in mano un’inchiesta dello scomparso sulla carestia in Ucraina scoprendo chi si cela dietro quell’orrore: il regime sovietico. Da qui la discesa nell’inferno che il popolo ucraino fu costretto vivere, tra cannibalismo, malattia e dolore. Così Jones, caparbio e tenace, non si ferma di fronte ai mille tentativi di sabotare la sua ricerca e riesce per primo a fare luce su una pagina così nera. Gareth documenta l’orrore ma il film non arriva mai a uno spessore che possa interrogarsi sia sull’etica del lavoro del reporter, sia sulla questione storica. Tutto viene giustificato dalle scelte barocche della forma, una forma che appesantisce senza restituire spessore a un film dal tema così interessante.

Inutilmente pomposo anche nel montaggio, al limite del vaneggiante, il film non riesce a dare neanche al protagonista la profondità necessaria: Gareth Jones appare solo come un perseverante giornalista ossessionato dalla verità, il suo personaggio viene ridotto alla mera superficie del suo lavoro, difficile così empatizzare con lui.
Lo sfarzo registico e fotografico finisce per piegarsi su se stesso e non riempie il vuoto di una vicenda raccontata solo approssimativamente. Una pagina potenzialmente così ricca di spunti da cui partire per capire ma che si concentra su un’estetica inutilmente cerimoniosa.

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Agnieszka Holland James Norton Vanessa Kirby Peter Sarsgaard 141 minuti
Polonia, Regno Unito, Ucraina
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Alita - Angelo della battaglia

di Matteo Marescalco
Alita Angelo della Battaglia-recensione film Rodriguez

Il primo aspetto di Alita - L'angelo della battaglia che non lascia indifferente persino uno sguardo poco allenato consiste nella gestione dell'imponente battage pubblicitario del film. Le scelte di marketing, infatti, hanno prediletto sottolineare il nome del produttore, James Cameron, piuttosto che quello del regista, Robert Rodriguez, anzi, hanno decisamente spacciato il regista di Avatar come il padre di Alita. D'altronde, il "re del mondo", sin dal lontano 2000, accarezza l'idea di un adattamento dell'omonimo manga di Yukito Kishiro, senza mai riuscire a trasformare la volontà in realtà. Il tempo dedicato alla lavorazione di Avatar, poi, e allo sviluppo dei suoi sequel hanno reso necessaria la ricerca di un utero artificiale per portare alla luce Alita. Impossibilitato a dirigerlo, con un commovente atto di fede, il regista di Titanic ha affidato il proprio tormento ventennale a Robert Rodriguez, un figlio d'arte ormai relegato al dimenticatoio, ma il cui cinema è da sempre stato caratterizzato da una vena cyberpunk ed adolescenziale che lo rendeva adatto al ruolo.

Il ritorno alla vita è il pilastro portante di Alita. Sin dai primi istanti del film, quando il dottor Dyson Ito perlustra la discarica dove cadono i rifiuti dalla città sospesa in cielo di Zalem e trova la parte centrale di una ragazza cyborg, che decide di innestare nel corpo, mai utilizzato, che aveva preparato per sua figlia Alita. La ragazza non ha memoria di sé ma porta nel proprio cuore un'antichissima tecnologia perduta e progettata per la battaglia. E allora «I see you», non resta altro da fare che aprire gli occhi e andare alla ricerca della propria identità, proprio a partire da quegli organi di senso che, più di tutti, custodiscono il segreto di ogni corpo, sia esso meccanico o umano. Attraverso i combattimenti e un naturale training emotivo, i ricordi di Alita tornano a riaffiorare. E, insieme a loro, la ragazza prova anche un forte amore per Hugo, un umano che vede il proprio futuro altrove, nella città di Zalem.

A pensarci bene, per questa trasposizione filmica non sarebbe potuto esistere un papà migliore di James Cameron, l'uomo che, più di tutti, ha saputo porre la tecnologia al servizio dei sentimenti (e delle storie universali, che ne sono l'emanazione orale e scritta). Il corpo del racconto e l'amore nei confronti del progetto hanno saputo dare al film una serie di sfumature e di vertigini emotive non da poco. Alita ha il merito di (r)esistere come corpus unico, nonostante sembri una strana cucitura di tessuti diversi. Il disaster movie, infatti, incontra il neo-noir e il romance più tradizionale, fino a sfociare nel coming-of-age e nella scoperta del proprio ruolo nel mondo. Proprio a causa della sua variegata ed eterogenea natura e del cuore pulsante che lo anima (e che Alita, in una scena, mette letteralmente a disposizione dello spettatore), sarebbe ingiusto ridurre il film ad un mero pilot di un ipotetico franchise, o a un modo per scaldare la platea in attesa dell'arrivo dei numerosi sequel di Avatar.

Gli anni di attesa che hanno congelato a lungo il progetto si percepiscono. Tutto in Alita appare replicato, dal mondo in cui convivono umani e cyborg al commercio di parti anatomiche, siano esse di carne o bionici, fino ancora al millenario rapporto che lega creatore e creatura. Tuttavia, questo cortocircuito che ha al suo centro il concetto di originalità non intacca la vitalità e la ricerca d'identità di Alita (tanto del personaggio quanto dello stesso film). Anzi, gli occhi spalancati sondano la realtà, alla ricerca delle tracce di un passato che spinga ad articolare un processo di autocomprensione e, quindi, di guarigione, con tutta una serie di conseguenze progressiste in termini di tolleranza e di accettazione. James Cameron dimostra, ancora una volta, quanto possano essere umani tecnologia e digitale se posti al servizio della forza dei sentimenti. E il cinema si conferma come uno spazio da sondare per percepire sé stessi in rapporto ai mutamenti della storia.

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Robert Rodriguez Rosa Salazar Christoph Waltz Jennifer Connelly Mahershala Ali Ed Skrein Jackie Earle Haley Edward Norton 122 minuti
Argentina, Canada, USA 2019
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