Tyrel

di Eugenia Fattori
Tyrel - recensione film Sebastián Silva

Il parallelo tra Tyrel di Sebastián Silva e Get Out, l'horror di Jordan Peele candidato agli Oscar, sorge spontaneo fin dai primi minuti di visione. Così spontaneo da essere stato al centro della maggior parte delle recensioni dedicate al film di Silva all'epoca della sua presentazione al Sundance Film Festival. Tuttavia le similarità tra i due lungometraggi si fermano quasi soltanto alla situazione di partenza: un afroamericano inserito in un contesto di isolamento nei boschi, per un weekend in cui si troverà circondato da soli bianchi. Perché laddove Get Out punta tutto su un meccanismo di tensione orchestrata e di colpi di scena, lavorando sul genere e sul messaggio esplicitato, Tyrel preferisce invece la semi-improvvisazione alla sceneggiatura, l'immedesimazione alla costruzione, e basa la propria tensione non sugli stratagemmi di regia ma sulla percezione della sua quasi totale assenza, così come sul rifiuto di veicolare un messaggio preciso.

Get Out era un horror della tensione, Tyrel è un horror della percezione, in cui ciò che accade passa in secondo piano rispetto alla sua interpretazione – e ciò che accade è, fondamentalmente, quasi nulla, a parte un gruppo di ottimi attori che interagiscono tra loro ricreando ed esasperando i meccanismi della mascolinità tossica di gruppo, fatta di prevaricazione, dileggio, violenza più o meno sottile e alcool usato come facilitatore della comunicazione.

Tyler è l'unico afroamericano capitato per caso in un affiatato gruppo di amici che si riunisce per un compleanno, una decina di maschi bianchi che col procedere dei festeggiamenti perdono ogni freno inibitorio grazie alla reciproca confidenza, alla forza percepita del gruppo, all'alcool e alle droghe, ma soprattutto grazie a un contesto isolato che permette loro di sospendere ogni parvenza di civiltà: un Signore delle Mosche per trentenni borghesi (non a caso il libro viene esplicitamente citato) visto con gli occhi dell'elemento percepito (e che percepisce sé stesso) come “altro”, portatore di una memoria storica e di una percezione dei rapporti capace di ribaltare completamente la narrativa.

Non esiste modo migliore, più cristallino e persuasivo, di mettere in scena il razzismo percepito e la radicale differenza nell'esperire il mondo tra bianchi e neri dell'inserire in una situazione nota (un party scatenato di maschi bianchi trenta/quarantenni, una delle circostanze più raccontate della storia del cinema) un elemento di disturbo, e affidare ad esso il punto di vista del racconto. E anche se Silva non dichiara la propria direzione, spinge fin da subito su questo meccanismo: così come il nome del protagonista (Tyler) non è quello del titolo (Tyrel) – “Tyrel” è la versione del suo nome capita da un bianco che lo sente senza ascoltarlo davvero, ragionando piuttosto in base ai propri pregiudizi – ogni cosa, vista con occhi diversi, ci viene restituita deformata dalla diversa esperienza del potere sociale (Pete che scambia Tyler per un altro non è semplicemente maleducato ma è un bianco che non sa distinguere un nero dall'altro, mentre il gioco degli accenti che tanto diverte gli altri è semplicemente everyday racism) o dalla distanza culturale (i REM non sono un gruppo di culto ma il simbolo dell'egemonia culturale della musica bianca), e così via, fino alla paura e ad una piňata a forma di Trump con una banana in bocca che diventa sgradevole rievocazione degli orrori del KKK.

Nella stessa situazione in cui un bianco percepirebbe sé stesso semplicemente come a disagio, tra estranei che lo mettono in difficoltà, Tyler percepisce sé stesso come in pericolo e legge la realtà con l'occhio deformato di una paura che rappresenta lo scheletro della vicenda molto più dei singoli accadimenti che la compongono. Tyrel in questo senso delude chi si aspetta le svolte narrative di Get Out, ma ne raccoglie parte del discorso: scompare l'intento didattico ma resta il disagio, scompare la storia ma resta il modo in cui interpretiamo ciò che accade a seconda del posto che sentiamo di occupare in quella situazione. Il fatto che essere un afroamericano significa occupare costantemente un posto un po' più in basso degli altri, vedere il mondo da una posizione più precaria e dunque con una diffidenza che spesso si rivela semplice istinto di autoconservazione non è soltanto una chiave di lettura qui ma la vera sostanza di un film che ragiona brillantemente sui meccanismi del potere sociale che influenzano la nostra visione di noi stessi.

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Sebastian Silva Jason Mitchell Christopher Abbott Michael Cera Caleb Landry Jones Roddy Bottum 86 minuti
USA 2018
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The Guilty

di Attilio Palmieri
The guilty - recensione film Möller

Spesso quando si parla di cinema e serie televisive si ricorda una delle principali regole del racconto audiovisivo: show don't tell. Questo suggerimento è sicuramente uno dei più saggi, soprattutto per una forma espressiva che, per dirla con Pasolini, ha il compito di mettere in immagini una «struttura che vuole essere un'altra struttura». Sono quindi le immagini ad avere il compito di raccontare, anche quando sembrano non raccontare nulla.

L'apparente racconto del nulla, dal punto di vista mostrativo, è esattamente il punto centrale di The Guilty, lungometraggio d'esordio di Gustav Möller. L'escamotage narrativo del film consiste nel raccontare Asger, un poliziotto di Copenaghen che, per via di un'indagine interna che lo vede coinvolto come accusato, è costretto a svolgere il ruolo di centralinista nella stazione di polizia. Durante il turno di lavoro però riceve una chiamata da parte di una donna, che attraverso una serie di giri di parole gli fa capire di essere stata rapita, di essere sotto il controllo del suo sequestratore e di aver bisogno d'aiuto. Il film procede fino alla fine nella stessa ambientazione, con la macchina da presa che inquadra sempre e solo il protagonista (spesso esclusivamente il suo volto), non mostrando nulla di ciò che succede ma lavorando su una totale focalizzazione interna tale da sovrapporre il punto di vista di Asger con quello dello spettatore, tenendo così quest'ultimo incollato allo schermo dall'inizio alla fine.

Il primo e più immediato paragone che viene in mente è quello con Locke, film del 2013 scritto e diretto da Steven Knight (autore di Peaky Blinders) e interpretato da Tom Hardy, il cui personaggio principale anche in quel caso era il centro di un film in cui l'azione si svolgeva da un'altra parte. Quelle di The Guilty sono immagini che raccontano, dicevamo, perché consapevoli che una delle più importanti virtù del cinema consiste nella capacità di raccontare il non mostrato, spingendo lo spettatore a immaginare ciò che non viene rappresentato all'interno dell'inquadratura. Möller fa quindi un discorso radicale sull'importanza del fuori campo al cinema e il suo film si presenta come una vera e propria lezione per tutte quelle opere nelle quali si percepisce la vana illusione di creare tensione e paura attraverso la messa in scena esplicita di momenti di grande impatto e brutalità, che in molti casi sarebbero più efficaci se sottratti allo sguardo dello spettatore.

The Guilty è un lavoro scritto in maniera certosina, capace di costruire un'altissima tensione sin dall'inizio e mantenerla fino alla fine, gestendo con perfezione alcuni disturbanti twist narrativi che, sia lo spettatore che il protagonista, possono solo ascoltare, amplificandone l'orrore nelle rispettive immaginazioni. Sotto questo punto di vista il film di Möller (attualmente in lizza per entrare nella cinquina finale agli Oscar come miglior film straniero) rappresenta una sorta di punto di incontro tra un film e un podcast: come il primo ha il linguaggio, la presenza di immagini che mostrano i corpi degli interpreti e un formato evidentemente cinematografico; come il secondo ha la capacità di tenere alta la tensione dello spettatore (che in questo caso è anche, e forse soprattutto, ascoltatore) aumentando a dismisura il suo coinvolgimento stimolando ripetutamente la sua fantasia.

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Gustav Möller Jacob Hauberg Lohmann Jakob Cedergren Jessica Dinnage 85 minuti
Danimarca 2018
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Blaze

di Eugenia Fattori
Blaze - recensione film ethan hawke

Uno dei grandi interrogativi del cinema americano contemporaneo (specie alla luce del recente successo di due film riusciti ma piuttosto convenzionali come La La Land e A Star Is Born) è come, ma soprattutto se si possano riscrivere almeno in parte le regole obsolete del film musicale, e in particolare del filone musical-sentimentale-intimista spesso intrecciato a doppio filo col biopic. Quello di Ethan Hawke è sicuramente un passo avanti, il tentativo di portare su schermo la musica e la vita di James “Blaze” Foley distanziandosi dal racconto patinato e/o agiografico. Se ne allontana soprattutto perché, nonostante il talento e il fascino che esercita il suo soggetto (in primis sul regista), Blaze è una storia di occasioni mancate, la più grande delle quali è quella che l’artista aveva per raccontare se stesso attraverso la propria arte.

Blaze Foley è una piccola leggenda nella musica folk texana ma non ha praticamente mai registrato nulla delle proprie canzoni, e ha tenuto pochi concerti a cui fosse presente più di una manciata di persone; è lo stereotipo incarnato dell'artista tormentato, ma al contrario della maggior parte di quelli raccontati dai film per lui non esiste lieto fine né consegna ai posteri, c'è solo una fine solitaria e ben poco romantica, e la certezza di sapersi raccontato soltanto dagli altri, dalle diverse voci che animano il film: a raccontare la storia di Blaze troviamo l'ex moglie Sybil Rosen (autrice della biografia Living in The Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley, che rappresenta la fonte principale del film), gli amici (il musicista di culto Townes Van Zandt e Zee) e infine il regista stesso, che sul finale offre il suo punto di vista anche attraverso la voce dello stesso Foley, interpretato da uno straordinario Ben Dickey.

Tre voci che raccontano tre storie diverse e tre Blaze diversi: l'uomo innamorato e pieno di sogni che vive in una casa su un albero; il compagno d'arte e di bevute allergico alle convenzioni che si trasforma in aneddoto da rielaborare e tramandare; l'uomo ferito e consapevolmente incapace di vivere una vita normale e mettere a frutto il proprio talento, che sceglie l'isolamento e la povertà per essere libero di sprecare ogni cosa abbandonandosi ai propri demoni.
Grazie alla scelta di molteplici punti di vista, che nell'intrecciarsi restituiscono un quadro umano del protagonista impossibile da sciogliere e sconosciuto prima di tutto a sé stesso (come spesso accade nel caso di uomini che scelgono di esprimere la propria sfera emotiva esclusivamente attraverso la musica), Blaze riesce a evitare la convenzionalità del biopic musicale pur mantenendone intatti gli elementi fondamentali (dramma, amore, tormento emotivo, ambizioni disattese), impostando la storia come una caduta annunciata di cui si cercano le radici e le ragioni riavvolgendone le pagine.

Con uno stile lirico che si posiziona sulla linea di confine tra consuetudine e sperimentazione, tra Hollywood e cinema indipendente, Blaze confeziona un risultato più che soddisfacente in termini di esperienza spettatoriale, capace di toccare tutte le corde emotive importanti senza lasciare l'impressione di aver assistito a un'operazione calcolata. Ethan Hawke si rivela capace di catturare perfettamente l'ineffabilità del talento, forse anche perché sinceramente innamorato del proprio soggetto, oltre che in grado di mettere insieme un cast pressoché perfetto, in cui brillano Alia Shawkat, espressiva e radiante, e il chitarrista Charlie Sexton, una faccia che sembra creata per il cinema nonostante non sia il suo mestiere.

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Ethan Hawke Ben Dickey Alia Shawkat Josh Hamilton Sam Rockwell Steve Zahn Wyatt Russell Kris Kristofferson 127 minuti
USA 2018
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American Vandal

di Sergio Sozzo
American Vandal - recensione serie tv netflix

Quando abbiamo deciso che i big data facessero ridere? Se algoritmi, traffici numerici e codici binari reggono la comunicazione e i mercati contemporanei, allora è probabilmente giunto il momento di provare a capire se con le infografiche si possa fare della comicità (vedi Hasan Minhaj). C’è un istante spartiacque in anni recenti, e sono le straordinarie animazioni che chiudono I poliziotti di riserva, la parodia di Adam McKay/Will Ferrell del 2010, tre minuti di torte e istogrammi su Maggie’s Farm versione RATM per spiegare il funzionamento di uno “schema Ponzi”, la truffa finanziaria su cui il film imbastisce la propria demenziale vicenda. Da qui a La grande scommessa, sempre Adam McKay, il passaggio  è breve: l’opera del 2015 è ad oggi il tentativo più ambizioso da parte di un gruppo di autori e interpreti provenienti dal mondo della comicità di costruire una narrazione grottesca a partire da un utilizzo letterale ed estensivo dei dati, delle procedure tecniche, delle statistiche, snocciolate fino allo sfinimento dai personaggi sullo schermo quasi fossimo in una di quelle performance del teatro d’avanguardia che cercano di rendere narrativo un manuale di economia.
Affrontare, con tutta la serietà politica di cui è capace solo la commedia, lo svilimento della narrazione dei nostri tempi a mero traffico di codice è un’operazione lucidissima che mira a rovesciare il senso del flusso costante di informazioni in cui siamo immersi, per incepparlo in maniera definitiva. Un po’ come lavorare su quel canone che i nostri cervelli sono oramai abituati a registrare di sottofondo come l’approccio più diffuso al linguaggio documentaristico in tv. Ovvero, il reportage morboso-sensazionalistico, condito da contrite rievocazioni dei protagonisti e ricostruzioni pittoresche, che impera sui canali tematici spesso d’importazione, nonché in certi vicoli bui e pruriginosi di Netflix, tra Kitty Genovese, Amanda Knox e JonBenet Ramsey. È da qui che parte il geniale sabotaggio ordito da American Vandal, la trollata seriale di Dan Perrault e Tony Yacenda, che aggiorna ai tempi del reportage criminale televisivo della nostra epoca tutti gli stilemi della commedia collegiale più sboccata e scorretta.

Due adolescenti d’America come i sedicenti filmmaker Peter Maldonado e Sam Ecklund, accreditati come autori del mockumentary, padroneggiano il linguaggio delle inchieste crime catodiche davvero come struttura incoscientemente assimilata dal loro immaginario e dalle loro sinapsi, in quanto esposti ad essa praticamente dalla nascita. Il salto concettuale di applicarlo alla propria indagine su chi abbia disegnato 27 enormi peni con lo spray sulle automobili degli insegnanti, deturpate nel parcheggio della loro high school, sembra per Maldonado e Ecklund allora del tutto naturale. L’intuizione decisiva è che oggi chiunque abbia una connessione ad internet è in grado di poter accedere ed analizzare i dati, le prove, i POV, le tracce sparse tra le miriadi di social, chat, mail e messaggi che lasciamo in rete. American Vandal si frammenta così in una selva di schermi, screenshot, stories evanescenti e video privati, alla ricerca del proprio colpevole: un superamento della modalità del cosiddetto desktop thriller alla Profile, Searching, Unfriended.

La prima stagione della serie, datata 2017, è il punto di non ritorno definitivo per la comicità post-user generated content. Se è indubbio uno stato di crisi per i campioni della risata volgare USA (a quando risale l’ultima grande commedia che vi è capitato di vedere?), American Vandal riazzera il campo attraversando indenne le stazioni storiche della via crucis collegiale (il bullo, la cheer leader, i prof bastardi, gli outsider, gli sfigati, la festa alcolica, lo sverginamento ecc) ma reinquadrandole con i mezzi della comicità veicolata e prodotta dal web. Si tratta di un’indicazione forte quanto lo fu SuXbad di Mottola/Apatow/Rogen per la generazione precedente.

La seconda, recente stagione del prodotto Netflix alza il tiro, integrando il successo avuto dalla prima serie sul portale come elemento interno alla narrazione, e andando a toccare il nervo scoperto delle stragi e degli attentati omicidi nelle scuole USA, sostituendo i fucili di Colombine con il lassativo. Confermando così il tritacarne della commedia l’apparato digestivo più urgente d’America. Il risultato è sicuramente meno incendiario del prototipo, ma riesce nel prodigio di ricongiungersi nel finale con il primo degli esperimenti che insegnò alla televisione contemporanea come parlare il linguaggio dei peer network a partire dalle modalità dei video tutorial su youtube. Stiamo parlando di Catfish, la trasmissione di Mtv creata da Nev Schulman e Max Joseph nel 2012, e basata sulle ricerche online per scoprire i profili falsi sui social. American Vandal è a conti fatti l’aggiornamento di quel format all’epoca dello streaming, ma sfrontato e disturbante come ogni teen movie che si rispetti, da Landis a The End of the F***ing World.

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Dan Perrault Tony Yacenda Tyler Alvarez Griffin Gluck 2 stagioni da 16 episodi
USA 2017-2018
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Atlas

di Eugenia Fattori
atlas - recensione film David Nawrath

Rainer Bock è un attore dal talento impossibile da ignorare, che non a caso è entrato quest'anno nel prestigioso (e dal livello attoriale difficile da eguagliare) cast di Better Call Saul. Ed è su Bock, sulla sua recitazione creata solo con gli occhi e la sua faccia comune segnata dalla vita, che si basa quasi per intero il valore di Atlas, primo lungometraggio di David NawrathIn bilico tra noir e affresco sociale, il film ha anche potentissimi echi narrativi di tragedia greca e come ogni tragedia che si rispetti pone la famiglia al proprio centro, i padri e i figli, il peso che i primi imprimono sui secondi e la tara sociale di una mascolinità che ingabbia, che si ripresenta indesiderata ogni volta che si cerca di scacciarla e che condiziona ogni azione futura, di uomo in uomo.

Al centro della vicenda c'è Walter, traslocatore ormai anziano dotato di una straordinaria forza fisica, che però ormai lo sta abbandonando, uomo solo dalla vita monacale e dalle pochissime parole che finisce invischiato suo malgrado in una storia di sfruttamento immobiliare, riciclaggio di denaro e gentrification. Grazie a questa situazione riemergerà un passato da cui Walter è stato allontanato (o ha voluto consapevolmente allontanarsi, o forse entrambe le cose) e che gli offre ora una seconda occasione di “essere uomo” e rimediare ai propri errori.

In apparenza perfettamente inserito in un ambiente che consente uno scarsissimo margine di umanità, e che sembra per questo il guscio perfetto per proteggerlo, Walter nel corso del film prende vita a poco a poco nella potenza della performance di Bock: i gesti ripetitivi e rassegnati nascondono una carica di energia repressa che quasi letteralmente traspare dallo sguardo dell'attore, un'energia ferale ed empatica insieme che si esprime attraverso silenzi e gesti improvvisi.
L'andamento del film si regge sulle spalle di questa performance, attorno alla quale viene a crearsi una tensione crescente all’interno di una struttura solidissima che trasforma in thriller la malinconia di una quotidianità disperata, e che porta la tragedia ad un inaspettato lieto fine, in cui si evoca la possibilità della rottura di un ciclo tossico di violenza e impotenza, affidando la risoluzione alla famiglia stessa, che da maledizione diventa ancora di salvezza capace di redimere e perdonare.

Un ottimo esordio, che nonostante la debolezza del cast che circonda Bock (con la notevole eccezione di Thorsten Merten), non sbaglia un dialogo e ci regala un'ottima variazione sul tema del drama contemporaneo.

 

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David Nawrath Rainer Brock Albrecht Schuch Thorsten Merten 99 minuti
Germania 2018
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Dovlatov - I libri invisibili

di Samuele Sestieri
DOVLATOV

Nel mettere in scena la storia di Sergei Dovlatov, uno degli scrittori russi più importanti del ventesimo secolo ostracizzato dalla censura sovietica, Aleksej German Jr. allestisce tutta una serie di riflessi. Dovlatov è anzitutto un film sulla scrittura: il vero scrittore è fisiologicamente inattuale, non converge mai con la propria epoca. Dubita di se stesso e del mondo che lo circonda, abita la crisi come una frattura fra Storia e individuo, regime e persona, censura e libertà di espressione.

Invisibile come i suoi libri, quello di Dovlatov è un atto di resistenza nei confronti della norma e della dottrina. Intorno a lui un universo spento e desaturato, virato in seppia, quasi un film in bianco e nero in cui il colore risulta costantemente umiliato.

Il film segue sei giorni della vita di Sergei datati 1971: il tempo non scorre mai, come rinchiuso in una bolla ermetica. Il mondo esterno penetra clandestinamente tramite operazioni di contrabbando mentre la madre Russia, con i suoi grandi scrittori, osserva e commenta, attrice di uno spettacolo che non conosce più. Le scenografie di questo spettacolo sono solo luoghi oscuri ed asfittici: la redazione del giornale, i locali freddi e fumosi, le strade che non presentano mai un’apertura ma sembrano ennesimi, claustrofobici interni.

Dovlatov cammina inquieto: si agita, si ferma poi ricomincia a vagare, ma sembra sempre bloccato in una dimensione che lo respinge. Troppo negativo, troppo critico, troppo sfuggente per il pensiero positivo sovietico (lo scrittore si trasferirà poi negli Stati Uniti e non conoscerà il successo che arriverà solamente postumo).

Il film di German, straordinariamente attuale, si apre a tutti gli emarginati, a tutti gli artisti inesistenti, a tutti i pensatori scomodi, alle gallerie di outsider che salvano il mondo. Con i riflessi direttamente puntati sulla Russia contemporanea, su un presente dove la Storia rischia di ripetersi. Eppure, senza troppi indugi o compromessi, l’artista riesce a sopravvivere. Umiliato, deriso, allontanato: abita i campi totali, le focali corte in cui Dovlatov può confondersi con il popolo, essere uno di loro. Senza classismo, senza separazioni fra intellettuali e gente comune, ma uomo in mezzo ad altri uomini, immerso nelle tragedie quotidiane del suo paese.

Si ha quasi la sensazione che la macchina da presa utilizzi Dovlatov come veicolo per esplorare gli altri, slittando continuamente l'attenzione dal suo soggetto per avvicinarsi al resto del mondo. German è attratto dalla vita che scorre ai margini, dalle voragini e dalle derive della narrazione. Con il riflesso più evidente di suo padre Aleksej, immenso regista ostracizzato dal regime con solo sei film prodotti nel corso di un'intera carriera, di cui l’ultimo Hard to be a God, sembra la versione visionaria e deforme di questo Dovlatov.

“Prima o poi le cose miglioreranno” dice la moglie allo scrittore, gettando un’ultima speranza sul futuro dell'uomo, della Russia...del nostro tempo.

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Aleksey German Jr. Milan Maric Danila Kozlovsky Elena Lyadova Svetlana Khodchenkova 126 minuti
Russia, Polonia, Serbia 2017
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Pretenders

di Attilio Palmieri
Pretenders di James Franco - recensione film

Pretenders era uno dei film più attesi della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, ennesima opera di James Franco arrivata al Festival torinese in anteprima mondiale.

Prima di vedere un film dell'ex star di Freaks and Geeks ormai ci si chiede come faccia a lavorare così tanto, ad essere sul set di film e serie televisive come interprete e contemporaneamente a realizzare film da regista a una velocità che farebbe impallidire anche coloro che di impegni ne hanno pochissimi. Si ha infatti la sensazione che ci siano poche persone ad Hollywood ad amare il cinema come James Franco, a vivere il fare cinema, davanti e dietro la macchina da presa, con la stessa abnegazione e la stessa inscalfibile voglia di lavorare. Tuttavia quando si produce così tanto la qualità media delle opere tende inevitabilmente a calare, perché l'attenzione e la misura con cui si fanno determinate scelte non possono che scendere a patti con l'urgenza del momento. Dopo la voglia di raccontare la storia della realizzazione di The Room in The Disaster Artist, l'obiettivo di Franco in questo caso è quello di omaggiare l'amore per il cinema, riportando in vita non tanto la cinefilia in sé quanto un certo modo di rappresentarla.

Più che un omaggio ai cineclub parigini degli anni cinquanta e sessanta, Pretenders rappresenta un una rilettura di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, presentandosi quasi come una sorta di omaggio dell'omaggio. Riprendendo l'ormai archetipica situazione narrativa dei tre amici, due uomini e una donna, il regista colloca la sua storia tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, provando a realizzare sia il suo personale Jules et Jim e sia a mettere in scena quella irresistibile venerazione per il film di Truffaut e tutta la Nouvelle Vague francese.

Pretenders è diviso in due parti, una ambientata negli 1979 e l'altra nel 1983. Nella prima, nettamente la più riuscita, Franco presenta i personaggi, delinea in maniera non proprio approfondita ma comunque abbastanza efficace la passione di Terry per il cinema francese e per colei che sarà il principale oggetto del suo desiderio, Catherine. Al contempo viene pian piano presentato anche Phil, altra faccia della mascolinità che inizialmente ha il ruolo di figura comica, poi quello di mentore, a tratti quello di antagonista e spesso quello di spalla del personaggio principale. I tre nel primo atto del film mettono insieme una sorta di squadra in cui la passione per il cinema e l'amore per il divertimento sfrenato fanno da costanti relazionali. Parallelamente però emerge anche una sorta di autocritica abbastanza esplicita a questo triangolo, che sottolinea quanto un immaginario fatto di uomini di cultura e donne che sono prevalentemente oggetti del desiderio sia mortificante per le spettatrici di sesso femminile, che vedono sullo schermo sempre e solo il mondo sotto una prospettiva maschile. È come se da una parte ci fossero la fascinazione, l'incanto e la libertà dei seventies, ma dall'altra si volesse inserire in maniera un po' posticcia una riflessione spiccatamente contemporanea.

Se la prima parte di Pretenders risulta in ogni caso godibile e piena di amore per il cinema, nella seconda il film sembra perdere l'equilibrio, mettendosi a giocare su troppi campi contemporaneamente senza riuscire, anche per ragioni di spazio, a portare a termine i suoi discorsi. A partire proprio da quel tema sulla femminilità imprigionata affrontato nel segmento ambientato nel 1979, la parte ambientata dal 1983 in poi riprende in maniera pedissequa quel tipo di rapporto, volendone essere per certi versi una sorta di critica, più o meno esplicita. È come se dopo aver introdotto in teoria il lato oscuro di quel mondo il film ne volesse mostrare l'applicazione concreta, creando un triangolo amoroso simile a tanti altri e caratterizzato dal desiderio di due uomini per una donna bella, affascinante e quasi mai capace di esprimersi in prima persona. A conti fatti però l'operazione risulta abbastanza fallimentare per diversi motivi. Innanzitutto per la potenza e l'efficacia del discorso: se si vuole raccontare la tossicità dello sguardo maschile allora bisogna andare un po' oltre l'aspetto denotativo e aggiungere profondità a una riflessione che invece è abbastanza superficiale; se invece si vuole rispondere in maniera costruttiva cercando di dare ai ruoli femminili quello spazio che da sempre gli è stato privato, allora bisogna procedere in una direzione molto diversa.

A questo proposito è abbastanza evidente che nel 2018, quando la riflessione sulla rappresentazione femminile ha fatto passi da gigante grazie ad autori e soprattutto autrici che al cinema e forse ancora più in televisione hanno raccontato alla perfezione figure femminili con una profondità che un tempo rappresentava una rarità nel migliore dei casi, una scelta come quella di Franco risulta come minimo ingenua. Pur volendo dare il beneficio del dubbio a un'operazione che, soprattutto per come evolve nella sua seconda parte non sembra avere una particolare coerenza, non si capisce perché per raccontare la tendenza all'oggettivazione della donna da parte dello sguardo maschile il regista decida di escludere ogni tentativo di costruire un personaggio femminile in grado di fare da contraltare virtuoso.

Pretenders è un film che dimostra ancora una volta che per James Franco fare cinema è prima di tutto un atto d'amore, ma allo stesso tempo ribadisce come troppo spesso nel suo cinema a fronte di ottime intuizioni non corrisponda un'adeguata attenzione nella realizzazione. A risentirne, in questo caso, sono soprattutto i personaggi, non solo imprigionati in stereotipi ormai usurati, ma anche privi di spessore e legati da rapporti mai costruiti in maniera adeguata.

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James Franco Jack Kilmer Jane Levy Shameik Moore Juno Temple Brian Cox James Franco 90 minuti
USA 2017
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Il vizio della speranza

di Saverio Felici
Il vizio della speranza  - recensione film De Angelis

Trovare un codice visivo nuovo, inconfondibile, al cento per cento personale, è un definitivo segno di maturazione per un regista. Edoardo De Angelis, al quarto film, è ormai padrone assoluto della propria estetica. È stato un percorso graduale, per tasselli: Mozzarella Stories, l'inevitabile commedia da esordio; Perez., camorra-movie di evidente matrice gomorriana; Indivisibili, bizzarro e incatalogabile, premiatissimo dall'establishment italiano. Un passo dopo l'altro, in direzione di questo Il vizio della speranza: vincitore alla Festa del Cinema di Roma, è un film controverso, imperfetto, con alcuni prevedibili difetti (che a questo punto il regista napoletano sembra desinato a portarsi dietro a vita). Ma soprattutto è un film di Edoardo  De Angelis, senza dubbio alcuno. Da questo momento, confondere l'autore con un qualunque imitatore del Garrone più lo-fi (autentica scuola manierista italiana a cui troppo frettolosamente era stato associato), non è più possibile.

L'impianto de Il vizio della speranza è quello del noir classico (d'altronde c'è Giorgio Scerbanenco citato già nel titolo): l'individuo in rivolta personale contro un sistema opprimente, che si auto-condanna alla fuga e alla lotta per la sopravvivenza. Maria (Pina Turco, compagna del regista, strepitosa) si occupa di gestire una rete di prostitute africane per conto della madame Marina Confalone. Nel tempestoso delta del Volturno, il suo compito è condurre a partorire le ragazze rimaste incinte: il neonato sarà portato via dall'organizzazione e venduto a chi pagherà. Alla notizia di aspettare un bambino lei stessa, Maria aiuterà una delle ragazze a fuggire e si darà alla macchia. Con un cappuccetto blu sulla testa e un pitbull che la segue ovunque, fuggirà tra la melma e la pioggia di una Campania sfigurata da un Natale mai così squallido. Braccata dagli sgherri della sua "padrona", in fuga tra sfollati e baracche di immigrati, determinata a dare alla luce un bambino che, a quando dicono i medici, potrebbe costarle la vita.

Il vizio della speranza pianta lo sguardo addosso ad un mondo che, da un punto di vista cinematografico, siamo ormai abituati a conoscere. Ha dell'incredibile allora la capacità di De Angelis di trasfigurare il (solito) universo provinciale-periferico meridionale, sprofondato nella povertà e nella criminalità, in qualcosa di mai visto.
Nel neo-neorealismo italiano di camera a mano e colori in grigio, da un decennio abbondante la poetica dello squallore periferico è terreno di facili spunti per una schiera infinita di registi. De Angelis porta il discorso estetico a un livello inedito per potenza immaginifica. Il lurido delta di questo Volturno-Mississippi non somiglia a niente di quanto visto in altri mille lavori con storia e ambientazione simili. E' un film grande, quasi epico. I piani sono larghi, i campi lunghi o totali: le sponde del fiume sembrano distanti chilometri, immerse tra canneti, paludi, popolate da mostri e serpenti. La gente vive in prefabbricati e baracche fragili, quasi sul punto di essere portate via dalla  corrente e dalle inondazioni. Il direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio allarga insistentemente il campo (l'opposto esatto della cifra garroniana), inquadra i luoghi alla fine del mondo come in uno scenario da Sud USA. Arriva quasi a ricordare certe tendenze estetiche contemporanee alla True Detective (o alla Re della terra selvaggia, seminale e semi-dimenticato film del 2012). E al centro di tutto, il gusto dell'orrore: orrore non inteso come paura, ma come repulsione ossessiva e affascinata. L'estetica dell'orrido di De Angelis raggiunge qui l'apice, un mondo in cui tutto è deforme, malato, in qualche modo sfigurato. Da vezzo auto-compiaciuto ad autentica cifra: un universo chiuso di fango e rifiuti, acqua e sopraffazione. Stupro e tensione razziale. Il Southern Gothic italiano.

Dall'altra parte dello spettro, si ripresentano invasivi i classici difetti di De Angelis. L'attitudine fiabesca già mostrata in Indivisibili torna alla ribalta anche qui, annacquando l'esistenzialismo del noir con l'idealismo di chi il vizio del titolo non riesce a perderlo. Nel mondo oscuro che De Angelis ritrae con cura quasi ossessiva, i buoni sentimenti non annegano ma prosperano. Emerge allora nel terzo atto una certa attitudine parrocchiale alla  retorica spinta, metafore religiose reiterate, l'ideale di una "grazia" femminile salvifica non sempre raffinata come l'autore vorrebbe. Il titolo ne dà indizio chiaro: nella melma eterna che sembra aver ricoperto il mondo intero, a De Angelis piace cercare la luce, il buono. Ma i buoni non sono interessanti come i cattivi, e le redenzioni non sono mai credibili come le dannazioni. Appoggiandosi a un facile con lieto fine tra i "buoni reietti" del mondo, Il vizio della speranza stempera quella potenza brutale che lo sospingeva. L'estetica c'è, la poetica può essere affinata. Già così, il quarto film di Edoardo De Angelis è uno dei titoli italiani della stagione.

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Edoado De Angelis Pina Turco Massimiliano Rossi Marina Confalone Cristina Donadio 90 minuti
Italia 2018
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Happy New Year, Colin Burstead

di Samuele Sestieri
Happy New Year

In principio era Kill List - il suo secondo e miglior film - e con Ben Wheatley fu subito folgorazione. Una di quelle rare opere realmente imprevedibili, stranianti e multiformi. Non sapevi dove potesse andare questo strambo cineasta inglese, che partiva da scene di un matrimonio, si insidiava in traiettorie lynchiane e finiva nei territori oscuri di un sabba. Negli anni successivi si creò un’autentica Wheatley-mania, nonostante il regista andasse gradualmente a perdere quell’alone di mistero e originalità che permeava il suo titolo di culto. Basti pensare ad A field in England, film intrappolato nell’estetica b/n “da festival”, compiaciuto fino al midollo, che si apriva a squarci visionari forzati e, quantomeno, di dubbio gusto estetico.

Con Happy New Year, Colin Burstead arriva prontamente la domanda: cos’è rimasto dello strepitoso regista di Kill List? Qualsiasi vecchia politica autoriale viene a mancare: siamo – ancora! – nei territori del vittenberghiano Festen, nel ritrovo di famiglia dell’ennesimo nucleo disfunzionale. L’evento questa volta non è un compleanno ma il capodanno da passare tutti insieme in famiglia (ed è la solita pessima idea!). I fuochi d’artificio saranno i duelli all’ultimo sangue dove le tensioni accumulate finiranno per esplodere.

Fratelli che non si sopportano, genitori in crisi, debiti,  risentimenti, sfoghi e mancanze. In mezzo qualche momento felice, profondo perché rarissimo. Macchina a mano di dogmatica memoria, scrittura piccante e molto british, cinismo che alla fine fa rima con nichilismo. Il set è la lussuosa tenuta in piena campagna, gli attori sono i burattini in balia dell’intelligenza di chi scrive. Programmatici, freddi e funzionali. Tutto scorre, come sulla carta, peccato che il buco nero sia l’emozione (eccetto che, guarda caso, quando uno dei fratelli si emancipa dalla trappola familiare e finisce ad urlare in riva al mare: lì, finalmente, intercettiamo tracce di dolore autentico). Alla fine si assiste a un film mortifero, costantemente appiattito dallo zelo sofisticato della messa in scena. A questo punto verrebbe quasi da consigliare A casa tutti bene, l’ultimo interessante film del sempre bistrattato Muccino, dove la tensione si alimenta inquadratura dopo inquadratura e non ci si vergogna mai di far trasparire un po’ di emozione. E dove, soprattutto, lo spazio non è scenografico e bidimensionale, ma diventa parte integrante del racconto.  

Categoria
Ben Wheatley Sarah Baxendale Asim Chaudhry Joe Cole 95 minuti
Gran Bretagna, 2018
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High Life

di Andreina Di Sanzo
High-Life-recensione film Claire Denis

«L'imperitura fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell'amore capace di vincere la morte, quel finis vitae sed non amoris che ci perseguitava da secoli era una bugia. Una bugia vana e tuttavia ridicola. Ma rassegnarsi a essere un orologio misurante lo scorrere del tempo, alternativamente rotto e riparato e nel cui meccanismo, appena messo in moto dal costruttore, cominciavano a scorrere disperazione e amore?» Solaris - Stanisław Lem

Claire Denis fornisce pochi indizi per ricostruire i fili di questo imperscrutabile viaggio, High Life, la vita su una navicella spaziale in una galassia lontana dal nostro sistema solare. Tossici (l’high del titolo si riferisce forse anche alle loro precedenti dipendenze) e delinquenti usati come cavie per un esperimento che probabilmente darà una speranza alla razza umana. Ma sappiamo poco di quello che è successo in questo futuro imprecisato se non dai ricordi sfilacciati di Monte, un Robert Pattinson statuario e glaciale e così tenero con la sua piccola figlia, ultimo bagliore della deriva umana.

High Life, disturbante e magnetico, ci pone di fronte a molteplici piani di interpretazione e questioni: la fine della nostra razza, l’ecologia e la salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, la riproduzione e così la memoria e i ricordi, ma soprattutto l’aridità, intesa non solo come sterilità ma annientamento dei sentimenti. La dottoressa Dibs, interpretata da una sensuale Juliette Binoche, è a capo dell’esperimento: la riproduzione a ogni costo. Non c’è però nessun contatto, nessuna interazione fisica tra i condannati: solo un cubo (fuckbox) come stanza utilizzata per il piacere, mai condiviso, solo la masturbazione come sfogo e momentaneo appagamento. La voracità di una ninfomane e il suo sfrenato desiderio cannibale di Cannibal love - Mangiata viva vengono qui annientati completamente da una Medea e Lilith del cosmo che castra la pulsione delle sue cavie. Ma il desiderio irrompe, sempre, e provoca la disgregazione di questo piccolo microcosmo deviato. Bisogna riprodursi senza toccarsi: ci si sveglia, si fa attività fisica, la dottoressa raccoglie lo sperma e lo insemina quasi a tradimento in quelle donne utilizzate solamente come corpi, uteri che dovranno accogliere il seme, ma che difficilmente riusciranno a portare avanti la gravidanza.

«Il n'y a pas de rapport sexuel», direbbe qualcun altro.

Denis opera per suggerimenti e visioni, la voce narrante di Monte ci porta nelle immagini del suo passato traumatico che la regista sceglie di girare in 16 mm: una Terra lontana, un bambino, un cane. La navicella come zona per avverare il grande desiderio del concepimento. La vegetazione misteriosa, l’acqua e il suo rumore ci rimandano direttamente al cinema di Andrej Tarkovskij. Monte come lo Stalker è una guida verso l’ignoto e porta il marchio sui suoi capelli, la macchia bianca che contraddistingue gli stalker, unici detentori di quella conoscenza misteriosa. Claire Denis, omaggiando il regista russo, sceglie di darci delle rapide illuminazioni, ora con la dilatazione, ora la con frammentazione del tempo, sottraendo alla narrazione e concentrandosi sull’esperienza visiva. Gli ambienti freddi e rarefatti della navicella, la serra come oasi dove poter ancora toccare la terra umida e ricongiungersi con ciò che si è perso, la magnifica e disturbante sequenza della dottoressa Dibs e le torsioni orgasmiche nella fuckbox - bellissime le scenografie dell’artista Ólafur Eliasson.

Tentare di rispondere ai tanti interrogativi o ricostruire per causa-effetto non è certamente il punto del film. Come per L’Intrus, la sua opera più radicale, l’invito della  Denis è a perdersi in quel movimento incessante che è il cinema, il suo cinema.
La navicella spaziale dove Monte e sua figlia sopravvivono è immersa nell’infinito moto dell’universo, schermo primordiale, teatro di un’eterna Odissea, tra le musiche oscure e ipnotiche di Stuart Staples. La bimba concepita nello spazio diventa donna e fertile, la fiducia in quel volto con il quale il film si chiude è la fiducia nella visione, vero interrogativo del film intriso di quella morale che restituisce ancora l’assoluta speranza nel ricongiungimento con l’immagine. In un mondo che gradualmente perde il contatto con l’altro, prediligendo l’erotismo freddo e solipsistico con lo schermo, High Life crede ancora nella potenza della visione come condivisione e contatto. Come la Hari di Solaris, il ricordo inafferrabile e mutevole di  quell’immagine-mentale tornerà teneramente a tormentarci.

Categoria
Claire Denis Mia Goth Robert Pattinson Juliette Binoche André Benjamin 110 minuti
Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Stati Uniti 2018
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