The Passage

di Arianna Pagliara
The Passage di Roberto Minervini

Trilogia texana, capitolo primo. Il passaggio. Da dove a dove, da cosa a cosa? Forse non per tutti di mondo ce n’è uno solo. Non per Ana, che anche di fronte a una radiografia che non lascia illusioni, non abbandona la fede. È lei la protagonista dell’esordio di Roberto Minervini - assieme crudo e dolce, asciutto e commovente - una donna che sta per morire e assolda un ex detenuto, conosciuto per caso al supermercato, per essere portata da un curandero. Sulla strada incroceranno un autostoppista sedicente artista, abbandonato dalla donna che amava, che li accompagnerà in questo doloroso e confuso girovagare dove il tempo non è più quello dell’orologio, ma quello vero, quello che concede la vita.

Attraverso gli occhi del regista l’evidenza della morte, brutale, si fa gesto: mettere tre confezioni di gelato nel carrello e accendere un’altra sigaretta, perché ormai non cambia più nulla. Desiderare di rivedere un’ultima volta la montagna, farsi strada senza fiato lungo un pendio scosceso, concedersi un bagno nell’acqua fangosa e sorridere per riconciliarsi definitivamente con il mondo: questa è Ana. Il Texas è calura soffocante e orizzonti lontanissimi, strade ampie, deserte e silenziose che invitano al viaggio. Si può essere a corto di soldi, di amore o di speranza: la società riconosce sempre i suoi (de)relitti come corpi estranei e li rigetta brutalmente a riva. Il cinema di Minervini nasce da qui, nasce per raccogliere questo movimento, questa disperazione, questa realtà che scotta ed è così ardua da maneggiare.

Man mano il suo linguaggio scarno si è fatto più raffinato, più rarefatto; The Passage forse non ha fatto ancora sua quella poesia della piccole cose che permea il successivo Low Tide - tormentare un insetto, carezzare un serpente, raccogliere la pioggia in un vaso da fiori - e deflagra poi meravigliosamente in Stop the Pounding Heart - che possiede una potenza espressiva pittorica senza per questo rinunciare alla ruvidezza della realtà (un connubio raro). Eppure Minervini è già tutto qui: nello sconfinamento audace e spaesante tra documentario e finzione, nel respiro corto della macchina da presa che sta addosso a corpi sempre più feriti e lacerati, nello sguardo sul reale sempre così diretto e sfrontato, eppure, paradossalmente, empatico, delicato e a volte quasi imbarazzato per l’intimità che gli si offre tanto gratuitamente. E come in un segreto gioco di rimandi e cortocircuiti i personaggi di questa trilogia texana sembrano rincorrersi e sfiorarsi vicendevolmente di film in film: gli allevatori di capre che Ana incontra in The Passage sono al centro di Stop the Punding Heart, che racconta della giovane e bionda Sara che conosce Cody, ragazzo che ama cavalcare i tori, come lo vediamo fare di sfuggita anche in Low Tide, osservato dal piccolo protagonista, stretto tra il proprio legittimo bisogno d’amore e la necessità di occuparsi di una madre che non sa e non vuole essere tale.

La sensazione perturbante che viene fuori da questa tessitura fitta di intrecci e legami è la certezza che quel mondo che il regista filma continui ad esistere oltre i confini dell’inquadratura, prima e dopo i film, che altro non sono, in un certo senso, che brevissime finestre temporali aperte e poi richiuse su una realtà in atto, che è viva e muta e si evolve in continuazione.  Allora lo spettatore non è più quello per cui viene pensato e scritto il racconto, ma piuttosto qualcuno che ha - per un tot di tempo che viene stabilito al montaggio - il privilegio di sbirciare altre vite, altri luoghi, altri cuori in affanno. Senza però che tutto questo diventi mai legge né dogma: perché, ad esempio, la Ana di The Passage è un’attrice (Soledad St. Hilaire), mentre la Sara Carlson di Stop the Pounding Heart interpreta più o meno se stessa.

Al netto delle questioni sull’ontologia del cinema – le stesse che solleva, poniamo, l’interessantissimo lavoro di Jonas Carpignano, che al pari di Minervini vive dall’interno e in modo continuativo l’universo che filma – il regista firma da subito, con The Passage, una dichiarazione di intenti: il punto primo, quello essenziale, è la capacità e la volontà di una messa a nudo che sia irreversibile e totalizzante. Messa a nudo che appartiene ai protagonisti - che urlano silenziosamente la loro dignitosa disperazione - al cinema come medium - che qui è ridotto a un grado zero, a un occhio che registra e, tuttavia, al contempo patisce con e per i suoi attori e non attori – e infine allo spettatore, che guarda in certi abissi (la morte, l’amore, la solitudine) come in uno specchio.

 

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Roberto Minervini 85 minuti
Usa, Belgio, 2011
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Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers

di Leonardo Strano
halloween 5 - recensione film

Giunta al suo quinto capitolo e ormai abituata a ragionare su se stessa, sulle regole della rappresentazione dell’orrore, sui meccanismi di genere che in parte ha collaborato a sviluppare e in parte ha agglomerato nel corso degli anni, la saga di Halloween tratta gli elementi della sua narrazione come connotati normalizzati e convenzionali che non stupiscono più, e sono dati per scontati sia dagli appassionati che dai fruitori casuali. È la caratteristica controversa di un franchise fondato inizialmente sulla ferocità delle sensazioni paurose e ora costretto a confrontarsi invece con la progressiva decostruzione di questi sentimenti essenziali e con la parallela costruzione di un nuovo linguaggio comunicativo, fatto di espressioni audiovisive autoriflessive e di momenti narrativi celebrativi. Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers è infatti una lunga parentesi ripiegata su sé stessa, desiderosa di sottolineare le particolarità dell’idea di terrore carpentariano attraverso la cristallizzazione definitiva dei suoi connotati fondamentali, e quindi attraverso la canonizzazione di certi processi formali.

Non è un caso che il film, a differenza dei due sequel che lo precedono, sia partecipe di un linguaggio horror più didascalico (perché fortemente dichiarato) e non è un caso che la trama (direttamente collegata al quarto capitolo) giri intorno alla vendetta di un Michael Myers che ricalca azioni già commesse e già pagate: l’interezza del capitolo diretto da Dominique Othenin-Girard è concentrata nel mettere in scena un gioco di sangue a cui tutti – che si tratti di realtà diegetica o extra diegetica – sono abituati e di cui tutti conoscono le regole; i meccanismi di sorpresa sono completamente assenti, sostituti dalla consapevolezza di non poter fare altro che affidarsi agli “autonomi” processi della narrazione; la linguistica del terrore, del jumpscare, del fuori campo è trasfigurata in inquadrature che inscatolano la minaccia annunciandola più che nascondendola, elogiandola con riverenza più che temendola. Con una prevedibilità esponenziale e la tensione ai minimi termini, il coraggio del film nel ripetere passo per passo quanto fatto in precedenza è quasi toccante, una dimostrazione di affetto rigorosa verso un simbolo ormai svuotato della sua potenza scioccante.

Non c’è molto altro. Anche l’apporto di un concetto di eredità interno alla saga, elemento più che interessante nelle sue premesse perché legato a riflessioni antropologiche sulla natura del male, è abbandonato in virtù di una partecipazione emotiva forte e solida, legata alla visione della purezza infantile. Halloween 5 è quindi un fallimento romantico, un capitolo che a tratti sembra addirittura interlocuzione per un futuro incerto, che trova ragione d’essere nella passione verso personaggi osservati come reliquie e che dimostra un pizzico di intelligenza strategica solo nella disposizione degli elementi della storia nello spazio in cui si svolge. Come se l’unica possibilità di raccontare ancora questa storia sia quella di muoversi tra eventi imbalsamati dentro a teche di vetro, spettatori di un museo dell’orrore che era un tempo spettacolo dal vivo e ora è solo un ricordo perso tra i riflessi.

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Dominique Othenin-Girard Donald Pleasence Danielle Harris Ellie Cornell 93 minuti
USA 1989
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The Predator

di Matteo Berardini
The predator - recensione film shane black

In un momento storico come questo, con tutti gli studios hollywoodiani a caccia di proprietà intellettuali da serializzare, difficile che un prodotto come Predator non fosse oggetto di un rilancio. Parliamo del resto di una saga anni Ottanta che non si è mai affermata, un film capostipite dal carisma infinito a cui seguono pochi e confusi titoli che non sono riusciti a costruire una mitologia vera e propria (al contrario di quanto accaduto nel mondo del fumetto, dove si sono moltiplicate negli anni le storie dedicate all’universo di Predator). Per legittimare l’operazione il compito di restyling è stato attribuito a Shane Black, sceneggiatore di punta dell’action a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta che ha già dimostrato di saper miscelare personalità e necessità di franchise nel blockbuster Iron Man 3.

Il piano produttivo prevede l’articolarsi di tre film gestiti dal creatore di Arma letale, nel caso questo primo episodio dovesse risultare fortunato al botteghino, e la direzione immaginata da Black e produzione è chiarita dal finale, che apre il film ad un futuro vicino al cinecomic. C’è da sperare però che una volta imboccata questa strada, regia e produzione trovino migliori punti d’incontro perché questo Predator si è rivelato un film schizofrenico e confuso, che cerca di recuperare la caratterizzazione sopra le righe e la violenza grafica dell’originale comprimendo però ogni slancio all’interno di rigidi confini di convenzionalità.

Scimmiottando Schrödinger, Predator è e non è un film di Shane Black allo stesso tempo. È un action con una buona dose di violenza (di cui molta digitale) e alto livello di ironia, ambientato durante una festa nazionale (non più Natale ma Halloween) con un bambino tra i protagonisti e una coppia di personaggi virili amici/nemici. Ma soprattutto è una storia di cacciatori e prede in mezzo alla quale piove a metà film un gruppo di veterani afflitti da Disturbo da stress post-traumatico, una sporca dozzina di soldati scartati e accantonati che ricorda i personaggi istrionici delle storie di guerra sceneggiate da Garth Ennis. Ognuno di loro porta con sé un disturbo diverso che lo rende un pezzo difettoso del sistema, una scheggia impazzita pronta a imprecare, insultare, ferire ma fare comunque la cosa giusta. Tratteggiati in poche battute con un talento che li rende subito materia rara per lo spettatore, questi personaggi (ben più dell’inconsistente protagonista e sua assistente scientifica) sono la vera firma di Black sul progetto Predator, ma anche cartina tornasole di quanto il film sia stato sede di conflitto tra una produzione che tende al conformismo e uno sguardo autoriale che di convenzionale può avere davvero ben poco. Seguendo Predator sembra di vedere Black che viene costantemente tirato per la manica da una forza normalizzante, interessata soltanto ad un film di servizio che rilanci nel modo più indolore possibile un brand da trasformare a breve termine nell’ennesima materia supereroistica. Questa schizofrenia di fondo si fa ancora più evidente se consideriamo poi il fatto che attorno ad essa il film inanella una serie di soluzioni di scrittura davvero ingenue e oggi improponibili, dalla scienziata killer al protagonista che spedisce a casa armi aliene per posta.

Privo di un corpo attoriale forte e ipertrofico attorno al quale cucire un immaginario nostalgico seppur aperto al futuro, Black si incarta in uno script rimaneggiato, raffazzonato, drammaticamente privo di un protagonista forte ma con una memorabile banda di comprimari, vecchi maverick da guerra che avrebbero meritato un film tutto loro libero da logiche conformiste volte al franchise e alla serializzazione a tutti i costi.

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Shane Black Boyd Holdbrook Trevante Rhodes Jacob Tremblay Olivia Munn Yvonne Strahovski 107 minuti
USA, Canada 2018
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The Equalizer 2 - Senza perdono

di Leonardo Strano
The Equalizer 2 - Senza perdono - recensione film

Il western sopravvive. Anche quando tradotto in atmosfera, ridotto ad un afflato sussurrato o digerito da un altro immaginario, il western resiste appeso a bordo dell’immagine, nel fondo dei corpi incastrati sullo schermo, sul confine di ogni racconto americano, confermandosi il linguaggio comunicativo cinematografico più adatto per raccontare storie di caduta, transizione e risalita.
The Equalizer 2 è prova piuttosto evidente di come il genere sia capace di infiltrarsi e di influenzare anche all’interno del perimetro narrativo di una storia piuttosto lontana dalle ambientazioni della frontiera, pensata in primis secondo i codici strutturali del revenge movie urbano. Il film sul vendicatore interpretato da Denzel Washington, seguito eccellente del primo capitolo sempre diretto da Antoine Fuqua, è raccontato infatti secondo la linguistica espressiva del western, con il tono del crepuscolo, della malinconia essenziale, della sfida esistenziale che si compie all’ultimo momento della vita, quando i muscoli sono macerie da tenere insieme sotto il peso del passato.

La narrazione si impernia sulle azioni del giustiziere Robert McCall, si adagia sulla quotidianità spiegazzata riservata alla sua mente alla fine del giorno, si forma adattandosi sulle sue scelte e rimane ancorata alla direzionalità prefissata: quella di raccontare una vendetta privata che muove dall’amore e trova pace nella morte. Non tutto si esaurisce nello splendido dispiegarsi della diegetica però; la visione del prodotto assemblato dalla sinergia creativa tra la regia di Fuqua e la magnifica interpretazione di Washington è arricchita da un doppiofondo di pregio, quello costituito da un duplice movimento descrittivo. Il film, secondo modalità narrative archetipiche proprie del genere western, è infatti una lunga doppia esposizione, la somma di due immagini speculari, la congiunta rappresentazione di un contesto interiore sofferente, di un contesto esteriore ostile e del loro momento di esplosiva collisione. Il paesaggio mentale del protagonista, il disegno di uno spazio astratto in cui lasciare scogliere la grana dell’affresco psicologico e la dilatazione per immagini del punto di contatto tra il personaggio e il mondo sono quindi le tre controparti espressive di The Equalizer 2.

Il personaggio di McCall è trattato come un cavaliere senza nome, che si aggira nelle geometrie cittadine grazie a un’ombra liquida che condanna e salva sulla base di una logica morale senza soluzione di continuità. La concentrazione della scrittura nel descrivere il personaggio principale (dall’uso del linguaggio del corpo ai processi della mente) è evidente sia quando si pone l’accento su azioni di rilievo marginale sia quando tutto il peso dell’immagine è in funzione della leggerezza dinamica e spaccaossa. Il contesto allo stesso tempo è impostato attraverso contrasti chiaroscurali che, pur allineandosi alle direttive comunicative del cinema d’azione mainstream, si rivelano una chiave di apertura formale delle tensioni interrate nei non detti della trama. Personaggio e realtà di movimento di quest’ultimo sono delineati quindi attraverso i connotati del western: gli atteggiamenti del protagonista sono sintomatici di un cuore partito per una missione definitiva, le atmosfere sono cariche di pulsioni funeree e l’incontro di questi due sensi unici è una strada senza uscita che mette al muro la frantumazione delle certezze.

Il finale del film sigilla la sovrapposizione tra personaggio e contesto. È la sequenza in cui le linee narrative organizzate dentro e fuori la mente del protagonista si annodano per formare un tappeto elastico su cui fare rimbalzare la violenza tanto trattenuta, negata come un entimema da usare solo nel momento necessario. È un momento western puro, in cui l’eroe affronta i nemici nella cornice di un paesino abbandonato simboleggiando una resa dei conti concettuale tra pensiero e realtà, passato e presente, vita e morte. Il genere - suggerito, corteggiato, accennato con dei toni di portata minima per tutto il film - fiorisce assieme allo schioccare dei proiettili nell’aria, si rivela per aggregazione di dettagli in una densa resa dei conti con lo spettatore. Il fiato è trattenuto fino a quando non è rilasciato e il risultato è uno spettacolo da cui si esce irrobustiti, consapevoli non dell’unicità dell’esperienza, bensì della sua intensità, della sua concentrazione equilibrata e feroce. Attraverso la forma del cinema d’azione, il western così sfonda le pareti della contemporaneità e, rinforzando col peso del fuoco la filigrana polverosa del suo codice, vive.

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Antoine Fuqua Denzel Washington Pedro Pascal Melissa Leo 121 minuti
USA 2018
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A Snake of June

di Andreina Di Sanzo
A Snake of June - recensione film Tsukamoto

Piove incessantemente nella anonima metropoli nipponica, dove tutto è freddo e metallico. Un fiume di pioggia che come un serpente trapassa i cunicoli di questo luogo-caos, nelle viscere di un grande mostro che ingloba i suoi prigionieri. Shin’ya Tsukamoto è al suo settimo lungometraggio, è già il maestro del feticismo post-industriale, figlio dei collassi degli Einstürzende Neubauten e delle escrescenze cronenberghiane. A Snake of June è la storia di un triangolo amoroso deviato, del desiderio spasmodico di sentire anche a discapito della vita stessa, di un amore e di una sessualità solipsistica, crudele e violenta.

Rinko è un’operatrice telefonica che assiste chi è affetto da disturbi psichiatrici, sessualmente insoddisfatta da un matrimonio con un uomo molto più grande, Shigehiko, si ritrova a dover obbedire a un misterioso ricattatore.

Il regista giapponese scrive la sua personale storia dell’acqua cyberpunk, dove una schiava d’amore, divisa tra due uomini, si muove nella traiettoria del proprio desiderio, esplode in urla e lacrime di piacere di fronte all’obiettivo di una macchina fotografica, negli spasmi di un corpo a cui il godimento viene finalmente restituito. Ancora ossessioni e dipendenze nel cinema del regista di Tetsuo, che veste i panni del voyeur/stalker Iguchi, l’uomo che possiede le foto dei momenti di autoerotismo di Rinko, demiurgo e burattinaio. Tsukamoto/Iguchi inizia un perverso gioco con la protagonista e con lo spettatore. Tutti scaraventati nell’impeto sensoriale.

La freddezza di una fotografia completamente virata sui toni del blu fa da contrappunto a un’opera enormemente vitale (il suo film successivo si intitolerà Vital) a conferma di quanto questo autore sia così legato alla sensorialità come fine ultimo. Non è solo amore quello di Rinko per Shigehiko, è più un annientamento di se stessa e del suo desiderio, come la scelta di non curare il tumore al seno per paura di rovinare il proprio corpo agli occhi del marito/padrone. E così Iguchi attraverso quel suo gioco depravato riporta alla vita la sessualità della donna: le ordina di masturbarsi nei bagni pubblici, di vestire abiti succinti, di godere. Sempre. Ovunque. Rinko non fa che passare di padrone in padrone, come la O. di Pauline Réage. È quello il suo schermo e guscio per amare.

Il fallo metallico di Tetsuo è qui la macchina fotografica, l’occhio non uccide ma riporta alla vita. In una realtà contaminata e priva di morale, dove ricchi signori guardano spettacoli sadici e perversi per un’erezione, Tsukamoto lotta per la sopravvivenza e mette nelle mani di Iguchi (e se stesso) la possibilità di salvezza di Rinko e della coppia. Il suo cinema estremizza un mondo ormai perduto, lo scaraventa nel futuro, nel metallico, nell’anonimato di persone e luoghi di fatiscenze, prolungamenti, nei corpi dissezionati. Sono uomini a metà quelli del cinema di Shin’ya Tsukamoto, come quelli urlati da Blixa Bargeld nel concerto/performance filmato da un altro pioniere del cyberpunk giapponese, Sogo Ishii. Cercano di sopravvivere coltivando quella pulsione che è l’unica forza a tenerli in vita. Si nutrono di morte in un paradosso continuo che è il cinema di Tsukamoto: genesi e apocalisse.

«Quando penso a una donna, la immagino con un serpente che le vive dentro» ha dichiarato il regista in un’intervista in occasione dell’uscita del film. A Snake of June è fatto di esplicite simbologie che rimandano continuamente al flusso della sessualità e del piacere: l’acqua, nella corrente e nell’annegamento. Nella scena madre del film, quella in cui la protagonista gode con il suo vibratore sotto la pioggia, si trova tutta l’impossibilità di tradurre in immagini l’energia di un orgasmo, il punto sottile della petite mort, e Tsukamoto stesso si prende la responsabilità di catturarlo in una mise en abîme di delirio e tormento. Così l’autore cura le sue creature, le sue macchine svuotate, cercando ossessivamente con il suo cinema di trovare una direzione verso quel fine salvifico che è il sentire, nella sessualità o nell’amore. L’unico collante che possa richiudere certe crepe, non per vivere ma per sopravvivere.  Mutilati e avvinghiati in un amplesso dai freddi toni blu.

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Shin'ya Tsukamoto Asuka Kurosawa Yuji Kohtari Shin'ya Tsukamoto 77 minuti
Giappone 2002
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Arrivederci Saigon

di Carmen Albergo
Arrivederci Saigon di Wilma Labate

"Arrivederci Saigon" ... e non parliamone più.

Questo il titolo, presentato nella sezione Sconfini del Festival di Venezia 2018 , nonché il destino, di una vicenda poco nota all'opinione pubblica, senz'altro sconosciuta al ricambio generazionale di uomini e donne, che apprendono ogni giorno  in tempo reale di conflitti mondiali da network glocali, streaming in diretta web, schermando lo strazio umano dilagante, per sopravviver-ci.

E quindi, ben vengano sempre, pur nella loro composizione essenziale di montaggio tra contestualizzazioni d'archivio e video interviste, i barlumi umani(sti) del linguaggio documentale, che può ancora prendersi l'onere del tempo in ascolto, la rimessa in discussione di esperienze senza memoria condivisa.

La regista Wilma Labate, già distintasi per opere di finzione centrate su percorsi di ribellione femminile, s'avvale della prestigiosa fotografia di Daniele Ciprì, e ben si inserisce nel filone di una storiografia trascurata, tutta da riscoprire, che negli ultimi anni trova spazio tra le produzioni attente alle piccole grandi protagoniste della Storia. Storia di lotte e conquiste, storie di donne mai scese dalle barricate culturali. 

Da un lato, dunque, il '68 e il Vietnam, dall'altro lo scavo emotivo, tra pagine di diario mai scritte di proprio pugno, perché sepolte nel fondo di ragioni e dolori di quattro musiciste, Viviana Tacchella, Daniela Santerini, Franca Deni, Rossella Canaccini, a quel tempo adolescenti sognatrici, speranze nel boom della discografia italiana: la band femminile Le Star (dove già solo "band femminile" meriterebbe un'osservatorio a parte).

L'impresa impossibile di restituire l'autenticità di una perduta innocenza nell'intimità dei ricordi frana sotto il macigno del senno di poi, lucido nella narrazione, ma rotto in gola dal rifiuto della comprensione altrui, persino dall'accusa di non essere state vittime di una congerie più grande, ma sostenitrici di quel miasma di morte, contro cui si sollevò il giovanile grido di protesta mondiale, la guerra in Vietnam. Sì, perché Le Stars furono travolte dalla fortuna di poter girare il mondo con un tour di concerti in Estremo Oriente, ma a causa dell'incomprovabile avventatezza del proprio impresario, pena un'ingente sanzione da pagare, soggiornarono per mesi nelle basi militari statunitensi. Gooooood morning, Vietnam! Le Stars, atterrarono sgomente e incredule a Saigon, ufficialmente per arricchire il palinsesto d'intrattenimento dei soldati (tra un numero e l'altro di ragazze in bikini) e lì lasciarono seppellire, proprio come i giovani combattenti, gli entusiasmi dell'età infranta dalla paura dei bombardamenti quotidiani, dalle fila di bare negli hangar, dai volti segnati dalle torture, dalla consapevolezza di abbracciare ogni giorno la morte. Gioventù inspiegabilmente resiliente, vissero quei mesi gomito a gomito con i militari, scoprendone i razzismi intestini, le malinconie, trovando spazio perfino per il fugace pensiero di un amore. Il complesso musicale visse giusto il tempo di quegli sterminati applausi ubriachi, anestetizzati alla compassione, perché al loro rientro in Italia, nella natìa Toscana di provincia, dove si dibatteva, contestava, mobilitava affinché la guerra finisse, ad accoglierle trovarono il paradosso di venir tacciate e taciute, per essere capitate loro malgrado sul fronte sbagliato, quello del nemico imperialista.  Riaffiorano poche lacrime e la rabbia covata sotto la cenere. Emerge tra i silenzi e le parole la nostalgia per un'innegabile ebrezza mai più riprovata, quella di aver attraversato indifese e indenni l'occhio di un ciclone indicibile e il turbamento per non averlo potuto comunicare con fierezza. E in fondo a tutto, infine, l'amore eterno per la musica, per quel travolgente soul e i suoi miti, che spinse i loro animi così lontano, ben oltre gli sconfinamenti musicali, sul baratro del conflitto dell'uomo che non riconosce il suo simile e perpetra vendetta. Una sopravvivenza di passioni che è forse l'unica testimonianza possibile dell'infinito coraggio che quelle ragazze di allora possono trasmettere ai ragazzi di ora.

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Wilma Labate 80 minuti
Italia
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Maniac

di Matteo Berardini
Maniac - serie tv netflix recensione

Secondo Friedkin l’inseguimento rappresenta la più pura forma di cinema, dato che l’audiovisivo è l’unico medium in grado di ricreare e trasmettere allo spettatore la pienezza dell’esperienza di due auto lanciate una dietro l’altra. Giocando con il celebre aneddoto potremmo dire la stessa cosa della mente: solo il cinema – con l’importante eccezione del linguaggio videoludico – è in grado di spazializzare la mente, di offrire una rappresentazione attraversabile, tangibile e assieme infinita nelle sue possibilità ricombinanti del mondo interiore e dell’inconscio. Letteratura, musica, teatro, possono certo evocare, descrivere, ingannare, tuttavia solo all’interno della finzione cinematografica la mente diventa qualcosa che possiamo effettivamente esperire.
Non a caso sono molti (e in costante aumento grazie alle risorse dell’immagine digitale) i film e le serie tv che ci portano dentro i pensieri, le paure e i desideri dei personaggi, in mezzo a sentimenti e ricordi e fantasie e traumi che prendono vita e soprattutto spazio, diventando luoghi fisici seppur soggetti ad alcuna legge fisica. Tra gli esempi più evidenti di quest’approccio possiamo citare con facilità Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Inception, due titoli che tra ricordo e sogno cercano di restituire allo spettatore uno spaccato di interiorità, e che non a caso prendono entrambi la forma del viaggio a ritroso, della catabasi atta a permettere ai personaggi di raggiungere un qualche livello di profondità interiore. Su questa scia si colloca anche Maniac, che dei due film citati è figlia e forte debitrice. Infatti la miniserie Netflix, ispirata da un’omonima produzione norvegese, punta a restituire un attraversamento interiore attraverso i meccanismi di genere offerti dall’immaginario cinematografico, un insieme di mondi inventati che come livelli vengono superati un poco alla volta verso una catarsi finale.

Il senso profondo di Maniac ruota proprio attorno al tentativo di dare una dimensione spazio/temporale ai traumi interiori dei due protagonisti, Annie e Owen, interpretati con intensità da Emma Stone e Jonah Hill (anche se alla coppia centrale si affianca un terzetto altrettanto se non più problematico, che vede coinvolti i personaggi di Justin Theroux, Sonoya Mizuno e Sally Field).
Come in Inception i due personaggi si troveranno ad attraversare i diversi stadi della loro mente, organizzati per realtà parallele rispondenti a generi diversi: nel corso dei suoi dieci episodi Maniac si muove attraverso il gangster movie e la spy story, il fantasy e il pulp suburbano, situazioni ricreate sempre con grande perizia tecnica dal regista di tutta la miniserie, Cary Fukunaga (non a caso prossimo regista di 007). Anche il mondo reale che fa da cornice al racconto si muove attraverso binari consolidati, essendo il frutto di un mondo retro-futuristico e vagamente distopico in cui l’estetica e la tecnica degli anni ’80 sono diventati la base per ogni evoluzione tecnologica. E qui troviamo evidentemente tracce di Michel Gondry, il cui tocco artigianale diventa la base per la riproduzione di una tecnologia fatta di video, megacomputer, pixel quadrettati e colori sgargianti. Ma del capolavoro di Gondry e Kaufmann, Fukunaga e il suo sceneggiatore Patrick Somerville prendono soprattutto il tema del legame sotterraneo e indissolubile tra due persone, quel contatto che risuona a discapito di ogni correzione tecnica o difficoltà interiore. Come i personaggi interpretati da Jim Carrey e Kate Winslet, Annie e Owen cercano di sfuggire al dolore per infine ritrovarsi, con l’aggravante qui che non siamo più in una fuga dal ricordo ma dalla realtà stessa. L’aspetto più interessante di Maniac è proprio questo, raccontare da una parte l’ossessione della società moderna per una cura a tutto – dolore, insicurezza, colpa, lutto – e mostrare dall’altra come un superamento sano di questi nodi traumatici possa permetterci di uscire da noi stessi per ritornare a contatto con le persone che ci circondano.

A questo punto però diventa necessario chiedersi, basta questo a rendere Maniac una miniserie riuscita, e soprattutto all’altezza della sua qualità produttiva, vetta indiscutibile di quanto prodotto da Netflix sino a questo momento? Purtroppo no, affatto. Perché nei dieci episodi che formano il racconto troviamo davvero poco che offra un approfondimento reale e un’esplorazione impegnata dei temi messi in campo. I viaggi mentali che si manifestano durante i tre stadi della sperimentazione farmaceutica a cui si sottopongono i personaggi sono pressoché siparietti auto indulgenti e pretenziosi, tanto riusciti dal punto di vista tecnico quanto superflui se non irritanti per quanto riguarda lo sviluppo (mancato) del percorso drammatico, incapaci come sono di portare avanti un discorso forte riguardo la psicologia dei personaggi o i temi messi in campo. Dei vari scenari attraversati si comprende lo scopo e la funzione – porre i protagonisti di fronte i loro traumi con crescente intensità, giocare con il potere evocativo dell’immaginario cinematografico, visto come via di fuga dal reale e assieme strumento per raggiungere una catarsi – ma quanto ci arriva, realmente, di tutto questo? Quanto traspare a livello di scrittura e regia di un’idea che resta soltanto dichiarata, spesso sbandierata, ma a conti fatti mai realmente indagata? Maniac soffre di una carenza fatale di sguardo e profondità di scrittura, tutto resta sul livello più superficiale dei referenti cinefili e di tendenza, tanto da suggerire l’idea di aver assistito, alla fine di un viaggio sconclusionato e povero di idee, ad un assembramento meccanico di suggestioni e argomenti non solo preesistenti ma appiattiti, banalizzati, impoveriti. Maniac è colma di piccoli legami sotterranei, giochetti e strizzatine d’occhio allo spettatore, costanti divagazioni interiori. Molte cose, nessuna delle quali però può sostituire una seria, robusta scrittura drammatica.

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Cary Fukunaga Emma Stone Jonah Hill Justin Theroux Sally Field 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Gotti - Il primo padrino

di Riccardo Bellini
Gotti il primo padrino - recensione film

L’esaltazione romantica del fuorilegge, in lotta per affermare il proprio sistema di valori contro uno Stato tirannico, si è ampiamente inscritta nel gangster movie a partire soprattutto dalla fine degli anni Sessanta. Si sa, il crimine affascina, ma una mitizzazione delle sue istanze libertarie rischia anche di rivelarsi un’arma strumentalizzante, quando non supportata dalla giusta sensibilità. È quello che accade a Gotti - Il primo padrino. Reduce da un tortuoso iter produttivo cominciato nel 2010, dopo l’avvicendarsi di diversi registi e interpreti, tra cui originariamente Al Pacino e Joe Pesci, il film arriva a Cannes e nelle sale nel 2018 con tutta la flagranza di un progetto spersonalizzato e confuso, infarcito da una retorica sdrucciolevole. Affidato alla regia del semisconosciuto Kevin Connolly e al volto gonfiato da trucco e lifting di John Travolta, il film ripercorre una parte della vita di John Gotti, boss della potente famiglia newyorkese Gambino.

John, condannato a cinque ergastoli e malato di cancro, riceve in carcere la visita del figlio, il quale informa il padre di aver deciso di accettare una richiesta di patteggiamento, così da ottenere una condanna breve per i reati di cui è accusato e poter passare più tempo con moglie e figli. Il padre si oppone a questo primo confronto, che funge da cornice e segue il racconto di ascesa e caduta del boss. Proprio su una dialettica tra onore e affetti, tra famiglia naturale e famiglia mafiosa sembrerebbe procedere il film sulle prime, ma sceneggiatura e progressione drammatica risultano ben presto sfilacciate. Incapace di gestire con continuità e spessore il rapporto tra la vita criminale di Gotti e l’iniziazione a Cosa Nostra di Jr. Gotti, il progetto si perde accatastando una serie di cliché di genere, dimostrandosi molto più interessato a emulare modelli lontani anni luce che a trovare solidità strutturale. Anche la regia priva di sentimento non aiuta le cose, mentre i momenti adrenalinici, che per lo meno avrebbero potuto tenere desta l’attenzione, sono pochi e raffreddati.   

John Travolta crede davvero nel progetto e lo dimostra facendo il meglio che può, simile a Norma Desmond nel finale di Viale del tramonto, calata nella parte con vigore nonostante intorno a lei non si stia girando alcun film. Ma il personaggio di Gotti è un summa di stereotipi che arriva per accumulazione a un vuoto di personalità. Lo sentiamo sentenziare a destra e a manca su onore e doveri da vero uomo per tutto il tempo, col risultato che, in assenza di un’autentica controparte positiva, il film sembra sposare come modello proprio l’ideologia spaccona del gangster. Ed è curiosa tutta questa insistenza sui codici mafiosi, considerato il fatto che nella realtà John Gotti contravvenne al divieto di spacciare droga imposto dal vecchio Gambino. Nel finale il figlio diventa addirittura un martire della causa Gotti anziché della propria, perseguitato da uno Stato di cui però non si mostrano mai a fondo le colpe e le macchinazioni.

John Gotti è dunque un film che nella migliore delle ipotesi risulta moralmente ambiguo, nella peggiore sfiora l’apologia del crimine organizzato. Le stesse interviste rilasciate dai sostenitori di Gotti dopo la morte del boss, gente del quartiere abituata a venerare le imprese del padrino, provocano un cortocircuito emblematico, nel momento in cui anziché funzionare come denuncia di un tragico spaccato sociale sembrano al contrario troppo pericolosamente aderenti allo spirito dell’intero film. In definitiva, possiamo solo sperare che le intenzioni del progetto iniziale fossero molto lontane dai risultati raggiunti.   

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Kevin Connolly John Travolta Kelly Preston Stacy Keach Pruitt Taylor Vince 112 minuti
USA 2018
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Un affare di famiglia

di Andreina Di Sanzo
Un-affare-di-famiglia - recensione film koreeda

«Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», sentenzia Tolstoj nel suo incipit di Anna Karenina. Nella piccola casa di Osamu si vive però di una felicità diversa, un’oasi sospesa dove ci si sceglie per sfuggire a quel mondo che rifiuta e maltratta. Un affare di famiglia, Palma d’Oro a Cannes, è un ulteriore tassello del discorso che Hirokazu Kore’eda ha aperto sin dai tempi di Nobody Knows: la famiglia come piccola comunità da cui si impara a pensare, a relazionarsi, ad amare, a odiare.

Osamu e il piccolo Shota, tornando a casa dai soliti furtarelli, trovano per strada una bimba tutta sola, sembrerebbe abbandonata e decidono così di accoglierla tra loro. A casa si vive con poco: lavori precari, piccole truffe ma tanto calore, cibo condiviso, oggetti accumulati, carezze e gesti di complicità. Kore’eda ci mostra subito quel mondo di particolari, di dettagli, attraverso uno sguardo incantato, mai voyueristico, che tocca le rifiniture della delicata banalità. L’arrivo di Yuri mette subito in moto delle domande. Quella che vediamo sembra una normale famiglia: la nonna saggia e affettuosa, la madre che tira avanti la baracca, il padre svogliato e truffaldino, una zia (o chissà) che si guadagna da vivere come spogliarellista e il piccolo Shota che subito accoglie la nuova arrivata. Ognuno incasellato nel suo ruolo. La bimba fugge dalle violenze e i maltrattamenti dei suoi veri genitori e qui trova l’amore di quella che parrebbe una famiglia perfetta. Ma l’equilibrio della casa viene interrotto da un evento che fa emergere i segreti di quel fittizio microcosmo che cessa di funzionare.

«Non scegliamo i nostri genitori» dice l’anziana nonna, una frase emblematica su cui ruotano gli ultimi film del regista giapponese: la questione morale della genitorialità biologica e della genitorialità “affettiva”. Bisogna fingersi necessariamente qualcun altro, come un padre o una madre, per creare le sembianze della felicità? Quanto la menzogna può resistere e sostituire ciò che viene socialmente considerato giusto? Sono queste due tra le tante domande che Un affare di famiglia solleva. Se da un lato, in un primo momento soprattutto, lo sguardo del regista sembra così rapito da certi rituali e minuzie di quella casa fuori dal tempo, dall’altro ci mostra tutta la tragicità dell’essere un bambino. Kore’eda si abbassa al livello dei più piccoli, ne coglie quel vivere così indifeso di fronte alle mostruosità degli adulti, quella voglia di restare in silenzio e di nascondersi nella normalità del gesto quotidiano. La perdita del primo dentino di Yuri è metafora del distacco da qualcosa di più grande: solo il fratellino riesce veramente a condividere con lei quel momento, solo lui può comprenderla. E così Kore’eda ci mostra ancora quello che è lo scarto fondamentale che emerge da questo film. Non è solo una questione tra ciò che eticamente giusto e ciò che lo è a livello sociale e legislativo, la differenza sta anche tra il mondo degli adulti, fatto di disuguaglianze, menzogne, brutture di ogni tipo e quello dei bambini che ne subiscono le conseguenze. Creature sospese e immobilizzate nei loro sguardi malinconici che sognano la fuga, erbe fluttuanti in balìa di un mondo spietato.

Il freddo, i maglioni, i cappotti,  poi l’arrivo dell’estate con i bagliori della pelle bagnata dall’afa, il mare e poi di nuovo il freddo e l’inverno con le sue nevicate. Lo scorrere del tempo con il disgregamento di questa famiglia viene scandito dal passare delle stagioni, come solo gli orientali riescono a sentire e rappresentare: il mondo è fugace e le cose muoiono nella loro ineluttabile caducità. I solidi sentimenti della casa cominciano a dissolversi perché invasi dalle rigidità del mondo contemporaneo, quell’utopia non può trovare riscontro nella realtà, deve stare ai margini della periferia e nel momento in cui viene raggiunta dal mondo reale si frantuma. Anche i dubbi sull’effettività dei sentimenti prendono il sopravvento, con profonda tristezza ci si rende conto della precarietà di quell’oasi felice: troppo perfettamente estranea.
Tutti nasciamo figli, non tutti diventiamo genitori, sorelle o nonni. L’amore è anche una questione di scelta.

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Hirokazu Kore'eda Lily Franky Sakura Andô Mayu Matsuoka Kirin Kiki 121 minuti
Giappone 2018
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Gli incredibili 2

di Samuel Antichi
gli-incredibili-2 - recensione film

Era il 2004 quando uscì nelle sale Gli incredibili, film d’animazione targato Pixar che si andava ad inserire in un universo, quello dei supereroi, certamente in netta espansione ma non così inflazionato ed espanso come risulta essere adesso, con svariati sequel, spin-off e reboot ormai in continua ed inarrestabile produzione. Quattrodici anni dopo Brad Bird prova a bissare il successo del primo capitolo, dopo un’incursione anche nel cinema blockbuster di finzione (Mission: Impossible – Protocollo fantasma, Tomorrowland – Il mondo di domani), partendo esattamente dal finale dell’episodio precedente: un enorme trivella che emerge dal sottosuolo, guidata da un nuovo villain pronto a mettere a ferro e fuoco la città. La spettacolare scena di apertura de Gli Incredibili 2 mostra infatti la famiglia Parr debellare l’attacco del Minatore, che viene neutralizzato e consegnato alla giustizia. Tuttavia il malcontento popolare e soprattutto la preoccupazione dei governi per gli ingenti danni economici provocati dall’intervento, aspetto che emergeva anche nel capitolo precedente, fanno sì che i supereroi vengano nuovamente messi al bando dallo Stato e scaricati dal programma di protezione. Ad ogni modo il periodo di latitanza della famiglia Parr, costretta a nascondersi in un motel, finisce ben presto dal momento che il magnate Winston Deavour decide di avviare una vera e propria campagna promozionale al fine di ridare loro credito e riabilitarli davanti agli occhi dell’opinione pubblica.

L’operazione di rilancio architettata dall’uomo si basa su una massiccia copertura mediatica, catturare le gesta e le imprese dei supereroi attraverso delle microcamere che costruiscano un coinvolgente racconto in prima persona da trasmettere in mondo visione. Come testimonial viene scelta Helen – Elastic Girl le cui azioni, secondo le statistiche, comporterebbero meno danni rispetto a quelle di Bob – Mr. Incredibile, confinato al ruolo di marito subalterno. Relegato in casa l’uomo deve affrontare i problemi di vita quotidiana di cui la moglie generalmente si occupava. Il film si muove dunque su due binari, l’azione con la donna pronta a combattere il crimine e il lato comico con Bob alle prese con le situazione casalinghe: le turbe amorose adolescenziali della figlia Violet, i compiti di matematica di Flash e l’incontenibile Jack-Jack, che non riesce ancora a gestire e controllare i propri poteri. L’elettrizzante vita del supereroe sembra essere addirittura meno problematica rispetto al mantenimento dell’equilibrio familiare. Questo cambiamento di prospettiva, che sarebbe risultato quanto mai superficiale se si fosse risolto semplicemente in un rovesciamento dei ruoli di “genere”, si avvale invece di una dimensione più complessa dal momento che non sarà solo Elastic Girl ad acquisire rilevanza all’interno della narrazione ma la figura femminile in toto, nel bene e nel male.

Il film di Bird riflette inoltre su come il bisogno dei supereroi si possa trasformare in una dipendenza e in una mania del supereroismo, già evidente nel capitolo precedente, in cui il villain Sindrome assumeva i caratteri di un fan le cui aspettative erano rimaste deluse. Prodotti da sponsorizzare e vendere ad un pubblico di consumatori, «i supereroi sono parte del vostro desiderio di sostituire la realtà con la simulazione» sentenzia l’Ipnotizza Schermi, il villain di questo capitolo. La chiara proliferazione degli schermi nella società post-mediale diventa veicolo per controllare la mente degli spettatori. Si potrebbe parlare in questo caso di cyber terrorismo dal momento che il villain riesce attraverso gli schermi a ipnotizzare le persone, riferimento chiaro a come il controllo dei mezzi di comunicazione di massa significhi controllare il mondo, plasmare l’opinione pubblica e deformare la nostra percezione della realtà, dalla propaganda alla fake news.

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Brad Bird Craig T. Nelson Holly Hunter Sarah Vowell Samuel L. Jackson Bob Odenkirk Jonathan Banks 118 minuti
USA 2018
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