"Antonio Mastronunzio pittore sannita" e "La salita" - I corti di Mario Martone

di Paolo Di Marcelli
I vesuviani - recensione film martone servillo

C’è un fil rouge che collega il cinema di Mario Martone ai luoghi in cui sono immersi i suoi personaggi. Se ascoltiamo il regista ricordare il successo di Morte di un matematico napoletano e de L’amore molesto, ci accorgiamo di come le sue parole definiscano prima di tutto Napoli, che nel primo appare «rarefatta e vuota» e nel secondo, al contrario, piena di «corpi e macchine e di tutti i suoni e i rumori della strada». Antonio Mastronunzio pittore sannita (che insieme a Dov’è Yankel? di Paolo Rosa e D’estate di Silvio Soldini forma Miracoli: storie per corti) e La salita, interpretato da Toni Servillo (ultimo contributo de I vesuviani, altro film a episodi diretto anche da Antonietta De Lillo, Antonio Capuano, Pappi Corsicato e Stefano Incerti) sono ambienti invece lontano dalla città, che però fa continuamente capolino mettendo in crisi i protagonisti che vorrebbero trovare un briciolo di serenità lontano da essa.

Un ricco collezionista rimane impressionato da un quadro di quindici anni prima. Recatosi dal suo autore, gliene commissiona uno identico promettendogli qualsiasi cifra. (Il vero) Mastronunzio è in crisi, ci prova a pennellare gli stessi rami fioriti su quello sfondo rosso, ma l’arte è l’ispirazione di un momento in simbiosi con la natura che proprio non riesce a replicarsi. Il risultato è un’opera che non convince il pittore, che in un raptus di rabbia uniforma di colore l’intera tela per poi gettarla nel fiume. Miracolo: incagliatasi in un’ansa, magicamente si trasformerà proprio nel dipinto desiderato. Ne la Salita, il sindaco di Napoli con tanto di fascia tricolore scala il Vesuvio senza una meta precisa. L’altitudine aumenterà a suon di incontri surreali, onirici, bizzarri e drammatici. Prima un’attrice new age, poi l’attore e cantante di punta della rinnovata offerta culturale partenopea, e poi un corvo voce della coscienza che sembra uscire da Uccellacci e uccellini, un prete, un operaio che trasporta una carriola piena di libri da cui cade un saggio su Lenin, e ancora baby-muratori in un cantiere abusivo, sub-proletari condannati al sottosuolo e due donne (quasi) fatali, finché l’alter-ego di Bassolino (all’epoca il film fece molto discutere) si ritrova da solo, in cima, ormai lontano dalla città alla quale a tutti ha assicurato essere vicinissimo.

Distanti dal centro, dal cuore della comunità, gli uomini di Martone si smarriscono tanto più se incalzati dall’eco insistente della frenesia urbana. Il pittore Sannita, quando il collezionista bussa alla sua porta, dorme beato. Dopo sarà il tempo della frustrazione. Servillo, quando ancora la strada è asfaltata e prima di inerpicarsi sulla sdrucciolevole pietra lavica, sorride, è sicuro di sé. Il ricco che pretende il quadro proviene dalla città e da questa si porta dietro la pretesa capitalistica di ottenere ciò che vuole a patto che paghi il giusto prezzo. I personaggi in cui si imbatte il sindaco lo interrogano sulle proprie responsabilità, sulla sua fede comunista (una delle due donne, sineddoche di un femminismo incompiuto, critica aspramente il ruolo subalterno che la sinistra le attribuisce) e colpiscono nel segno in uno scenario che assomiglia a un purgatorio dantesco. La natura del primo corto è invece placida e rassicurante: tuttavia l’artista vi si muove angosciato, chiedendo aiuto a coloro che incontra.

C’è un prima e un dopo nei corti di Mario Martone, un conflitto tra l’uomo e le sue certezze in frantumi, un senso generale di smarrimento e sconfitta. Seppur con toni diversi (l’umorismo del primo film si contrappone alla tensione del secondo), il regista e drammaturgo affronta ancora una volta il tema della solitudine toccando temi a lui cari quali l’arte, l’ideologia (e il suo inevitabile tramonto) e, affidate al fuoricampo, le contraddizioni della metropoli a partire dal contesto napoletano. Si tratta di opere minori, certamente, ma preziose per aggiungere un tassello significativo allo studio della solitudine e al rapporto con la natura intesa come alterità priva di sovrastrutture: un luogo che probabilmente non sappiamo più abitare.

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Mario Martone Antonio Mastronunzio Toni Servillo Anna Bonaiuto 15 e 25 minuti
Italia 1994 e 1997
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"Chicago" di David Mamet

di Emanuele Di Nicola
Chicago - recensione David Mamet

«Non ci interessano le condizioni del protagonista “prima che la storia cominciasse”, e non ci interessava affatto sentire quello che aveva provato o che provava per se stesso, prima che decidesse di comunicarcelo». Così David Mamet, in una delle molte e lucide teorizzazioni del dramma contenute ne I tre usi del coltello, il suo saggio divenuto classico e libro imprescindibile per capire la forma narrativa americana del secondo Novecento.
In quella miniera di spunti, che usa il teatro solo come base di partenza (come MacGuffin, direbbe Mamet citando Hitchcock), tra i vari sembra racchiuso anche l’incipit di Chicago, il romanzo che l’autore voleva scrivere da circa vent’anni (edizioni Ponte alle Grazie, pagine 310, euro 18). Si tratta infatti di un inizio esattamente in fieri, in piena dottrina mametiana: due personaggi, Mike e Parlow, sono appostati in posizione di caccia alle anatre, uno aspetta gli animali che arrivano da destra, l’altro da sinistra. Non sappiamo nulla di loro, la prima informazione arriva dal dialogo: parlano della natura e della vendibilità di una storia, della possibilità di farci soldi. Poi le anatre volano da sinistra e Mike le liscia, «la sinistra era il lato di Parlow».

Ecco perché, fin dalle prime righe, Chicago è l’ennesima applicazione scientifica di Mamet allo storytelling. Che cambi l’arte frequentata per il drammaturgo, regista e scrittore poco importa: ha riscritto un pezzo di teatro del secolo scorso, per cui abitualmente si cita Glengarry Glen Ross, premio Pulitzer 1984, da cui fu tratto il film Americani di James Foley, ma le sue pièce sono continuamente rappresentate, in ultimo American Buffalo diretto da Marco D’Amore nel 2017; ha segnato il cinema con gli stessi alti risultati, prima da sceneggiatore e poi da regista; i suoi saggi sono riferimenti da lui stesso insegnati (per esempio alla Columbia University). Mancava solo questo romanzo inseguito da decenni, un libro che reca il nome della sua città, il titolo-archetipo Chicago con ciò che si porta dietro: il centro dell’Illinois negli anni Trenta, perfettamente diviso tra due mafie, il Nord controllato dagli irlandesi di O’Banion e il Sud dominato da Al Capone. È qui che si muove Mike Hodge, ex pilota della prima guerra mondiale e oggi cronista del Chicago Tribune: chiamato per lavoro a riportare gli effetti della malavita, gli omicidi strategici per il controllo del territorio, droga, prostituzione e incendi dolosi, i locali che fanno da prestanome (soprattutto fiorai), l’orgoglio incrociato delle gang, dal cattolicesimo intransigente degli irlandesi ai delitti d’onore dei siciliani.

Ma, soprattutto, Mike e l’amico Parlow lavorano nella redazione di un giornale: questa diventa subito per Mamet un laboratorio sulla pratica di raccontare una storia, come costruirla e come - ovviamente - falsificarla. Non si può riferire il vero, nella rischiosa Chicago, bisogna piuttosto confezionare un racconto con parvenza di plausibilità e soprattutto vendibilità: «La notizia è ciò che rende chi la legge compiaciuto, arrabbiato, o abbastanza quello che ti pare, da arrivare a pagina dodici e leggere la pubblicità dei tappeti», enuncia un responsabile. Tanto che i cronisti spesso inviano un brogliaccio che riporta i fatti, un soggetto, sta poi ai riscrittori della redazione il compito di abbellire e cucinare la notizia per pubblicarla. Metafora implicita del rapporto tra autore e produzione, e forse anche della difficoltà di restare se stessi dentro una commissione, che Mamet ha provato più volte sulla pelle (come nella sceneggiatura di Hannibal di Ridley Scott).

Il protagonista Mike è quindi un fabbricante di storie, che mostra così il carattere finzionale alla base di ogni racconto e il calcolo a tavolino. In tal senso la sua figura appare il precipitato di un’altra riflessione ne I tre usi del coltello, in cui Mamet critica la narrazione convenzionale: «"Non so perché ti sto dicendo questo...". Alternative: "Sai, anni fa...", oppure: "Quando ero giovane...", o "Una volta avevo un gattino...", e giù immagini di gente con le braccia distese, che piroetta al rallentatore su una spiaggia. Questa narrazione superflua non solo si verifica regolarmente nelle opere teatrali e nei film, ma si verifica all’incirca allo stesso punto: a sette decimi della durata, subito prima o subito dopo dell’inizio del terzo atto (...). È una codificazione organica del meccanismo umano di sistemazione delle informazioni». Ecco perché la storia di Mike è radicalmente antididattica: il giornalista viene introdotto nella battuta di caccia e conosciamo il suo passato militare dopo settanta pagine. In Mamet, infatti, sappiamo solo ciò che i personaggi ci dicono attraverso i dialoghi: quando un elemento emerge è perché questo affiora nel naturale vivere e parlare delle figure sulla scena, che non vengono mai forzate né imboccate da un demiurgo. Nessuno si autodefinisce, nessuno dà una spiegazione, c’è qui l’esatto contrario dello “spiegone” della maggioranza della cine-letteratura Usa contemporanea. Un esempio lampante? L’inizio del film Spartan del 2004: una ragazza viene rapita, nessuno ci dice subito che è la figlia del Presidente. Tutto avanza assolutamente in fieri: ecco perché i dialoghi di Mamet sono così implacabili, inchiodano senza scampo, innescano un page turner intellettivo in cui occorre continuare fino alla fine, appagando gradualmente la nostra sete di conoscenza attraverso la costruzione drammaturgica.

Mike è innamorato di una bella irlandese, Annie Walsh, posizionata per nascita in una delle due fazioni in conflitto. La ragazza viene uccisa davanti a lui da un sicario a colpi di pistola. Chi poteva volerlo, e perché non hanno sparato a Mike? Che senso ha eliminare una giovane innocente e lasciare vivo il cronista cittadino? È chiaramente un MacGuffin, il pretesto mametiano per innescare la riflessione sul genere in un profluvio di pedine, dalla maîtresse di un casino a un ladro informatore, dai sicari a loro volta uccisi alle vedove sulla carta inconsolabili. I pretesti devono essere semplici, sostiene Mamet, non troppo specifici e riconoscibili a tutti per favorire l’immedesimazione: la morte dell’amata, un omicidio che è puro topos (un killer entra e spara colpi di pistola, tutto qui), esattamente come una vedova si lancia sulla bara del marito o una donna afferma di possedere lettere compromettenti. Ma non si aggiunga altro sul dipanarsi dell’intreccio, basti dire che nulla è come sembra, tutto è possibile menzogna e ogni cosa ha interpretazione multipla. Ovunque, come sempre, è l’evidenza del carattere finzionale della storia e l’eterna riflessione sul meccanismo: ricordate la pistola de La casa dei giochi, capolavoro del 1987, che in una sublime inquadratura si rivela essere una pistola ad acqua? Ecco, quella strategia è applicabile più volte a Chicago.

La casa dei giochi di David Mamet

Affresco letterario di una città come pensiamo che sia (e dunque un immaginario), racconto sulla corruzione diffusa e sulla manipolazione dei fatti (le storie vere vendono meno, si dice in redazione), il romanzo è facilmente accostabile alla sceneggiatura de Gli intoccabili scritta per De Palma, con la stessa Chicago anni Trenta e De Niro nel ruolo di Capone. A ben vedere però si offre come nuova summa del pensiero dell’autore, nome chiave del nostro tempo, capace di muoversi fluidamente tra teatro, cinema e letteratura, in grado di scrivere e insieme decostruire l’ingranaggio della scrittura, ovvero frequentare il racconto e mostrare cosa c’è dietro a una storia. Teoria? Certo. Ma anche un continuo gesto d’amore verso l’atto stesso del narrare. In Chicago la proprietaria di un bordello “inventa” un taglietto da barba per occultare il rossetto di una prostituta sulla camicia di un ricco cliente:

«“...menti più svelte della tua..” disse Peekaboo. “Ascolta e impara: il lato destro. Fai cadere qualche goccia di sangue sulla macchia di rossetto sul colletto della camicia, sulla macchia della giacca; metti dell’alcol sulla ferita, la asciughi con un panno pulito, usi la tua matita emostatica, lo copri con un cerotto”.
“La giacca puzzerà di ammoniaca” disse Marcus.
“L’hanno usata ai bagni per provare a togliere il sangue” disse Peekaboo».

Il congegno di Mamet scatta matematico: il trucco è ancora servito.

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Morte di un matematico napoletano

di Matteo Berardini
morte di un matematico napoletano - recensione film martone

Morte di un matematico napoletano si apre con l’immagine di un muro scrostato, mangiato dall’incuria e dal tempo, un muro che giorno dopo giorno perde pezzi di sé. Non poteva che partire da un correlativo oggettivo questo film di Mario Martone, un’opera prima incentrata sulla città e sul rapporto che gli spazi urbani intessono con l’intimità emotiva di chi li abita.

Dedicato alla figura di Renato Caccioppoli, matematico geniale e sofferente, alcolista suicida sconfitto da una malinconia e disillusione assolute, il film si concentra sull’ultima settimana di vita del suo protagonista, relegando al fuori campo la storia dell’uomo e del paese, l’antifascismo, le prime scoperte matematiche, l’amore. È grazie alle persone che circondano e incontrano Renato che possiamo ricostruire scampoli del suo passato, tracce dal grande potenziale drammatico che Martone e la sua co-sceneggiatrice, la scrittrice Fabrizia Ramondino, lasciano sullo sfondo. Morte di un matematico napoletano è un film errabondo in cui arriva la città a mediare e conservare questi ricordi, immagini di un passato che nel delirio alcolico si mescolano al presente inquinandolo, aprendo le porte a una dimensione onirica che riversa incubi notturni, angosce, insoddisfazione perenne. Renato la attraversa e si perde in questa città, Napoli, vera co-protagonista di una storia di sconfitta che sembra procedere secondo un meccanismo fatale e irreversibile. Di questa città Martone e il suo direttore della fotografia Luca Bigazzi – alle spalle pochi film ma già bravissimo – fissano due volti, uno diurno e l’altro notturno, due aspetti di una metropoli ambivalente e pericolosa che abbraccia e assieme soffoca, riempie e subito dopo isola. Attorno a Renato si alternano due toni di luce, quello giallo e malsano di un sole morente e quello plumbeo, liquido, dei vicoli notturni, delle stanze vuote, dei sogni misti a ricordi.

Vincitore del Premio speciale della giuria al Festiva di Venezia del 1992, Morte di un matematico napoletano è un esordio non comune, che nasce dall’esperienza artistica e vitale di Teatri Uniti, la compagnia fondata a Napoli nel 1987 dall’unione di Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta. Martone del resto è regista teatrale prima che cinematografico, e al cinema arriva con un bagaglio di sperimentazione e innovazione linguistica non da poco; Teatri Uniti nasce proprio attorno a questo sincretismo, volendo farsi laboratorio di produzione e studio capace di ibridare l’arte scenica contemporanea con le logiche del cinema, della musica e delle arti visive. Quest’energia esplosiva anima, seppur sottotraccia, il film, che vede al suo interno personalità e professionisti di ascendenza teatrale, a partire da Toni Servillo. A caricarsi il film sulle spalle è però Carlo Cecchi, straordinario attore e regista che qui riesce ad aderire fisicamente al disfacimento del suo personaggio, cucendosi addosso il senso ineluttabile e ossessivo del pensiero di morte. È straordinario seguire Renato nelle sue lunghe camminate, nei suoi comizi improvvisati, nelle esternazioni di una sensibilità contraddittoria che alterna al pietismo disperato la fame assoluta di conoscenza e piccole umanità. Renato è disilluso ormai senza aver avuto la fortuna di farsi cinico; non riesce a trovare senso in nessuna delle istituzioni che lo circondano (né il partito né l’università, men che meno il tessuto sociale delle amicizie e dei colleghi) né a rendersi immune dallo scorrere di un tempo inteso solamente come sofferenza, peso, costo da pagare. Martone non sconta al personaggio i suoi aspetti più scomodi, su tutti un maschilismo tenuto malamente sottotraccia, ma al centro del gesto filmico resta comunque la tensione di un avvicinamento impossibile, la pulsione a colmare la distanza dello spazio e del tempo così da alleviare, per quanto possibile, l’assoluta solitudine. Perché Renato vive e muore solo, in un gioco di presenze e assenze che culmina nella sequenza finale del funerale: prima di allora Renato è presente ma avvolto dal vuoto, anche quando in compagnia; dopo la sua morte invece la scena si riempie di persone, di voci e di corpi, tutti si affastellano a salire sul palco del commiato e dell’elaborazione pubblica. Peccato che lui, ormai, sia altrove.

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Mario Martone Carlo Cecchi Anna Bonaiuto Toni Servillo Renato Carpentieri 108 minuti
Italia 1992
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Quasi domani

di Giorgio Sedona
Quasi domani, Gianluca Loffredo, Documentario

Cassano all’Ionio, Calabria. Un paese con meno di ventimila abitanti che, nel documentario di Gianluca Loffredo, Quasi domani,fa da contraltare e sintesi ad un’intera nazione. Generosità, integrazione, razzismo, intollerenza, sono definizioni contrarie di una popolazione, la nostra, divisa in diverse identità pronte a loro volta ad abbracciare, ad accogliere, ad integrare, ma anche intente ad incrociare le braccia al petto, conserte, chiudendo una porta, definendo un confine, dentro ad un limite d’identità nazionale, territoriale (e spesso mentale). L’Italia è un paese dove la contraddizione la fa da padrone, uno Stato nazione giovane, nato per aggregazione politica calata dall’alto, un Paese composto da tanti altri paesi, realtà, segmentato nell’identità nazionale e dialettale, dal regionale al provinciale al comunale. Quasi domani è un documentario di indagine su di un paese per un Paese. Non sembra allora sbagliato ridurre il campo ad una piccola comunità dove si riconducono in cifre ridotte i caratteri e le limitazioni di un’intera popolazione nazionale. In questo tessuto sociale Quasi domani racconta cinque storie di immigrazione. Tutte provenienti da paesi diversi, tutte con delle proprie caratteristiche socio-culturali, tutte che raccontano la difficoltà dell’inserimento nel nostro Paese. E’ peculiare notare come la differenza del Paese di origine, la differenza tra le culture, tra le etnie, giunte in un paese straniero, come il nostro per loro, risultano assimilabili tutte alla definizione di immigrato. E’ peculiare notare come solo al paese di arrivo è consentita la definizione di identità nazionale granitica, di suolo nazionale che unisce la popolazione che ci abita mentre le differenze di chi viene da fuori sono annullate in una sola definizione onnicomprensiva, e spesso discriminante.

Sami, Torab, Mohammed, Edgar, Lamin sono i cinque petali di un fiore alla ricerca di un terreno sul quale mettere radici. Delle sementi in fuga, sospinte dal vento, lontano dalle proprie famiglie, lontano dalla loro terra origine, lontano da realtà spesso in conflitto, sono identità in volo al vento. E nel paesino di Cassano, come in tutta la nazione, c’è chi guarda al vento cercando di accompagnare le sementi e c’è chi soffia, e fa vento, cercando di allontanare il più possibile la caduta dal territorio che credono essere solo loro. Loffredo lavora negli interstizi della realtà, calando lo sgurado nei vicoli e registrando l’intolleranza comune del cittadino medio, fondata sul luogo comune, volgendolo poi nelle comunità di integrazione dove i giovani si impegnano in un percorso di lenta e faticosa integrazione. Entra nelle case e nelle vite dei cinque protagonisti, osserva la cultura popolare italiana interagire con loro, identità tese ad affrontare una specifica problematica, c’è chi ci riesce e chi ancora combatte per realizzarla, per arrivare ad un loro domani, e per concretizzarlo. E’ nella definizione di approssimazione nel titolo che il domani non si risolve, per queste identità è quasi arrivato il momento di integrarsi in un nuovo territorio, è quasi arrivata l’ora di un nuovo domani, è quasi terminato il viaggio nel presente, alcuni ci sono quasi riusciti, altri non ancora, non del tutto.

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Gianluca Loffredo 52 minuti
Italia, 2018
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In guerra

di Beatrice Fiorentino
In guerra - Brize recensione film

Una storia comune, come se ne leggono sempre più marginalmente, perché ogni giorno è minore l’attenzione che i giornali dedicano alle traversie degli operai in lotta per la difesa del posto di lavoro. Una di quelle vicende che negli anni della Thatcher avrebbero ispirato la fantasia dei Loach e dei Leigh, di quelle lotte che all’epoca scuotevano le coscienze ma di recente si sono fatte via via più episodiche e, in misura inversamente proporzionale all’impietoso dilagare della precarietà, quasi anacronistiche. Lavoratori, scioperi, licenziamenti. Una storia già vista e sentita. Eppure mai così drammaticamente puntuale, contemporanea, rappresentativa del presente.

Dietro al caso della Perrin messo in scena nel film In guerra, infatti, dietro al nome fittizio di una fabbrica specializzata in componenti automobilistici con sede nella Nuova Aquitania, non è difficile riconoscere le esperienze sindacali di tanti stabilimenti europei che hanno subito e ancora subiscono la medesima sorte: chiusura e delocalizzazione, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Sono in 1100, nella finzione, a opporsi al progetto di dismissione che prevede la cessione a una multinazionale tedesca e lo stop definitivo degli impianti, in barba agli accordi siglati nei due anni precedenti, a scapito dei sacrifici dei lavoratori e nonostante un profitto da record. La risposta è uno sciopero durissimo che, in attesa di una risoluzione, blocca per tre estenuanti mesi produzione e stoccaggio. Nulla di originale o di non visto, appunto. Nella finzione come nella realtà. Perché, allora, In guerra è da considerare un film così fuori dall’ordinario? Così unico? Cos’è che lo rende il più sconvolgente contributo cinematografico sulla working class degli anni Duemila, sulla delegittimazione del lavoratore, messo alle corde dalla globalizzazione, piegato dalle logiche del capitalismo e da quella legge del mercato già portata sullo schermo da Stéphane Brizé nel 2015? La risposta è nella forma. In una scelta estetica potente e radicale. Non aprioristica, né esibita, ma strettamente connessa a un preciso pensiero etico e politico. Rigoroso. Senza per questo chiudere le porte alla commozione.

In guerra è un film di gesti e di corpi. La parola, molto presente in sceneggiatura, c’è ma è delegittimata. Si pensi alle interminabili discussioni, all’esasperante susseguirsi di promesse tradite e all’uso ricorrente dell’espressione «le do la mia parola», «non ha mantenuto la sua parola», rinnegata nel significato. Il dialogo è fallito, la parola non conta. Contano solo i gesti, anche i più estremi. Gli unici in grado di produrre qualche effetto sulla realtà. Per questo Brizé sintetizza l’atto politico in una performance che viene posta al centro del discorso. Dell’atto politico, ovvero la protesta, la battaglia, di questa sfiancante guerra di posizione che si consuma su fronti opposti, osserva soprattutto la coreografia, la ritualità, la strategia. Come in un musical il climax è rappresentato dal numero di danza dei ballerini, o un wuxia trova il suo apice nelle scene di combattimento tra samurai, o ancora meglio in un war film - ça va sans dire - con l’alternarsi della messa in scena del disegno tattico e delle sequenze di battaglia, qui, soprattutto, il centro nevralgico si trova nella concretezza dell’agire: cortei, slogan, striscioni e bandiere, pugni chiusi e picchetti, resi epici dal suono distorto di una chitarra elettrica interrotto da improvvisi squarci di silenzio bruschi come strattoni. E ancora: i tavoli di contrattazione, le ore passate al freddo, le attese, le accese discussioni e, quando serve, calci e botte. Che non si consumano in un posto qualsiasi, ma in un luogo-simbolo: davanti al cancello della fabbrica, sulla linea di demarcazione che segna gli inclusi e gli esclusi della società.

La concessione alla narrazione classica è ridotta al minimo. Si procede per blocchi, scanditi ritmicamente dall’interpunzione sonora delle musiche ora violente ora malinconiche, comunque ipnotiche, composte da Bertrand Blessing. Al regista non interessa neppure scavare nella dimensione privata dei personaggi, che non sono tali in quanto individui, ma parte di un unico corpo collettivo. L’unica (breve) licenza riguarda il protagonista Laurent Amédéo, operaio sindacalista sempre in prima fila, che ha la forza tragica dell’eroe e il volto umanissimo di un Vincent Lindon bigger than life. La vita extra-fabbrica è relegata fuori campo, al pari dei dirigenti della nuova proprietà: entità smaterializzate che incombono con le loro decisioni prese dall’alto senza mai metterci la faccia.

Il dispositivo agisce per mimesi: imitando le forme del documentario quando si muove all’interno del disordine-ordinario, nel vivo dell’azione di protesta; aderente agli stilemi dei media televisivi quando vuole prendere le distanze e osservare la realtà con pretesa oggettività, dall’esterno; attraverso l’uso di un telefonino in modalità verticale solo nell’ultima sequenza, quando è opportuno applicare un filtro “etico” all’osservazione dell’ultimo irreversibile atto, quando la tragedia attraversa il corpo di quella classe operaia destinata al paradiso, vessata in terra, ma anche minata da conflittualità interne inaccettabili agli occhi dell’idealista.

Qualcuno dirà: mancano le sfumature, ci sono solo buoni e cattivi. Ma è così che vanno le cose in guerra. In guerra ci sono due schieramenti. In guerra si fanno i morti. E in un mondo in cui si è progressivamente persa la dimensione della collettività e dell’impegno, Brizé sceglie senza titubanze o mezzi toni da quale lato della barricata stare.

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Stéphan Brizé Vincent Lindon Mélanie Rover Jacques Borderie David Rey 105 minuti
Francia 2018
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La casa delle bambole – Ghostland

di Saverio Felici
Ghostland - recensione film pascal laugier

Cosa ha fatto in tutti questi anni, Pascal Laugier? Come molti altri eroi dello Splat Pack 2003-2008 (quella corrente di horror estremo, soprattutto europeo, che a metà anni duemila resuscitò un genere anestetizzato dallo slasher liceale), il regista francese sembrava essere diventato vecchio precocemente, all'improvviso. Le tendenze mainstream dell'horror cambiano più velocemente che in qualsiasi altro genere, ed è un attimo ritrovarsi da Profeta di un nuovo cinema a vecchia gloria nel giro di un film e mezzo. Aja è calato, Balaguerò si è imborghesito, Gens non si sente più. Da Laugier si aveva avuto l'ultimo segnale di vita con il rivedibilissimo esperimento hollywoodiano di I bambini di Cold Rock (2012), prontamente rimosso dall'immaginario. Nel 2018 sono passati esattamente dieci anni da quel Martyrs che ne fece una meteora: e come a voler celebrare il decennale di quel classico, Laugier è riemerso, ripartendo proprio da lì per tornare finalmente a fare i suoi film.

I punti di contatto di La casa delle bambole – Ghostland con quello storico film sono talmente tanti ed espliciti da sfiorare l'operazione meta-cinematografica (a cui Laugier ha sicuramente pensato): un riaffacciarsi di concetti, soluzioni, stilemi, che confermano forse per la prima volta la vena autoriale di un regista il cui sguardo personale si era dissolto troppo presto. Il cinema di Pascal Laugier è quello di una “poetica della tortura”, da intendere alla lettera: non l'orrore del soprannaturale e dell'assurdo, ma quello, concretissimo, della sopraffazione, dell'annichilimento fisico e mentale. Laugier, a ben vedere, si è sempre considerato Autore, ma questa voglia un po' pretestuosa di andare a parare su grandi concetti strangolava gran parte delle sue pellicole (Martyrs in primis, che al netto dell'incontestabile statuto di classico, rimane un film tutt'altro che perfetto). Ghostland è forse il primo passo in avanti del regista registrato da quel 2008. Un film potentissimo, sadico e contorto. Ma con un senso e un significato finalmente centrati.

Ghostland è dunque un'altra storia di tortura, dalle meccaniche simili a Martyrs, ma con risvolti diametralmente opposti. Protagonista è una ragazzina sui quattordici anni, Beth (Emilia Jones), chiusa e bloccata, aspirante scrittrice horror con il mito di Lovecraft. Insieme alla madre (Mylène Farmer) e alla cinica sorella Vera (Taylor Hickson), si trasferisce nell'isolata casa di campagna della zia defunta. Una magione cadente e ingombra di paccottiglie e bambole inquietanti («sembra una delle case di Rob Zombie», dice Vera, e siamo esattamente lì). La prima sera di soggiorno, le tre vengono assalite da una coppia di aggressori.

Quello che verrà dopo non può in alcun modo essere anticipato. Chi conosce Laugier sa che la sua cifra è il cambio di direzione: il martellamento continuo di colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva, che portano i suoi film su mille binari differenti rendendoli incatalogabili (e spesso tortuosi, se non addirittura noiosi). Dunque, altro non va svelato. Per comprendere il film, è necessario approcciarlo nella sua interezza.

Ghostland è, per strano che possa suonare, una sorta di doppio positivo di Martyrs. Anche stavolta il centro è la tortura e la violenza (anche sessuale), inflitte su protagoniste (minorenni) incapaci di reagire. Ma rispetto al cupissimo film del 2008, Ghostland non è nichilista. Dietro la vorticosa struttura del film, viene portato avanti un discorso estremamente personale sul motivo ultimo della narrazione e del racconto (horror, ovviamente). L'immaginazione perversa come strumento di fuga, ma anche arma per affrontare l'inferno a viso aperto. Al cuore di tutto, è in fondo la storia di una giovanissima donna, e del suo scendere a patti con i propri sogni e la propria immaginazione, per raccogliere la forza di combattere una realtà atroce. In questo senso, l'horror che ossessiona Beth è strumento di escapismo, ma anche di rivalsa nel momento di riaprire finalmente gli occhi.

In un classico gioco narrativo a scatole cinesi (realtà-sogno-ricordo), Ghostland affronta a modo suo il grado zero dell'orrore (l'home invasion: l'irruzione dei mostri), per cercarne l'esorcismo. Dopo il consueto gioco di false piste e giri a vuoto, alla stessa maniera di Martyrs, Ghostland trova il suo senso di esistere nel terzo atto. Che stavolta non è torture porn ma la guerra finale contro di esso, in un delirio di corpo a corpo feroce, estenuante e liberatorio. E dove le bambole argentiane, la casa hooperiana, i jumpscare raimiani, diventano elementi umani, per combattere il disumano dello stupro e della tortura.

Ancora una volta, i mostri sono gli uomini (qui una coppia di deviati da leggenda), e i mostri della fantasia diventano alleati da spaccargli in testa, come la grottesca macchinona da scrivere che Beth si porta sempre appresso. Ed è logico che, nella scena già più bella del film, appaia proprio Howard Philip Lovecraft, con il mascellone e lo sguardo cupo dell'iconica fotografia. Come Elvis in Una vita al massimo, per l'ultima grande spinta alla fiducia della protagonista. E a Laugier, che ne aveva bisogno.

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Pascal Laugier Crystal Reed Taylor Hickson Rob Archer Mylène Farmer 91 minuti
Francia, Canada 2018
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Don't Worry

di Tamara Gasparini
Don't Worry, He Won't Get Far On Foot - recensione film van sant amazon

Con Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot Gus Van Sant torna a Portland, città d’elezione, luogo mitico e reale nella sua cinematografia di artista errabondo che trova nel grande Nord Ovest americano la propria casa. La Portland delle comunità dei bassifondi di Belli e dannati, Drugstore Cowboys e Mala oche, quella della West Coast intrisa della controcultura hippy figlia dei Burroughs, dei Tom Robbins e della generazione beat, quella di un’umanità della strada e di una weirdness che ha formato lo sguardo di un autore sensibile alle alterità e alle vite vissute ai margini.

Di Portland è John Callahan (1951-2010), cartoonist tetraplegico sul cui libro di memorie il film è basato, che sembra provenire dallo stesso milieu di dropout, sognatori narcolettici, santoni, junkies e altri outsider vansantiani, oltre che dall’ ambiente “arty” che il regista ha realmente frequentato da metà anni Settanta in poi. Don’t Worry s’inserisce tra le produzioni non propriamente indipendenti di Van Sant (produce Amazon) ma sotto la superficie levigata del biopic c’è il cuore di un racconto intimo, personale e autenticamente sentito che sembra riportarci indietro ai film migliori del regista. Un biopic anomalo, che racconta il processo di liberazione dalla dipendenza dall’alcol e la personale resilienza di Callahan dopo il tragico incidente che a vent’anni l’ha paralizzato dalla vita in giù, confezionato in una struttura narrativa frastagliata e spiazzante, avanti e indietro nel tempo, che rompe la linearità consequenziale e il flusso del racconto.

L’alcolismo, la ricerca impossibile della madre, il gruppo di recupero, l’incidente, la riabilitazione fisica ed emotiva, l’affermazione del proprio talento artistico e il lungo percorso di redenzione attraverso il perdono e l’accettazione di se stesso sono i pezzi sfasati e sparigliati di una forma soggettiva di temporalità, vissuta come se il Tempo non esistesse, in uno stile registico dal montaggio scomposto e spezzato che sembra respingere ogni possibilità di afferrare il presente, di dargli un ordine, di ingabbiarlo in una forma compiuta e fissa che sfugga al caos del divenire in favore di un senso.

«Maybe life is not supposed to be as meaningful as we think it is», confessa ieratica Kim Gordon nel monologo che apre l’intero film. E forse è proprio nell’accettazione della mutevolezza (figura tipica del cinema vansantiano sono, dopo tutto, le nuvole) e nella predisposizione al cambiamento la direzione da seguire per la propria salvezza.
Don’t Worry è la passione di John Callahan. Lo vediamo viversi e raccontarsi in prima persona attraverso i dialoghi-fiume, negli occhi di Joaquin Phoenix che è tutto sguardi e mimica facciale, in un flusso di coscienza al limite tra sogno e realtà. Le visioni (i ginnasti e la mano della madre sulla spalla del figlio) sono le interferenze dentro un reale che non è mai autosufficiente nella poetica del regista, fin dagli esordi, in una costante tensione alla fuga onirica dinanzi ad una realtà inconoscibile. Il disordine percettivo del reale è un topos ricorrente della sua cinematografia (perfettamente teorizzato in Elephant), che gli eroi vansantiani tutti, da Mike a Blake, da Bob a Gerry, sentono di fronte alle inquietudini del loro essere nel mondo, in cerca di qualcosa che forse non troveranno mai, eternamente fuori posto. John Callahan non è diverso dagli altri adolescenti dei film passati: è un giovane adulto che resiste al flusso, alle correnti, alla conformità sociale; che cerca nella dimensione parallela dell’alcol prima e del disegno poi una propria casa, un luogo da abitare rassicurante e famigliare, nel tentativo di riparare ai guasti, agli abbandoni, di sopperire alle mancanze (nell’eterna utopia di un ritorno alla madre che non ha mai conosciuto, esattamente come Mike/River Phoenix in My Own Private Idaho). È nell’immaginazione e nelle illustrazioni di cui è punteggiata l’intera narrazione che si esplica il bisogno di uscire fuori di sé per ritrovare la strada di casa e attuare il proprio personale percorso di illuminazione e rinascita.

Don’t Worry, diversamente dai film più indie firmati da Van Sant, trova in un lieto fine consolatorio il proprio compimento: nel riconoscimento pubblico del talento e nell’appagamento dell’amore (Rooney Mara). Ma il cinema di Van Sant non cerca affermazioni, non offre sicurezze. Registra il reale come enigma, come flusso aperto in cui spesso vanno alla deriva personaggi fragili, lunari, eccentrici. È umanista. E Don’t Worry offre un affresco di caratteri secondari meravigliosamente umani: la vecchia conoscenza Udo Kier, la già citata Kim Gordon, Beth Ditto dei Gossip e soprattutto un illuminato Jonah Hill, messianico guro del gruppo di alcolisti. I loro dialoghi, apparentemente banali, sono confessioni intime che solo nell’ordinarietà trovano la verità profonda e disarmante di chi con quelle verità, quelle paure e quelle debolezze ha imparato a convivere.

Van Sant rivolge loro il suo sguardo complice, mai distaccato, mostrando tutta l’empatia nel ritrarre personaggi borderline di fronte all’abisso delle loro vite, con l’affettuosità di un fratello o di un consimile. Con lo stesso sguardo puro di ragazzini di strada che scendono dai loro skatebord per aiutarti a rialzarti dopo una brutta caduta.

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Gus Van Sant Joaquin Phoenix Rooney Mara Jonah Hill Jack Black Olivia Hamilton 113 minuti
USA 2018
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Miserere

di Attilio Palmieri
Pity - recensione film Babis Markridis

La tristezza, il dolore, il lutto, sono sentimenti estremamente complessi, che in linea generale (e teorica) hanno in comune un variabile grado di sofferenza ma concretamente assumono contorni differenti a seconda delle persone in cui si manifestano. Miserere è un film che si concentra su una particolare modalità in cui è vissuta la condizione del dolore, presentandosi come un'opera dalla storia inizialmente molto drammatica ma dal registro grottesco e capace di mettere alla berlina alcune contraddizioni umane con eccezionale acutezza.

Il protagonista del film è Giannis, un avvocato di successo la cui vita è sconvolta dalla tragica condizione della moglie, la quale è in coma da diverso tempo. La famiglia è completata da un figlio adolescente, che condivide con il padre una serie di appuntamenti rituali che vorrebbero onorare l'assenza della madre, ma che nella loro ostentazione risultano soprattutto forme di patetico autoconvincimento vittimista. Il film conosce un brusco turning point nel momento in cui la moglie del protagonista si risveglia dal coma, rompendo un equilibrio fondato proprio sul dolore e sulla condiscendenza da parte degli altri.

Il film è l'opera seconda di Babis Markridis ed è co-sceneggiato da Efthymis Filippou, autore che da anni collabora in maniera stabile con Yorgos Lanthimos, il principale regista greco contemporaneo. Impossibile non notare la firma di Filippou nell'incedere dolceamaro di Pity, film che ripetutamente illude lo spettatore di essere una cosa, per poi rivelarsi in maniera abbastanza perentoria qualcosa di differente. Tutta la prima parte, infatti, può essere scambiata per il ritratto di una lancinante condizione di lutto vissuta da parte di un marito rimasto quasi vedovo, in preda a forti crisi di pianto e devastato dalla solitudine. Già in questa fase però si intuisce il distanziamento da parte dell'istanza narrante: il voice over che riproduce una sorta di monologo interiore ha l'obiettivo di ammantare il dolore con una sorta di poeticità, tanto da ostentare persino una posizione di privilegio. Questo atteggiamento del protagonista viene ripetutamente deriso dagli autori, i quali, seppur inizialmente in maniera non proprio esplicita, si prendono gioco di una certa tendenza a dipingere il dolore con un romanticismo che rivela soprattutto atteggiamenti vittimisti e passivo-aggressivi.

Tutto ciò che nella prima parte già era presente, ma travestito da commedia sulle bizzarrie del lutto, da quando la moglie di Giannis si risveglia si rivela in maniera progressivamente più esplicita. Quanto è bello stare male? Come è possibile essere più felici nel momento del dolore rispetto a quando la fonte di quel dolore viene a mancare? Gli autori si distanziano molto rapidamente dal modello di racconto drammatico e mirato a generare empatia nello spettatore, perché sono proprio la compassione e le sue conseguenze che vogliono analizzare con il loro caustico sguardo. Abituarsi a ricevere un trattamento speciale perché vittima di una sofferenza unica e incommensurabile ha reso il protagonista egoista e sotto certi aspetti persino felice di crogiolarsi in uno struggimento che fa tantissima fatica ad abbandonare. Siamo lontanissimi dalla riflessione sul dolore come unico modo di rimanere attaccati a una persona persa, anche perché in questo caso è proprio quella persona a tornare in vita. Stavolta l'assenza di quel dolore non solo fa sentire il protagonista inutile (vivere nella speranza del risveglio della moglie gli aveva dato un senso), ma lo ha reso anche assuefatto alla compassione altrui, tanto da non riuscire a godere neanche di ciò che per tanto tempo ha solo desiderato.

Nell'ultima parte, la più effervescente dal punto di vista dell'esasperazione della riflessione e da quello della messa in scena, Giannis fa di tutto per ritrovare anche solo una parvenza della condizione di un tempo, cercando disperatamente una legittimazione per star male, finendo per perdere totalmente il controllo e compiere atti di estrema brutalità. Il risultato è un’opera dalla grande libertà creativa che riesce ad essere allo stesso tempo divertentissima e un pugno allo stomaco, che sceglie di non scendere a compromessi, non indugiare in facili moralismi e anzi distruggerli da cima a fondo, restituendo un ritratto umano di estremo pessimismo.

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Babis Makridis Makis Papadimitriou Yannis Drakopoulos 97 minuti
Grecia, Polonia 2018
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StellaStrega

di Riccardo Bellini
StellaStrega, Federico Sfascia, Recensione, Film

Al grido di “tremate, tremate le streghe son tornate!”, con StellaStrega Federico Sfascia si prende una rivincita sui problemi intercorsi durante la lavorazione del precedente Alienween, progetto commissionato dal produttore Alex Visani e dalla sua Empire Video, ora assente dai titoli di testa. Nell’ultimo lavoro del regista umbro infatti le streghe sopraggiungono come un deus ex machina accorso a salvare l’umanità dall’apocalisse, ma anche a fare giustizia di un film inficiato da una produzione disattenta, inesperta, incapace di fornire un adeguato finanziamento e dunque di sostenere appieno la libertà creativa concessa all’autore. StellaStrega sorge così dalle ceneri di Alienween, ne costituisce sia il rimontaggio che un lavoro di riscrittura, e proprio con la scelta del nuovo titolo, suggerito dall’unico elemento narrativo assente nel film iniziale - la presenza appunto delle streghe, - esprime una inequivocabile dichiarazione di intenti.

Sfascia ristabilisce il controllo su una materia ancora grezza, senza operarne però un totale scardinamento. Al contrario, attraverso poche e pazienti migliorie, rese possibili questa volta con il sostegno di Rubaffetto Entertainment, già produttrice di I rec u, Sfascia taglia e cuce la propria creatura per liberarne finalmente il potenziale inespresso. La follia immaginifica del regista, sacrificata in parte in Alienween da effetti speciali non sempre all’altezza dei lavori precedenti, trova maggiore respiro grazie all’aggiunta di effetti ottici e qualche modellino più accurato. Ciò unito ad atmosfere più pregne dei sogni e degli incubi cinematografici di Sfascia, merito della nuova colonna sonora, decisamente più immersiva e aderente alla materia filmica, capace finalmente di creare tensione nei momenti giusti con i suoi toni spiccatamente carpenteriani, ma anche di tingersi di venature malinconiche che infondono nuova linfa a sequenze rimaste per lo più intonse - il momento della danza delle prostitute ne è un illuminante esempio. La sottotrama melodrammatica risulta così molto più a fuoco, sostenuta anche da pochi tagli di montaggio e da brevissimi ma oculati frammenti girati ex novo, che ne strutturano meglio il dipanarsi.

Ma la grande conquista di StellaStrega sta soprattutto nella forza con cui Sfascia corrobora, senza sconvolgere la materia di partenza, la sua verve incendiaria, anima, cuore (e budella) del suo cinema, sospesa tra una dissacrante - e sacrosanta - visione dell’umanità e un sentimento del tragico che non ha nulla di vuotamente sentimentale, ma che è anzi l’esatto opposto di ogni sentimentalismo d’accatto. Il memorabile prologo del film, una delle poche parti inedite rispetto ad Alienween insieme alla sequenza lisergica delle streghe, non lascia scampo a nessuno, né alla demenza di youtuber mentecatti, né a un popolo di webeti patentati, né implicitamente alle vane promesse di produttori spiantati (“se non c’hai i soldi, non li fare i film”); un’umanità probabilmente degna - sembra dirci Sfascia - dell’imminente estinzione che piove sulla sua testa inconsapevole. È in questi momenti, nel modo in cui per esempio viene dilatato e reinventato un prologo che in Alienween sembrava poco personale e troppo affrettato, fino a farne una sorta di manifesto autoriale, ma anche nei piccoli dettagli modificati in post-produzione - soprattutto per quanto riguarda le ignominiose pagine social - che il lavorio di StellaStrega riesce davvero a rendere ancora più incisivo la causticità del cinema di Sfascia.

Risolti in parte i problemi di ritmo del film precedente, soprattutto nella seconda parte, e impreziosito il carosello grottesco del suo (ahinoi del nostro) universo, i deliri cine-fumettistici di Alienween rivivono in StellaStrega. Tornano dunque gli zombie-alieni dalla testa di zucca, tornano i fluidi mortali che corrodono la carne - puro pus underground! - e trasformano in mostri chi, del resto, anche nella quotidianità non fa che comportarsi come tale. Tornano gli scontri epici in stile manga a suon di nipponici raggi luminosi, e insieme a tutto questo ben di Dio arrivano per la prima volta anche le streghe, presenze femminee di natura ancestrale, la cui piccola aggiunta basta a irrobustire la lettura finale del film. Ecco allora i nuovi contorni di una speranza d’amore che solo una madre può offrire al mondo come antidoto ai suoi orrori. Un invito alla resistenza che, ci auguriamo, possa essere seguito dallo stesso Sfascia e dal suo cinema.

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Federico Sfascia Alessandro Mignacca Alex Lucchesi Anna Morosini Cecilia Casini Federica Bertolani Francesca Detti Giulia Zeetti Guglielmo Favilla Martina Falchetti Matteo Cantù Mattia Settembrini Milena Garreffa Mirko Peruzzi Raffaele Ottolenghi Veronica Ciancarini 89 minuti
Italia, 2018
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La nuit a dévoré le monde (The Night Eats the World)

di Andreina Di Sanzo
anders-recensione La nuit a dévoré le monde

Difficile pensare al minimalismo se ci avviciniamo a uno zombie movie, eppure La nuit a dévoré le monde (The Night Eats the World), primo film diretto da Dominique Rocher, aggiunge a uno dei sottogeneri più sfaccettati dell’horror un’ulteriore allegoria.

Dopo essersi addormentato a casa della sua ex ragazza durante una festa, Sam si risveglia in una Parigi desolata, restare umani diventa sempre più difficile, il morbo zombi divora tutti velocemente. Anders Danielsen Lie è il protagonista assoluto di un film intimo e rarefatto, poche sono le incursioni di altri personaggi: il non-morto Denis Lavant e la bellissima Golshifteh Farahani, creatura naïf e affascinante come nel Paterson di Jim Jarmusch. Sam affronta, barricato nel palazzo, la sua solitudine mentre fuori il mondo è sempre più decimato dalla presenza umana. Gli zombi non emettono i loro soliti versi e corrono, la voglia di cibarsi di carne umana è sempre la stessa e il protagonista si isola nella sua fortezza scegliendo come unico amico proprio uno di loro, Alfred.

Conclamata metafora politica e ideologica grazie alla grandezza del cinema di George A. Romero, il percorso della filmografia zombi è abbondante e sfaccettato. Qui però diventa materia per un horror arthouse tutto improntato sull’isolamento. Lo spazio del palazzo è il mondo interiore di Sam, probabilmente disilluso e addolorato dopo la fine di una relazione. Riappropriandosi proprio di questo spazio che riassetta con tutto ciò di cui ha bisogno, il protagonista si muove in una prigione che sceglie di non abbandonare. Dialoghi ridotti all’osso e momenti di folli evasioni (fatti di musica con strumenti costruiti grazie agli arnesi domestici), urla,  travestimenti e objets trouvés nelle stanze una volta vissute da famiglie, coppie di anziani, bambini. Sam si rifugia nel mondo di altri per sfuggire al suo dolore, rappresentato da quella realtà esterna priva ormai di umanità.

Ma nel momento in cui un’altra superstite arriva in quel palazzo, nel protagonista nasce la speranza di un nuovo corso, come catapultato in una nuova storia, una nuova relazione, una nuova donna da amare e forse una possibilità per uscire dalla sua solitudine. Allora quel mondo popolato da zombi diventa metafora di profondo dolore, di quella rabbia che Sam tenta di combattere in quelle poche sequenze d’azione e tensione che ci sono nel film, insolito per un’opera sul genere.

Rocher si focalizza sul volto del protagonista, sui suoi movimenti e sulle sue continue interazioni con lo spazio circostante fino all’appropriazione di questo e al tentativo di farne un luogo sicuro e invalicabile.
Tratto dall’omonimo romanzo di Pit Agarmen, La nuit a dévoré le monde, si rivela un film che parte dal genere solo come spunto per arrivare a una sua variazione spirituale. Così i tetti di Parigi, come quelli della Berlino di Wenders, si popolano di spettri, immaginati o reali, in un finale che è solo un nuovo inizio, nuove simbologie e una nuova alba per i morti viventi.

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Dominique Rocher Anders Danielsen Lie Denis Lavant Golshifteh Farahani 94 minuti
Francia 2018
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