Fahrenheit 451

di Leonardo Strano
Fahrenheit-451 recensione film hbo

Fare cinema significa spesso impaginare, visualizzare un’idea di mondo. Nel perimetro espressivo di un certo cinema di genere (e in particolare di un certo tipo di fantascienza distopica), tuttavia, fare cinema significa anche e soprattutto immaginare un’idea di mondo: formulare geometrie  (politiche, sociali ed economiche) dotate di carica finzionale di sussistente credibilità, fare world building narrativo all’interno del piano regolatore della sospensione dell’incredulità e quindi pensare architetture narrative coordinate per formare grandi e “completi” complessi architettonici. Non è un caso che molte delle produzioni di genere fantascientifico abbiano disatteso ambizioni contenutistiche proprio per colpa di basilari difetti strutturali. Quest’ultimo adattamento cinematografico di Fahrenheit 451 prodotto da HBO Films non è che l’ultima prova di ciò che succede a una narrativa cinematografica di fantascienza quando tutte le forze creative sono tese alla costruzione di un impianto d’ambientazione dettagliato e questo impianto non si dimostra abbastanza solido per reggere il peso di una minima crepa di senso, capace di allargarsi divorando l’edificio intero.

Nel caso del film diretto Ramin Bahrani (che firma la sceneggiatura assieme ad Amir Naderi, come già fatto per il più riuscito 99 Homes) il problema risiede nell’assenza di credibilità insita in due scelte di base: raccontare e ricreare nei dettagli il mondo immaginato nel 1953 da Ray Bradbury, trasportandolo però in un futuro prossimo rispetto ai nostri giorni, e allo stesso tempo ignorare le modifiche apportate dalla contemporaneità ai media protagonisti della narrazione originale. Il film soffre sia perché non riesce a comprimere in un minutaggio contenuto un immaginario dal respiro molto ampio, sia perché aggiorna cronologicamente questo immaginario senza tenere conto delle evoluzioni del presente: la tecnologia ha da molto superato l’immaginazione contenuta in un certo tipo di fantascienza, la realtà ha doppiato la finzione con l’agilità e l’inventiva di un’innovazione tecnologica che, invece di portare all’eliminazione fisica dei libri in favore dei mass media, ha trasformato il fuoco distruttore in elettricità eco-friendly, l’incendio delle salamandre in cortocircuito su schermo, il divampare spigoloso delle tirannie in un contatto digitale liquido, morbido e apparentemente innocuo.

Troncato da un format incongruente con la complessità “cosmologica” desiderata, e distorto dal ridimensionamento della lungimiranza profetica della fantascienza ad opera del cambio dei supporti (da cartacei a digitali) e della loro fruizione, Fahrenheit 451 impiega così molte delle sue cartucce (e metà del suo minutaggio) per presentarci una realtà che smette di essere interessante fin dai primi minuti. Il palco di una Cleveland fatta di grattacieli con proiezioni interattive dominata da un inedito social dal controllo totale (chiamato The Nine) non è che un fondale derivativo, un arredamento di maniera; l’azione narrativa gira invece a vuoto, lungo un arco esplorativo che trova nei grandangoli a 360° e nella descrizione dei device distopici i canali per ottenere la tridimensionalità del quadro generale ma non delle individualità caratteriali dei personaggi: la somma delle due cose è un risultato dannoso e qualitativamente insufficiente che punta tutto su atmosfere ormai normalizzate (dalla realtà, oltre che da racconti precedenti e più brillanti) e niente sul vero nucleo tematico: l’importanza della parola, della scelta, del libero pensiero, di quella attività intellettuale eterogenea che è fuoco che combatte fuoco.

La debolezza contenutistica di un mondo inventato che nell’allineamento con la contemporaneità perde fascino e forza espressiva, acquistando un paradossale anacronismo è la ecisiva per il crollo di un sistema strutturale immaginato con pietre angolari deformi. Crollo dopo cui non rimane niente: nessuna valida psicologia dei personaggi, nessun percorso narrativo forte, nessuna tematica importante. Imprigionati in un mondo senza storia e appiattiti su un racconto poco chiaro nelle svolte e nei messaggi, i protagonisti – a cui neanche gli attori (Michael B. Jordan, Michael Shannon, Sofia Boutella) riescono a dare peso – si dimostrano automi che agiscono secondo intenzioni monodimensionali e non alfieri di una rivoluzione contro il potere dei mass media e dell’ignoranza controllata, non il perno di una narrazione umanistica e ribelle.

Mangiato da ambizioni fuori misura e reso piccolo come la fiamma di un fiammifero, Fahrenheit 451 risulta così annullato da sé stesso, svuotato dalle sue intenzioni costruttive fino al punto da perdere anche qualsiasi carica emotiva o patrimonio concettuale che poteva ereditare dal capolavoro da cui è tratto. Alla fine niente di più che un prodotto dimenticabile in cui non si salva nulla, se non la voglia di recuperare in fretta la sua versione letteraria originale.

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Ramin Bahrani Michael B. Jordan Michael Shannon Sofia Boutella 101 minuti
USA 2018
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Castle Rock

di Mattia Caruso
castler rock - recensione serie tv

In principio è stato il prodotto non kinghiano più kinghiano di tutti, Stranger Things, con le sue atmosfere e il suo sapiente citazionismo, ad aprire le porte a un nuovo modo di concepire e portare sullo schermo (anche) l'opera del Re del Brivido. Poi ci hanno pensato prodotti apparentemente innocui come Il gioco di Gerald e, in minor misura, 1922 (ancora una volta produzioni Netflix) a confermare definitivamente che quella tendenza poteva diventare anche esplicita, dettando un nuovo corso per gli adattamenti cinematografici e televisivi a venire.

È tra queste due esperienze – l'omaggio evocativo e la trasposizione fedele – che si colloca un prodotto rivoluzionario (almeno negli intenti iniziali) come Castle Rock, serie prodotta da J.J. Abrams e dallo stesso Stephen King e ambientata proprio nell'iconico universo narrativo di quest'ultimo. Perché, nel nuovo titolo di punta della piattaforma statunitense di streaming Hulu, c'è proprio quel mondo fatto di luoghi, atmosfere e orrori familiari tipico dell'autore del Maine, declinato, però, in una storia originale popolata da nuovi volti, nuove situazioni, nuovi misteri.

È così che, a luoghi e personaggi entrati oramai a pieno titolo nell'immaginario collettivo (la stessa fittizia cittadina di Castle Rock e tutti i rimandi, letterari e cinematografici, che si porta appresso), si affianca una vicenda inedita fatta di ragazzini scomparsi, detenuti misteriosi e altre dimensioni.  Non è certo un caso, d'altronde, che, nei suoi deliri temporali mano a mano sempre più ingombranti, la serie cominci proprio in quel 1991 in cui era ambientato Cose preziose, il romanzo che doveva essere, almeno fino ad ora, “l'ultima storia di Castle Rock”.

È proprio da qui, infatti, che il mondo di King (ri)prende vita sullo schermo, un ritorno a casa assicurato soprattutto dallo sguardo che la serie si porta dietro e dalle infinite possibilità che il suo universo fantastico parrebbe garantirle. Sì perché il condizionale è d'obbligo in una storia che, ben presto – vuoi per i suoi misteri sempre più ambigui e intricati, vuoi per l'apporto di un produttore che proprio sui misteri, la suspense e il rompicapo labirintico e, in definitiva, confusionario ha costruito, da Lost in poi, la sua carriera – accanto ai suoi innegabili pregi, comincia, episodio dopo episodio, a mostrare i suoi difetti, tra dubbi, cali di tensione e confusionarie teorie multidimensionali. E se, da una parte, questo non basta a negare a Castle Rock l'indubbio fascino di un'operazione filologica capace di omaggi e strizzate d'occhio a un intero mondo di appassionati (dai riferimenti diretti a opere precedenti all'uso di attori “kinghiani” come Sissy Spacek e Bill Skasgard), dall'altra porta con sé il sentore dell'occasione mancata, del tentativo, almeno in parte fallito, di fare della serie un vero e proprio nuovo tassello nell'immenso corpus dell'autore di Carrie e It.

Tra Lost e Twin Peaks, tra riferimenti  a Cujo, La zona morta e Shining, Castle Rock resta un oggetto strano, che non attrae né respinge, capace di costruire momenti di grande intensità e lirismo (l'episodio The Queen, dove il disvelamento del passato passa attraverso il caos percettivo dell'Alzheimer) ma anche di incappare in cadute di stile tutt'altro che felici (il ritmo altalenante e lo sviluppo incerto e poco approfondito di alcuni episodi di raccordo). Il risultato complessivo è un passo falso, certo, ma comunque significativo e necessario per il futuro di un filone comunque mai così attento (e rispettoso) nei confronti dell'universo letterario da cui è scaturito.

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Tetsuo II: Body Hammer

di Alessandro Gaudiano
Tetsuo II - body hammer recensione film tsukamoto

Dopo la parentesi di Hiruko The Goblin, opera vivacemente iconoclasta pensata per un pubblico più generalista, Shin'ya Tsukamoto ritorna alla figura di Tetsuo con l'urgenza di un poeta dai cui occhi sgorgano nuove, torbide visioni di un presente in mostruosa trasformazione verso un futuro disumano, o sovrumano. La pura visionarietà autoriale e i limiti di budget del capolavoro del 1989 si innestano in un nuovo corpo, produttivamente più ingombrante, in dialogo più serrato con le logiche ed estetiche del cinema di genere: Tetsuo II – Body Hammer, più che un sequel, è una variazione sul tema, una visione allargata.

Protagonista di Body Hammer è un impiegato, Tomoo Taniguchi (Tomorowo Taguchi), vittima di un esperimento per creare degli ibridi tra umano e arma. Il figlio di Tomoo viene rapito per accendere la rabbia del padre, necessaria alla trasformazione, ma la sua furia si scopre incontrollabile e con origini ben lontane e radicate.
Su questo spartito, tutto sommato semplice e convenzionale, Tsukamoto proietta i suoi fantasmi e costruisce un'opera indisciplinata e sospesa tra mille generi ed estetiche, non meno difficile da classificare del primo Tetsuo.

Per comprendere Tetsuo II è il caso di allontanarsi da Tomoo e dalla storia inscritta sulla superficie del film, per addentrarsi nel suo paesaggio. La vera protagonista è Tokyo, città-formicaio dove l'uomo si muove come un insetto, produce e accumula rovine ai suoi piedi. A svettare e dominare le inquadrature di Body Hammer sono i grattacieli, spesso inquadrati di sbieco e incombenti sugli uomini. Un altro vocabolo di questa grammatica urbana è la fabbrica, il capannone, il ventre di metallo che non sembra partorire altro che pezzi di ferro e protesi per un'umanità ormai perduta. Abbiamo poi le mura domestiche, qui meno predominanti rispetto al primo capitolo, ma sempre decisive: è qui che si svela il dramma di una coppia, ed è qui che le colpe dei padri ricadono sui figli. Infine, abbiamo i luoghi del consumo: la crisi che dà origine alla ribellione del corpo di Tomoo ha luogo in un centro commerciale (gli zombie di Romero sono tornati al lavoro), dove il figlio viene rapito e il suo corpo infettato, almeno in apparenza, con un agente mutageno. L'agente si rivelerà del tutto superfluo: la ribellione era già presente nel corpo, e la trasformazione di un impiegato senza qualità in una rabbiosa fusione di carne e metallo era solo questione di tempo e stimoli adeguati.

Tokyo, la città, l'acciaio che dimentica l'uomo: l'intera trilogia  di Tetsuo è una cacofonia della città, dove alla voce univoca della poesia si sostituisce il ruggito delle macchine e lo stridìo di motori e ingranaggi. Non a caso, la capitale sembra assai povera di parchi e di natura, di curve naturali, persino di nuvole. Body Hammer è il luogo dove questa poetica urbana trova l'espressione più esplicita e palpabile. La città non si "risveglia", non si apre in accurato moto di ingranaggi: piuttosto, pare che la metropoli sia istupidita, abbacinata, alveare senza ape regina. L'uomo, assediato, è costretto a una dolorosa trasformazione per adattarsi al suo nuovo, indecifrabile ambiente. L’attenzione quasi ossessiva per l'estetica dei corpi maschili e la coreografia dei loro movimenti sembra una risposta a questa minaccia: il corpo deve essere una macchina in forma perfetta, un fisico d’acciaio figurato intorno a cui la macchina da presa può danzare.

Dall’acciaio figurato alla vera mutazione, in ogni caso, vi è un abisso difficile da superare: quello tra uomo e post-umano. Un salto traumatico verso l’ignoto. Anche questa volta, come nel primo Tetsuo, l'esplosione del corpo in estrusioni metalliche e bocche da fuoco è un atto rivoluzionario che richiede uno sguardo disumano, rapidissimo quanto analitico, che dispiega tutti i mezzi e le tecnologie del cinema: animazione a passo uno, montaggio sincopato, commento sonoro ai limiti del caos. Ad emergere è una nuova carne e un nuovo modo di metterla in scena; entrambi gli aspetti hanno delle conseguenze sul piano politico e su quello estetico.
Politico, perché il primo bersaglio di Body Hammer è il Giappone contemporaneo e l'uomo che ha prodotto. Gli atti di ribellione sono le uniche vie di fuga, apparentemente: fughe disperate, sotto forma di sette che complottano per distruggere il mondo e  culti del corpo e del vigore che fanno da controcanto alla incontrollabile sessualità che era la cifra del primo film. Sembra di vedere il fantasma di Marco Ferreri dietro a questa apocalisse dell’umano e dietro alla disperante sequenza finale di Body Hammer, con una importante differenza: se nel Seme dell'Uomo l'umanità giungeva ad una fine insensata e inappellabile, la violenza de/rigeneratrice di Tetsuo sembra ciclica e inevitabile.
Per quanto riguarda l'estetica, l'incubo di Tsukamoto è un groviglio di Oriente e Occidente, modernità e orrore mitico. Il mostro di metallo non è, dopotutto, così diverso dai demoni e dalle creature della mitologia di ogni luogo, con l'importante differenza che la maledizione è qui causata dall'uomo e non dal divino. L'uomo cambia in modo incomprensibile, si maledice: siamo vicini ad Akira e a David Cronenberg, ma la maledizione dell'essere una creatura a metà tra l'umano e il "divino laico" dell'acciaio fa pensare, in questo secondo capitolo, anche alla tragedia di Robocop. O meglio, alle premesse e alle conseguenze di un mondo dove Robocop è possibile: la babele sociale, la perdita di controllo, la violenza liberatoria come unica risposta al mondo oltre la soglia di casa.

In una delle sequenze più visionarie di Body Hammer, Tomoo sembra impazzire mentre l'immagine si sovrappone a una palla di fuoco; in un'altra occasione, è lo stesso fotogramma ad incendiarsi e accartocciarsi. Nonostante una certa "normalizzazione" dello sviluppo narrativo a cui si è accennato, Tsukamoto non esita a sciogliere la leggibilità dello sguardo in un ribollire di immagini materiche e cellulari, che lo avvicinano, di nuovo, ai territori dell'arte astratta e del videoclip. La scelta del colore in luogo del bianco e nero, in questo senso, non fa che esaltare la natura febbrile, visionaria, di questo cinema: nei suoi blu e rossi saturi possono vivere solo fantasmi, rivelazioni, incubi.

Ed è in questa furiosa bellezza, in questo lungo grido in forma di immagini e sonorità stridenti, che Tsukamoto si rivela essere una delle voci più moderne del nostro tempo. Dietro alle maschere cyberpunk e all'orrore, l'umano palpita con una sincerità toccante e il suo dolore ci viene trasmesso con un’intimità quasi insopportabile. Tetsuo non è mai stata la storia di una “semplice” apocalisse, né quella di una utopica rinascita: è la cronaca dettagliata di una trasformazione dolorosa, il balletto meccanico di un occhio che ha perso l'innocenza e cerca nuovi sguardi o, quantomeno, nuovi schermi. L'Uomo di Ferro è un automa con la macchina da presa che danza sulle rovine e ci osserva, con un misto di pietà e sadica, infantile curiosità.

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Shin'ya Tsukamoto Tomoro Taguchi Nobu Kanaoka Renji Ishibashi 85 minuti
Giappone 1991
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My Home, in Libya

di Marco Marrapese
Locarno Documentario Melilli

Martina è come un'italiana di seconda generazione, eppure tutta la sua famiglia è italiana da sempre. È una condizione particolare quella della ragazza e della sua famiglia, ma non dissimile da quella di tanti altri italiani emigrati all'estero e poi rientrati in patria. Il padre ed il nonno di Martina, infatti, sono nati in Libia e lì hanno vissuto fino al crollo della monarchia, poi con l'ascesa al potere del colonnello Gheddafi sono tornati a vivere in Italia. Martina in Libia non c'è mai stata, ne ha sentito parlare solo attraverso i discorsi dei nonni, ex commercianti a Tripoli, e la storia della sua famiglia non l'ha mai conosciuta davvero in maniera approfondita. Aprendo il baule dei ricordi insieme ai nonni Antonio e Narcisa, Martina Melilli, per il suo primo lungometraggio presentato fuori concorso all'ultima edizione del Festival di Locarno, prova a mettere insieme i pezzi della storia sua e dei suoi famigliari, attraverso ricordi e immagini di una vita ormai lontanissima. Il film dunque, sin dal suo incipit, sembra proiettarsi verso il mero esercizio di ricostruzione di una memoria privata, che poi, inevitabilmente, si riflette nella storia di una nazione e di tutto il mediterraneo.

Fortunatamente il documentario della Melilli si svincola da un legame con il passato troppo asfissiante, costruendo la sua narrazione anche su un secondo livello, quello del presente. La protagonista, infatti, si mette in contatto via chat con un giovane studente universitario libico, Mahmud, che la aiuta nella sua impresa, girando per lei alcuni video per le strade di Tripoli. Dall'incontro tra i due viene fuori un moderno epistolario via chat, che rappresenta l'aspetto migliore dell'opera, la sua parte più vitale. Il lungo messaggiare tra i due ragazzi fa confluire nel film inaspettate esternazioni private, riflessioni sulla cultura dei due Paesi, aspettative e desideri che legano persone della stessa generazione sulle sponde opposte del mediterraneo.

Grazie anche all'utilizzo dei messaggi di testo, My Home in Libya riesce a trovare una sua peculiarità estetica, che strizza l'occhio alla videoarte e alla multimedialità. La Melilli, tuttavia, a tratti si perde nella lunghezza e nell'ostentata ripetizione di alcune inquadrature, per di più insignificanti per l'economia generale del racconto (si veda l'inquadratura del pappagallo). Il film scivola, peraltro, quando cerca di affrontare la vicenda libica e delle migrazioni da un punto di vista strettamente politico. La regista sovrappone le immagini di alcuni corpi inermi all'audio di un comizio elettorale. Una trovata sensazionalistica, per certi versi gratuita, discutibile da un punto di vista etico e quantomeno superficiale nell'approccio alla questione. Il documentario, infatti, non tiene per niente conto della storia recente e passata dei rapporti tra Italia e Libia, del ruolo libico nello scacchiere del mediterraneo e della complessità del fenomeno migratorio. D'altronde affrontare un tema così caldo vuol dire correre un rischio altissimo di maneggiarlo incautamente.

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Martina Melilli 66 minuti
Italia, 2018
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Hiruko the Goblin

di Fiaba Di Martino
Hiruko the Goblin di Shin’ya Tsukamoto

È un film su commissione, questo Hiruko The Goblin, realizzato da Shin’ya Tsukamoto –  alla sua prima volta con una major – per conto della Shochiku. Film alimentare potremmo dire, non si trattasse di uno come lui, in grado di far crescere una personalità imponente e soverchiante pure su un terreno di committenza, accettata soprattutto per poter far fruttare successivamente e in piena libertà l’exploit di Tetsuo

In Hiruko The Goblin non v’è traccia di un modus operandi da timbratura del cartellino, di un freno a mano nell’espressione stilistica e nell’estetica schizofrenica che caratterizza, a volume più o meno alto, il corpus del Nostro, sebbene abbia certo un appeal da pubblico, detto volgarmente, “di massa”, questa storia di un mostro pseudo-leggendario, a cui un archeologo dal cuore spezzato e il fegato di ferro dà la caccia da tempo, e che si ritrova ad affrontare una volta per tutte all’interno di una scuola, spalleggiato da un pavido ma volenteroso studente al quale è peraltro imparentato. E tuttavia Tsukamoto ci spalma sopra fin dalle prime battute una glassa autoironica e irrequieta. Incontriamo il protagonista, l’archeologo Hieda, mentre scava con solerzia un cumulo, con tanto di spirit detector; un Indiana Jones nipponico che ispira ben poca epos. Subito dopo, lo squarcio bucolico incornicia una fanciulla cortese, Reiko, unico elemento di purezza del film, che difatti si trasmuta immediatamente in una visione perturbante e grottesca, quando lei e il suo professore risvegliano il maligno. Ma il regista rimanda il più possibile l’evidenza dell’orrore, preferendo il piacere tensivo dell’implicito e, soprattutto, la creazione di un contesto di negazione erotica: quando il giovane Masao, il co-protagonista, intercetta un avvicinamento compromettente fra Reiko (suo oggetto d’amore) e appunto il prof (suo padre!), ad avanzare è il turbamento ormonale, che scompagina comicamente il pericolo del momento e fraintende la condizione emotiva: è come se fosse quel bacio a creare il mostro, come una specie di sberleffo favolistico, che viene subito celato e si risolve in uno spruzzo di sangue che innaffia il vetro, come una sorta di flash mestruale o il teaser di una possibile culminazione orgasmica. 

Ed è anche in queste impennate febbrilmente cartoonesche, negli scarti slabbrati – come la soggettiva in convulso affanno della bestia – che si delinea chiaramente un’incarnazione brutale e nevrotica dell’impulso sessuale forzosamente negato: quello, solo potenziale e accennato, della studentessa per il prof, quello ribollente del compagno di classe per lei, quello dell’archeologo per una donna morta. Un fil rouge che trapassa l’intero film e lo rende ripetuta esposizione spettrale di immagini di turbamento, prima di tutto sessuale, appunto negato; nella prima metà il Goblin è principalmente una scarica elettrica incontrollata e inconsulta come un brivido erotico – non a caso il sovrannaturale arriva dal sottosuolo, da percezione invisibile a forza demoniaca inconosciuta fino al momento fatidico, poi la possessione e la consumazione dell’omicidio è rapida, un battito impercettibile difficile da cogliere, un male endogeno che l’uomo adulto combatte da un lungo periodo (casto, giacché privato dell’amata) e che trova invece il ragazzo inerme. E quando l’immagine del mostro nella seconda parte diventa esplicita – testa di fanciulla e fisico aracnide – si esplicita anche la sua tattica omicida, la penetrazione dell’inconscio – con allucinazioni oniriche – e della carne tramite protuberanze che, lui sì, utilizza a profusione. Il racconto del mostro come entità onnipresente e ubiqua, onnisciente e sfarinata (visi che compaiono improvvisamente su un groviglio di rami o sotto una pentola o nel buio di una parete o dentro i sogni o dentro la testa) è insomma una messa in esistere – immediata, semplice ma efficacissima – di pulsioni erotiche e di morte e viceversa che, pur estroflettendosi dalla propria realtà – il corpo, di Hieda e di Masao –, sono comunque sempre addosso ai due protagonisti, e sempre fuori dal loro controllo, mai sfogate fattualmente ma solamente visualizzate come dannazione da estirpare. Tutto parte da ciò che hanno visto e che ha acceso l’impulso, e per questo la loro pulsione scopica viene continuamente frustrata e punita, mentre l’orrore è in azione su un proscenio istituzionale, quello scolastico, un rigido impero formale dell’ordine e delle regole, inesorabilmente fatto a pezzi. Perché nell’opera di Tsukamoto non ci sono confini all’iconoclastia e alla dissacrazione delle catene sociali, di quelle mentali, di quelle che ci autoinfliggiamo.

Su tutto, comunque, spicca predominante il semplice gioco del cinema, delle sue irradiazioni (quella specie di Necronomicon, quella covata finale, quelle crepe violente e mutanti che sono figlie ritornanti della Cosa carpenteriana), il semplice godimento del gesto cinematografico, che in Tsukamoto è sempre un atto d’indipendenza da qualunque restrizione di forma, narrativa o di genere che dir si voglia. Per cui il cinema è fucina di mutazioni, prima che metaforiche, di libertà: l’intemperanza magica, l’incantamento delle carni sanguinolente può venire da un arazzo di tatuaggi funerari come da una visione rubata, ma è sempre una questione di immagine tattile, sensoriale, sia essa sovraesposta o sconfessata, senza via di mezzo alcuna, come nel suo abissale capolavoro Kotoko, dove era la permanenza dell’immagine rifratta, decomposta, il riesumarsi malato e reiterato di shock post e pre traumatici, di inquadrature interiori ridotte a brandelli, a istituire il profilo di un corpo mostruoso per la sua natura o il suo passato. 

Hiruko The Goblin si muove certo su un piano molto meno complesso, corteggiante il piacere del B movie (il finale, poi, è uno sbeffeggio di classico quasi inaudito, con il sole/la luce per sconfiggere il Male, l’elmo e la formula da recitare per far battere in ritirata le forze oscure; e la gravitas del duo che osserva le anime in volo è comunque irrisa dalle sembianze ridicole delle anime), l’ambizione apparentemente bassa, condotta su una superficie visiva e narrativa basica, una succitata essenzialità che ne fa un divertissement isterico e bambino; ma il bello di Tsukamoto è che si permette sempre di tutto, anche in un film etichettabile come minore come questo Hiruko – e che dire allora di Killing, che pare fatto con due lire in un weekend eppure che potenza, che statura tragica –, innestando in una storiella mainstream di genere una profonda consapevolezza del mezzo e del suo uso, una contaminazione di umori cinematografici (horror, commedia, demenziale e melodramma naif – per entrambi i protagonisti c’è un lutto vecchio o nuovo ed è su quello che lavora l’orrore –) e una continuità poetica: Hiruko è una ghost story romance, dopotutto, ancora una volta, dove alla radice della maledizione c’è una frattura pulsionale-amorosa, e dove i fantasmi si scoprono dolorosamente di carne. 

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Shin'ya Tsukamoto Kenji Sawada Masaki Kudou Hideo Murota Naoto Takenaka Megumi Ueno 90 minuti
Giappone, 1991
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Halloween II – Il Signore della Morte

di Jacopo Bonanni
Halloween 2 Film Recensione

Quando Halloween debuttò nelle sale – il 25 ottobre del 1978 – fu una rivelazione. Nessuno sospettava che un piccolo horror indipendente, costato appena 320.000 dollari, potesse riscuotere un successo così grande da sbancare ai box office; incassando 47 milioni di dollari soltanto negli Stati Uniti. Tanto meno era possibile ipotizzare che Michael Myers, il boogeyman - vacuo e inafferrabile - creato da John Carpenter, potesse dare vita ad un franchise vero e proprio; generando una fortunata progenie di pittoreschi epigoni, protagonisti - a loro volta - di un macabro folklore metropolitano. D’altronde – all’epoca dell’uscita del film – i sequel non erano ancora una prassi consolidata ad Hollywood ed il concetto di serialità – sinonimo di scarsa qualità - nel cinema horror era legato per lo più al retaggio delle gloriose produzioni Hammer e Universal dedicate ai “mostri classici”; salvo alcuni tentativi del calibro di: L’esorcista II – L’ereticodel 1977, “Omen II – La maledizione di Damiene “Lo squalo IIdel 1978.

Tuttavia - all’alba degli anni ottanta - qualcosa stava cambiando e i primi ad accorgersene e ad intuire le enormi potenzialità commerciali di un genere fertile come lo slashersempre più popolare tra gli adolescenti – furono proprio i produttori del primo capitolo: Moustapha Akkad e Irwin Yablans, che decisero di resuscitare il Signore della Morte di Haddonfield - sulle note di Mr.Sandman delle Chordettes - prima che altri titoli minori potessero rubargli la scena (su tutti Venerdi 13 parte I e II). Il progetto iniziale era quello di sviluppare un seguito completamente slegato dall’originale, girato in 3D, ambientato in un appartamento altolocato (vedi Poltergeist III del 1988), diversi anni dopo gli avvenimenti del primo episodio, ma l’idea sembrava un azzardo e venne subito scartata in fase di scrittura.

Per questa ragione, si pensò di approcciarsi al nuovo materiale come se si trattasse di una sorta di “secondo tempo” del precedente che, partendo dagli eventi già raccontati, approfondisse le ragioni dell’ossessione di Michael Myers per la giovane baby-sitter Laurie Strode. Così, nel 1981 esce Halloween II - Il Signore della morte: il film incomincia esattamente dove si era interrotto il suo predecessore, aspirando a diventare l’erede del film cult concepito tre anni prima; un’impresa ardua ma non impossibile, dato che il sequel in questione sarà l’ultimo scritto e prodotto dall’inossidabile coppia John Carpenter-Debra Hill.
Fin dai primi minuti il ritmo è incalzante: l’esordiente regista Rick Rosenthal dimostra di saper sfruttare la tensione latente ereditata dal suo precursore - esasperando i meccanismi della suspence - per mettere in scena un’adrenalinica battuta di caccia notturna - tra il redivivo Michael Myers e il Dott. Loomis - che sposta l’azione dalle strade congestionate dal panico della cittadina alle corsie anguste e desertiche dell’ospedale di Haddonfield, dove si svolgerà il vero assedio. La prima parte della pellicola è volutamente la più simile stilisticamente al lavoro precedente, come si evince dall’attenzione metodica ai lenti movimenti di camera, la presenza/assenza fantasmatica del protagonista ripresa in soggettiva; passando per i palesi rimandi cinefili a Dario Argento (l’infermiera affogata nella vasca), fino all’utilizzo della fotografia cupa e sgranata di Dean Cundey (The Fog, 1997: Fuga da New York, La Cosa). Soltanto in un secondo momento - abbandonata la maschera del thriller psicologico - esce fuori l’animo più sanguigno del film: uno slasherduro e puro – caratterizzato da un elevato numero di morti on/offscreen e da un uso spiccato della violenza a livello grafico, che con gusto sadico e rara maestria non lascia nulla all’immaginazione dello spettatore, portando alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Carpenter negli anni settanta.

Infatti, è proprio a partire da questo sequel che inizia la lenta metamorfosi del personaggio di Michael Myers che da inquietante stalker di baby sitter si è trasformato nello spirito vendicativo della vigilia di Samhain, in attesa di assurgere al ruolo di cavaliere pallido di un’apocalisse imminente. In realtà tutti i protagonisti brillano di una luce oscura durante la visione, in primis la splendida Jamie Lee Curtis – ormai scream queen affermata (The Fog, Prom Night, Terror Train) - nei panni dell’allucinata Laurie Strode che deambula tra i corridoi della clinica dove è stata ricoverata; in preda ad una trance onirica da cui riemergono quei ricordi infantili che sveleranno – per la prima volta - il rapporto di sangue che la incatena al suo persecutore. Fino ad arrivare al vero mattatore della vicenda: Donald Pleasance che in quest’occasione ci regala una delle interpretazioni più suggestive e teatrali del Dott. Loomis, in un finale epico che lo vedrà mettere fine – idealmente - alla crociata di sangue di Michael Myers, almeno fino al 1988. Meno visionario a livello cinematografico ma più pragmatico sul piano commerciale Halloween II si rivela – a distanza di anni e nonostante le critiche - il miglior sequel possibile della saga: uno slasher moderno ricco di elementi essenziali per lo sviluppo futuro dell’intero franchise e l’unico in grado di competere con l’originale.

Tutti devono qualcosa al film di Rosenthal, compreso Rob Zombie, che nel suo seguito apocrifo del 2009 omaggia le atmosfere malsane di quel secondo capitolo seminale, dedicandogli una lunga carrellata sulle note dei Moody Blues che echeggiano all’interno di un altro inquietante ospedale.

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Rick Rosenthal Jamie Lee Curtis Donald Pleasence Dick Warlock Lance Guest 86 minuti
USA, 1981
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Tetsuo

di Samuele Sestieri
Tetsuo

Cosa si può scrivere ancora di Tetsuo dopo la pletora di materiale che gli è stato dedicato? Libri, saggi, omaggi, seguiti e rifacimenti, tesi di laurea, esegesi e interviste infinite. L’esordio alla regia di Shin'ya Tsukamoto (anche se prima c’era già stato L’avventura del ragazzo del palo elettrico che ne era una grottesca, irriverente anticipazione estetico-tematica) è il cult-movie per eccellenza in un’epoca cinematografica dove fermentava la nuova carne cronenberghiana e cominciavano le terribili assimilazioni dei borg. I fedeli del cyberpunk, quelli cresciuti ad Akira e metallo, avevano superficialmente identificato Tetsuo in un manifesto identitario, quello dell’Iron Man. Eppure il furore di Shin'ya Tsukamoto non si fermava all’ibridazione uomo-macchina, non era interessato tanto alla nuova creatura a-venire quanto alla malinconia della trasformazione stessa e alla mutazione come atto politico (e questo vale per la sua intera filmografia). Nessun capitolo della trilogia va nella direzione di un nuovo, definitivo corpo, semmai Tsukamoto inscena la scomparsa di quel corpo. Lo (con)fonde, lo possiede e lo distrugge, alla ricerca di un germe sottocutaneo, di uno pneuma spirituale che possa guidare il nuovo mondo.

Sullo sfondo, quasi sempre fuoricampo (per riprendersi la scena nell’apocalittico, straordinario Tetsuo II) c’è Tokyo, interamente ricostruita dalle macerie della guerra (ma è sempre stata la città mutante per eccellenza, ben prima del Novecento). Tokyo è la vera nemesi del protagonista. L’architettura impersonale della metropoli estende le sue possibilità viventi, come un organismo postatomico che getta le proprie scorie sull’individuo. La città è troppo grande per esseri umani troppo piccoli: alla stregua di un mostro cibernetico, è già pronta a fagocitare i suoi abitanti. L’architettura non può fermare il suo moto bulimico e finisce per eccedere i propri spazi, per creare nuove realtà. Germoglia quindi dentro i nostri corpi, insediando la carne, coniando topografie ulteriori e facendo di noi bizzarre creature radioattive, entità urbane di cuore e metallo.

Prima di qualsiasi rete, prima degli hikikomori e delle patologie virtuali, Tsukamoto rinchiude il suo protagonista in casa, negandogli gli esterni, bloccandolo fra le mura domestiche. Il suo è un corpo stanco, spossato dal lavoro quotidiano, sconfitto dalla città, neutro come la massa (ma il corpo debole, affaticato, popola tutti i film di Tsukamoto ed è lo stato larvale di qualsivoglia mutazione).

“(...) l’immagine della città che si restringe e al suo interno gli esseri umani, ormai inscatolati in stanze esigue, che operano solo attraverso i computer. Il cervello va ingigantendosi man mano che il corpo si riduce” diceva Tsukamoto ormai quasi trent’anni fa, lanciando parole che ci sembrano, col senno di poi, manifestazioni di preveggenza. Proprio in questo Tetsuo supera se stesso, trasformandosi in un insospettabile gesto politico: seppure con orrore, l’uomo non respinge il ferro, accogliendolo volontariamente nella sua carne. Accetta il corpo estraneo per poter assestare, a sua volta, un attacco contro la città. “Il messaggio è quindi di speranza: che la città venga distrutta non da guerre o da ordigni meccanici, ma dal corpo degli esseri umani."

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Di conseguenza l’urbano si comprime nel domestico: l’abitazione si trasforma in una sorta di grembo materno dove si va a formare un nuovo, insospettabile embrione (in una maniera in fondo non così dissimile dalla stanza uterina dell'Oscurità/Luce/Oscurità di Jan Svankmajer). Al suo interno, due creature – marito e moglie – destinate ad unirsi, combattersi, sfinirsi, amarsi in un coito infinito. Gli orgasmi sono scosse elettriche guidate da una dimensione fallocentrica, dove il trapano può penetrare, letteralmente, l’antica carne. Ma non c’è fantascienza in questa mutazione, Tsukamoto affronta la realtà con un piglio così realista da risultare stordente: il passo uno scaccia ogni equivoco, il cinema denuncia se stesso e i propri trucchi. Quello che si sta raccontando è l’essere umano in tutte le sue trasformazioni (magnifica intuizione, a questo punto, quella reiterata nel leggendario libretto del cofanetto RaroVideo: Tetsuo come cinema neorealista).

Tsukamoto, infatti, non può che immaginare il reale in b/n (come Garrel!), sfilacciato in un film breve e low budget, scandito dal furore irrefrenabile della stop/motion. Per tre quarti di durata, il film si rinchiude in interni, inscenando una crisi di coppia sui generis, un pinku eiga finalmente libero di scatenare tutte le sue iperboli: quasi un film di un Wakamatsu avvolto dal metallo, che riscopre nel sesso il potere della trasmutazione. L’idea dell’unione sessuale diviene un dissolversi nel corpo dell’altro, uno sparire astratto tra liquidi di ferro, a metà strada fra crash ballardiani e piccole morti batailliane. Si potrebbe anche dire che Tetsuo sia un film sul sesso come atto di sparizione. Nel coito perdiamo la nostra identità, ci lasciamo andare completamente, definitivamente all’altro. Coniamo l’altro. Entrare nell’altro, d’altronde, significa scoprirsi altrove, uscire fuori di sé (come in un’esperienza estatica). E l’epidermide mutante dell’Iron Man ricopre, fin dalla clamorosa sequenza dei titoli di testa, un corpo epilettico, posseduto, ospite di un’eterna mutazione (la mia fissazione rimane quella di vedere in formato split-screen squisitamente depalmiano da una parte il corpo mutante di Tetsuo dall’altra quello di Isabelle Adjani nella danza epilettica di Possession).

Il corpo sparisce, lo sguardo permane: la vista è essenziale per potersi vedere con i propri occhi e non riconoscersi, gioendo infinitamente del divenire perpetuo delle cose. Sotto l’acciaio, il cuore umano: Tsukamoto si conferma uno dei registi più autenticamente, più profondamente spirituali degli ultimi trent’anni. La materia è destinata a mutare perennemente, solo l’invisibile rimane intatto. La coppia, ormai unita nell’amalgama di ferro a due teste, è pronta all’estasi della guerra: “Trasformiamo il mondo in una massa d’acciaio. Facciamolo arrugginire tutto così che si sbricioli nel cosmo. Facciamo ardere la terra con il nostro amore.”

Si è spesso scritto della furia iconoclasta, distruttrice e liberatoria del cinema di Tsukamoto, ma qui sussiste la profonda malinconia di un presente che non si può più fermare. Le rovine del mondo urlano a squarciagola la loro instancabile, virulenta magnificenza (quanto futurismo, quanta velocità in questo grande cineasta!). Alle proprie spalle, l’atomica. Il mondo è già finito, Tsukamoto lo sapeva benissimo. E dopo? Dopo Hiroshima e Nagasaki? Dopo la catastrofe? Dopo gli olocausti? Liberi di scioglierci nella bellezza del movimento in-divenire, riconfiguriamo perennemente nuove declinazioni dell’occhio.

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Per amore di postilla: la prima volta che mi sono imbattuto in Tetsuo avevo quindici anni, al massimo sedici. Non conoscevo quasi nulla di cinema giapponese. C’era questa videocassetta che mio fratello vedeva in continuazione con i suoi amici. La lettura del nastro, un po’ rovinato, emetteva quel solito rumorino sgradevole - eravamo convinti che servisse a qualcosa soffiare sul nastro, come si faceva sulle cassettine del supernintendo. Ora immaginate la potenza devastante di questo film che non somiglia a nient’altro. Troppo veloce per bloccarlo, troppo disturbante per svanire, troppo virulento per non far parte di te. Il bianco e nero, i continui cut che inventano un nuovo ritmo della visione, un nuovo passo dello sguardo. La pista sonora martellante di Chu Ishikawa dove la musica sembra forgiare l’immagine, come se ne fosse il suo fantasma. E il corpo – questo sconosciuto! – che, come una crisalide, si fende (a me sembrava di aver aperto il vaso di Pandora!). Mi passavano per la mente tutti gli ossimori del mondo – senza sapere nemmeno cosa fosse, un ossimoro -. Orribile bellezza, erotico terrore, molto prima del parto impossibile di Gozu, molto prima di qualsiasi tendenza weirdo e di qualsivoglia iconoclastia orientale. Poco dopo scoprii La cosa di John Carpenter e, alla vista di quella testa mostruosa, iniziavo a capire. E oggi più di un brivido mi coglie mentre osservo la sequenza atomica di Twin Peaks 3, mentre Tsukamoto ritorna e, dopo aver scalato una collina (Nobi), dopo aver dato grana a nuovi doppi (Kotoko), riparte dall’atto stesso di uccidere (perdita della verginità come nuova configurazione del mondo): Killing!

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Shin'ya Tsukamoto Kei Fujiwara Nobu Kanaoka Naomasa Musata Tomoro Taguchi Shin'ya Tsukamoto 67 minuti
Giappone, 1989
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Il sacrificio del cervo sacro

di Marco Compiani
Il sacrificio del cervo sacro - recensione film Lanthimos

It’s not an act (?)
In una celebre sequenza di Shining Jack Torrance osserva dall’alto il modellino del labirinto dell’Overlook Hotel. Qui la soggettiva del protagonista, improvvisamente, si trasforma in un insolito plongèe che ci catapulta all’esterno, dove Wendy e Danny passeggiano ancora inconsapevoli delle future minacce. Appare chiaro come in questo frangente Kubrick, con la sua consueta e ghignante ironia, volesse creare un cortocircuito, un gioco di scatole cinesi, dare forma a un occhio demiurgico (quindi registico) che si colloca sempre al di sopra dell’umanità rappresentata, controllata con lucido distacco. Lo stesso sguardo dall’alto domina Il sacrificio del cervo sacro, una verticalità riproposta da Yorgos Lanthimos sin dall’operazione a cuore aperto che fa da prologo al racconto.

Non è la prima volta che Lanthimos omaggia il regista newyorkese. Già in The Lobster l’utilizzo della voice over di Rachel Weisz richiamava con mirati accompagnamenti musicali certe scelte presenti in Arancia meccanica (il commento di Alex) e Barry Lindon (il narratore onnisciente). Ma non solo. Molte sequenze avevano un ché di déjà-vu piuttosto esibito. In quest’ultimo film la modalità si fa ancora più sfacciata, l’approccio è a dir poco duplicante: la colonna sonora che sembra provenire dai corridoi di Shining (Ligeti, guarda caso), la fotografia con gli studiati punti luce intradiegetici, l’uso calcolato della prospettiva, la steady che segue i personaggi con continui scavalcamenti di campo, e molto altro.

E c’è tantissimo Eyes Wide Shut, a partire dalla protagonista Anna, interpretata da Nicole Kidman. E Alice? Cosa rimane di quel femminino che nel capolavoro kubrickiano era un elemento capace di mettere in crisi la luccicante finzione borghese? Cosa rimane di quel corpo tanto animale quanto onirico, che accompagnava l’iniziazione del marito Bill? Per avvicinarci alla rilettura che Lanthimos fa del (suo) maestro, la figura della moglie in questo gelido ritratto famigliare è illuminante. Anna, di mestiere oftalmologa, è l’ennesima maschera della distopia emotiva del regista greco, un automa in cui il cuore potrebbe anche non battere, una meccanica fisiologica che anestetizza qualsiasi suggestione erotica (si pensi alla scena dei preliminari con il marito). Lanthimos porta all’estremo la poetica di Kubrick, aumentando ulteriormente il distaccamento nei confronti della materia osservata, anche nell’uso dei piani dell’inquadratura.

Guardando al complesso di questo rapporto c’è sicuramente della coerenza nella rivisitazione del modello, e qui ci è di aiuto proprio l’esordio del greco, Kinetta, dove l’orrore del reale (lo stupro) poteva farsi narrazione solo attraverso una sua messa in scena (i corti da contact improvvisation) volta a una chirurgica azione di stilizzazione e svuotamento. Con Il sacrificio del cervo sacro il passo è ulteriore e più vicino all’immaginario filmico di riferimento, chiamato a sua volta a partecipare al gioco di meta-rappresentazione. Kubrick è qui davanti a noi ma è una replica, una fredda e consapevole riproposizione, puramente tecnica, vuota come l’umanità rappresentata, una galleria di personaggi privi di un mondo interiore o di qualunque abbozzo di psicologia.
Ogni accenno emotivo è azzerato nella meccanica corporea («Don't cry, crying will only make your eyes hurt more» si diceva in The Lobster) e la stessa cosa capita all’omaggio, al dialogo intratestuale. Personaggi e modelli per Lanthimos sono entrambi pedine, (s)oggetti da osservare clinicamente attraverso la macchina da presa: fate caso a quante volte i protagonisti vengano inquadrati dietro a un vetro, con il riflesso dell’esterno che si sovrappone alla loro immagine. E qui, in un cinema che si avviluppa su se stesso, discontinuo e sigillato, torna lo spaesamento sull’impossibilità di vivere la dialettica tra interno ed esterno. Come per The Lobster, la prigione di queste esistenze, in cui si lotta vanamente per cercare la propria individualità, la propria natura di soggetto, è totale, è ontologicamente legata alla natura stessa delle immagini.

Il sacrificio del cervo sacro è l’ulteriore tassello di una filmografia che genera fantascienze contemporanee. Parlo di fantascienza per le regole autosufficienti e mai spiegate, che vanno oltre la verosimiglianza e delineano i mondi di volta in volta rappresentati. È attraverso di esse che Lanthimos affronta il tema della colpa, seguendo le inspiegabili tracce che danno forma al tramandarsi della stessa alle generazioni successive.
C’è ovviamente una causalità: Steven (Colin Farrell) ha ucciso un paziente e su di lui piomba una maledizione che solo accettando la propria responsabilità come individuo (si torna a uno dei temi fondamentali di Lanthimos) e sacrificando un membro della famiglia può debellare. Non vi sono però spiegazioni, quel presente, governato da un caos cristallizzato, non può essere realmente compreso, nemmeno se un’invasione narrativa alla Haneke (incarnata dal personaggio di Martin) legittima il concatenarsi degli eventi.

Martin irrompe in una posizione discorsiva critica, che frantuma le logiche statiche della famiglia. Ed è la parte più fisica, vitale (?), che riemerge e sembra far ritornare a battere un cuore che nel prologo si allacciava a un cestino della spazzatura al cui interno cadevano le ultime tracce di sangue. Martin divora, si nutre di questo freddo allestimento, fino a esplicare la propria natura di interpretazione: «E’ una metafora», sentenzia dopo aver morso Steven e, per analogia, essersi staccato un lembo di pelle. Il ragazzo, con crudeltà, pone di fronte al protagonista ciò che può renderlo un uomo: la scelta. E non c’è Dio che tenga, che possa venire dall’alto a salvare la povera Ifigenia, anche perché, nuovamente, in Lanthimos l’occasione è sprecata ed è la cecità dell’esistenza a creare una nuova prigione. È il movimento circolare prima di sparare, in un atto conclusivo che richiama l’orologio iniziale,  l’ennesimo atto di spersonalizzazione. Forse, a pensarci un po’, aveva ragione Martin: meglio un cinturino in pelle che in metallo.

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Yorgos Lanthimos Colin Farrell Nicole Kidman Barry Keoghan Raffey Cassidy Sunny Suljic 109
Gran Bretagna, USA 2017
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Shin'ya Tsukamoto - L'esplorazione del possibile

di Matteo Marelli
Shin'ya Tsukamoto - bullet ballet

Nel 2013 la Mostra del Cinema di Venezia festeggia i suoi primi 70 anni con una “chiamata alle arti” intitolata Future Reloaded, una riflessione per frammenti (tanti quanti gli anni celebrati; ciascuno realizzato da un diverso regista) sul passato e il futuro del cinema. Tra i molti interpellati anche Shin'ya Tsukamoto che, in collaborazione con i figli Atsuko e Kounosuke, dirige Abandoned Monster, un home movie che è al contempo sia un cartoon (nel senso letterale della parola) sia un disaster movie a dimensione di bambino, girato in casa tra personaggi e scenografie di cartone.
Qualche mese prima, esattamente il 30 aprile, Tsukamoto era ospite a Bari per tenere a battesimo la seconda edizione di Registi Fuori dagli Schermi, la rassegna diretta da Luigi Abiusi e prodotta da Apulia Film Commission in collaborazione con Uzak. Dopo la sua partecipazione realizza un contributo per il trimestrale dal titolo Qualcosa che si risveglia nell’oscurità. Quello che scrisse appare a posteriori come una postilla del corto presentato a Venezia Da bambino avevo la testa fra le nuvole. Visto che non andavo bene a scuola, per fuggire da quelle preoccupazioni […] volavo nel mondo della fantasia. […] gli adulti si preoccupavano per me. […] Quando oggi creo […], lo faccio con la sensazione di perdermici, come accadeva da bambino») così come questo, a sua volta, può essere considerato, per certi versi, un compendio della sua idea di cinema.

Ciò che emerge innanzitutto è un approccio di tipo artigianale che trasmette allo spettatore una sensazione di partecipazione fisica dell’artista alla propria opera: fare film, sembra dirci Tsukamoto con le sue regie, è, per prima cosa, un lavoro manuale, e solo in seconda battuta diventa una questione intellettuale. Da irriducibile filmmaker continua a curare in prima persona l’intero processo di sviluppo dei propri progetti: dall’ideazione al montaggio, mettendo ogni volta alla prova le potenzialità espressive dei mezzi (spesso ridotti) a sua disposizione; del resto il cinema è anche e forse soprattutto dispositivo tecnico, un’arte che non può che evolvere di pari passo al progredire degli strumenti di rappresentazione. Tsukamoto sa bene che ogni nuova tecnica obbliga la creatività ad adattarsi alle sue prestazioni e non il contrario.

La partecipazione totale e il continuo riaggiornamento della propria cifra stilistica fanno sì che il set diventi a tutti gli effetti un momento di vita vissuta; non a caso il regista è spesso coinvolto anche dall’altra parte della macchina dal presa, come attore nei sui stessi film. Un coinvolgimento che ha non poche affinità con l’attività ludica (Abandoned Monster è, rispetto a quanto già detto, anche un gioco in famiglia). Viene in soccorso, rispetto a questo parallelismo, Johan Huizinga che, in Homo ludens, scrive: «gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla “vita ordinaria”». D'altronde è proprio questo “essere diversi” che avvera quanto sostenuto da Bataille, e cioè che solo il gioco ha «la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile». Una delle tensioni costanti del cinema di Tsukamoto è proprio la libertà del divenire, l’esser altro dai confini del corpo.

Questa tensione, lungo tutta la prima parte della sua filmografia, si è espressa attraverso una rilettura in chiave cyberpunk dell’ero guro, fenomeno socio-culturale trasversale profondamente legato al processo di modernizzazione e di urbanizzazione che, a partire dagli anni 20, ha completamente stravolto il Giappone. Ero si riferisce alla componente erotica, che si declina come libertà di espressione sessuale e attenzione a tutto ciò che rientra nella sfera pulsionale; guro rimanda invece all’elemento grottesco, cioè al fascino esercitato dall’aberrazione, da tutto ciò che è considerato deviante, andando pertanto a collocarsi al di fuori della “normalità”.

Il momento di svolta rispetto alle sregolatezze degli esordi arriva con A Snake of June. Quello che, almeno nelle intenzioni iniziali, sarebbe dovuto essere un porno, diventa, in corso d’opera, un testo chiave sull’emancipazione dalle limitazioni sociali che reprimono la gioia e il godimento. Tsukamto, da qui in poi, comincia a invertire forze e vettori: dalle esplosioni centrifughe dei suoi primi film passa progressivamente a immersioni centripete; dal totale disinteresse per la psicologia dei personaggi, pensiamo soprattutto al primo Tetsuo, arriva a compiere, come accade in Vital, esami autoptici dell’anima nel tentativo di trovare l’origine del soffio vitale. Uno scavo che si spinge ben oltre le visceralità del corpo e che da Kotoko in poi si immerge nell’esplorazione dell’allucinazione. Un’allucinazione vissuta tanto dai protagonisti delle opere quanto esperita dagli spettatori che vengono aggrediti da film che si configurano sempre più come un’esperienza sensoriale che percuote il nervo ottico e, soprattutto, martella i timpani.

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Pose

di Antonia Caruso
Pose - recensione serie tv Murphy

1987, New York. L'HIV è una minaccia reale, Donald Trump ancora no.
La comunità LGBT di colore, latina e afroamericana, si incontra nelle ballroom dove le varie house si scontrano a colpi di danza, drag e voguing. Ogni house è capitanata da una mother che si prende cura dei propri figli e figlie ma Elektra, la mother della House of Abundance, non è proprio un esempio di quello che si può considerare cura e amore materno, seppur simbolico: inizia dalla ribellione verso di lei, quindi, il percorso di autodeterminazione e sopravvivenza (come donna, trans, latina e sieropositiva) di Blanca e della sua House of Evangelista.

Da molti punti di vista Pose, la nuova serie di Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steve Canals, è una pietra miliare, un'opera che segna un prima e un dopo, in particolare per quanto riguarda il suo ruolo nella rappresentazione mediatica delle minoranze (un processo produttivo che diventa processo politico) prima ancora che per la sua effettiva efficacia come serie tv.
Il cast della serie, infatti, è composto in gran parte da persone LGBT di colore e latine, così come lo sono le protagoniste finzionali, personaggi trans incarnati da interpreti trans che possono così mostrare in maniera orgogliosa la propria identità – una scelta lontanissima dalle polemiche su Scarlett Johansson e Jared Leto, attori cisgender, cioè non trans, che interpretano personaggi trans.

Come per molte serie di Murphy, la struttura narrativa parte dal melodramma e pone al centro un discorso sulla famiglia, anzi su diversi nuclei familiari; rispetto a questi Pose privilegia una messa in scena della loro identità attraverso lunghe e avvincenti gare di ballo rispetto a intrecci narrativi forti e a una narrazione realmente corale (che invece, riesce bene a un'altra serie relazional-femminile come Orange Is the New Black). Sull'altare della politica è in parte sacrificato anche il finale, in cui ogni personaggio si trova a fare la scelta perfetta per creare una sorta di nuovo ordine familiare e i conflitti si appianano grazie al buon senso e all'amore, come in una favola. D'altronde, che fosse una favola l'ha ammesso lo stesso Murphy citando Cenerentola, con la povera Blanca vessata da Elektra e le sue sorellastre cattive.

In ogni caso plot e subplot poco adrenalinici non abbassano troppo la soglia d'attenzione dello spettatore, dato che la forza di Pose risiede tutta nei personaggi (nonostante risultino lievemente appiattiti nei  ruoli madre/figlia e in quanto personaggi gender variant): nessun vittimismo, nessuna narrazione patetica dell'esperienza trans come sofferenza ed espiazione, come quelle che siamo abituati a vedere in praticamente ogni prodotto televisivo a tema trans; anzi, in Pose si va a testa alta e tette in fuori, con tanta sorellanza e solidarietà reciproca e via a trovare un proprio posto nel mondo e a vincere premi.

Il postmoderno di Pose non è quello di American Horror Story, con movimenti di macchina stordenti o miscele di cinema di genere, quanto piuttosto la ricreazione mimetica di quegli anni '80 che negli anni '80 non abbiamo visto, come forse nemmeno i loschissimi anni '80 di The Americans o quelli iperreali e iper-glam di GLOW. Lo show ripropone certamente alcune narrative chiave del decennio, come il mito americano dell'autopoiesi attraverso la danza o il capitalismo, ma lo fa ribaltando il punto di vista e mettendo in scena con una doppia messa in scena i conflitti tra società WASP e la popolazione di colore e trans, che deve fare i conti con l'HIV come epidemia socialmente accettata e l'incapacità di integrarsi.

E siamo noi spettatrici e spettatori la coppia bianca borghese, l'amante di Elektra, il barista gay, noi che dobbiamo fare i conti con l'attrazione/repulsione per il rombante e maschio capitalismo yuppie e per l'erotismo candido di Angel, con la presenza forse inopportuna, sicuramente cocciuta di Blanca in un bar gay e con quel piccolo particolare anatomico chiamato pene che condiziona tutto, amore lavoro salute.

Nella puntata da lei diretta Janet Mock, attivista e giornalista trans e di colore, ha voluto però trasformare il conflitto in un confronto empatico tra Angel e Patty, amante e moglie, cis e trans.
«Per me l'idea dell'essere donna non è qualcosa che debba essere giustificato; penso che ciò si mostra mettendole insieme è che sono entrambe donne che lottano con la propria identità e in relazione a un uomo che non le tratta bene. […] Sono le stesse domande con le quali noi stesse dobbiamo fare i conti quando dobbiamo condividere i nostri corpi con le persone intorno a noi. [For me the idea of womanhood is not one that needs to be justified; I think that what it shows by placing the two together is that they’re both women grappling with their own sense of identity and in relationship with a man who’s not treating either of them right. ... It’s all the same kind of questions that we all have to grapple with when it comes to sharing our bodies with those around us]». - Così Janet Mock in un’intervista a The Glow Up.

Janet Mock è arrivata a Pose prima come producer per tutte le puntate, poi come co-sceneggiatrice (insieme a Our Lady J, già nel team di Transparent) e poi come regista di un episodio, la prima donna trans di colore a girare una puntata di una serie TV. In assoluto la prima trans è stata Sydney Freeland, che ha diretto un episodio di Grey's Anatomy oltre che la webserie Her Story, scritta dall'autrice e attrice trans Jen Richards e dove compare Angelica Ross, che in Pose fa la parte della cattiva ma che nella vita ha fondato un incubatore professionale per talenti trans.

Del resto la narrazione di Pose funziona anche grazie al suo reale retrotesto di attivismo, grazie all'impegno di Ryan Murphy e della sua fondazione Half, dedicata all'inclusione di donne e minoranze, che ha coinvolto nella produzione della serie 140 persone trans tra attori e crew e 35 personaggi LGBTQ+, praticamente più di metà delle persone del team. Murphy ha donato inoltre il proprio compenso a organizzazioni a sostegno di persone trans e gender non conforming come l'Audre Lorde Project e il Sylvia Rivera Project.

Tutto ciò a dimostrazione di quanto, al di là del mero valore artistico della serie, la produzione di Pose abbia un grande valore politico, in un paese dove la popolazione trans ha una percentuale di disoccupazione tre volte maggiore rispetto alla popolazione cis, in cui la discriminazione è ancora elevatissima e l'informazione su tutto quello che riguarda la sessualità ha ancora molta strada da fare.

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