L’île au Trésor

di Domenico Saracino
L'île au Trésor - recensione film 2018

L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise è una delle tante “bases régionales de plein air et de loisirs” di Francia, basi ricreative che consistono in specchi d’acqua attrezzati per il divertimento e il tempo libero. Un luogo di relax e di vacanza, situato nell’Île-de-France, a pochi km dalla capitale, che Guillaume Brac conosce bene sin dall’infanzia e da tempo desiderava filmare.

Da questa fascinazione a lungo coltivata il regista francese ha finito per ricavarne un dittico, girandovi prima le scene del film di finzione Contes de juillet, presentato Fuori Concorso a Locarno 2017, e poi, l’estate successiva, il documentario L’île au Trésor, presentato nella sezione del Concorso Ufficiale – Premio Amore & Psiche del MedFilm Festival 2018.

Una storia di moderni pirati e di un’isola, come nel celebre romanzo per ragazzi di Roberto Louis Stevenson da cui questo terzo lungometraggio di Brac trae titolo ed epigrafe. Piccoli filibustieri sono i ragazzini venuti da Argenteuil (altro luogo storico del plein air, meta domenicale di grandi pittori impressionisti), decisi ad intrufolarsi in tutti i modi nella loro isola del tesoro, così affamati di luccicanti meraviglie ludiche e di avventure. Pirati gli adolescenti che esplorano, a bordo dei loro stand up paddles, l’enigmatica piramide affiorante dalle acque dell’etang, navigatori al contempo antichi (come i pagaianti hawaiani che utilizzavano nel Settecento queste imbarcazioni, descritti nelle testimonianze dell’esploratore James Cook) e moderni (come i Beach Boys di Waikiki che ne fecero diffondere l’utilizzo). 
 poi ci sono i ribelli e gli esuli, il guardiano notturno costretto a lasciare la propria terra d’origine per aver osato contrariare un ministro dell’istruzione poco incline ad argute osservazioni, la famiglia afghana sfuggita per puro miracolo alla furia dei mujāhidīn, il professore in pensione, in esilio dalla sua giovinezza.  Tutti in vacanza nello stesso luogo. L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise è terra di incontri e mescolanze, di abbattimento delle barriere, di libertà e splendida eterogeneità. Una ricchezza di sguardi, corpi e scenari che Guillaume Brac filma con intelligenza e profonda ammirazione, senza sensazionalismi, intellettualismi o inutili orpelli stilistici, preservandone la meraviglia, tra dinamiche naturali (la luce, le condizioni metereologiche), emotive (l’amore, il pericolo, la nostalgia del ricordo) e sociali (i corteggiamenti, gli appuntamenti, la rigida normalizzazione delle leggi del parco) e dinamismo visivo (campi lunghi e lunghissimi, primi piani e soggettive).

Come in Mektoub my love, dove però l’esplorazione era anche e soprattutto carnale, nei lavori di Rohmer o, soprattutto, nei primi film di Rozier (cineasta cui Brac ha spesso dichiarato di ispirarsi), la vacanza diventa spazio di emancipazione, liberazione del desiderio, incitamento a vivere ludicamente il proprio stare al mondo, diventa “situazione” debordianamente intesa, “ambiente momentaneo di vita, di qualità passionale superiore”. Non è un caso che la direzione del parco divertimenti sia filmata come una sorta di controcanto a questa brulicante entropia, mentre discute della sicurezza, di previsioni meteo, di chiusure settimanali che potrebbero fare male agli affari; oppure che la vigilanza non consenta ai due ragazzi trovati a scavalcare la recinzione di usufruire liberamente di quello spazio, né ai piccoli truffatori che entrano senza biglietto di rimanere. La selvaticità d’un tempo rimane intatta nei ricordi dei più anziani e nelle dolci infrazioni dei pirati.

A questi sprazzi di incontenibile vitalità Brac dedica buona parte del montato, insistendo sui momenti di eversione, di sfida all’autorità: persone che si bagnano in zone non consentite (“solo i piedi” dice l’addetto ai controlli) o che si lanciano in tuffo da punti dove è espressamente vietato, bambini che provano ad evitare il pedaggio e adolescenti che tornano lì di notte per vivere nuovi eccitamenti. È questa febbre, questa ebrezza di vita, il vero tesoro dell’isola.

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Guillaume Brac 97 minuti
FRANCIA 2018
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Tutti lo sanno

di Emanuele Di Nicola
Tutti lo sanno - recensione film Farhadi

Sono due gli elementi che avvolgono implicitamente Tutti lo sanno, l’ottavo lungometraggio di Asghar Farhadi e il primo girato in Spagna: il tempo e la voce.

Il primo, il tempo, lo vediamo già contenuto nell’incipit programmatico: c’è un enorme meccanismo, è l’orologio nel campanile di una chiesa, il cui ingranaggio procede ritmicamente per scandire i secondi. Su questo si formano i titoli di testa. Ci dicono che è tutto un dispositivo il cinema di Farhadi, un sistema che nel suo farsi lascia emergere il problema etico e il dubbio morale, il confronto con noi stessi e le decisioni difficili da prendere: cinema che qui assume la forma di una ruota dentata, correlativo oggettivo di un’idea di messinscena, che scatta lentamente, placidamente, e girando segna lo scorrere del tempo insieme alla costruzione dell’impianto narrativo. Nel campanile si ritrovano due personaggi, Irene e il ragazzo del paese, e incidono le loro iniziali sul muro, vicino ad altre iniziali, quelli di due amanti del passato che sono i veri genitori di Irene. L’ambiente è marchiato da un grande orologio di vetro ormai incrinato, con un buco da cui passano gli uccelli. «Qui c’è una vista bellissima», rileva Irene, sbirciando tra le lancette rotte: ecco che il passato tracima nel presente e con esso dialoga in filigrana, da ora e per tutto il film, fino ad emergere in evidenza.

Il secondo elemento si trova nella voce, nel senso più classico del termine, ovvero quello mitologico: la Fama, il mostro con molteplici occhi, orecchie e bocche per vedere, sentire e spargere la voce. È questa che intitola il film: Tutti lo sanno: storia di un matrimonio che viene interrotto da un rapimento. Laura (Penélope Cruz) torna da Buenos Aires alla Spagna per partecipare alle nozze della sorella, nel proprio paese natale nella municipalità di Madrid, un piccolo centro segnato da un vasto vigneto: si porta dietro i suoi figli, tra cui la sedicenne Irene (Carla Campra), e qui reincontra Paco (Javier Bardem), amore di gioventù oggi proprietario di una vigna che proprio Laura gli ha venduto. In un’ampia galleria di personaggi si consuma la festa, che è turbata da un tragico evento: Irene viene rapita dalla sua stanza, nel sonno, da misteriosi sequestratori che scrivono alla madre per il riscatto. Se chiameranno la polizia la ragazza verrà uccisa. Alla luce di un rapimento analogo, concluso con la morte della bambina, i parenti e amici scelgono di non avvertire l’autorità e risolvere la questione in famiglia: per riavere la ragazza bisogna trovare trecentomila euro nel più breve tempo possibile. L’arrivo del marito di Laura, Alejandro (Ricardo Darín), non sblocca la situazione e anzi la ingarbuglia ulteriormente. «Tutti lo sanno», dice il giovane a Irene nel campanile: nel paese è noto che Laura e Paco stavano insieme. «Tutti lo sanno», è la risposta che ottiene Alejandro sulle voci che corrono: tutti sanno che Irene in realtà è figlia di Paco. Ecco perché Paco/Bardem si impegna in particolare per liberare la giovane, fino all’ipotesi estrema di vendere la terra.

Cosa è vero e cosa presunto? Il nodo della relatività del reale, della vera conoscenza che si intreccia alla semplice ipotesi resta centrale e lampante nel cinema di Farhadi. E dunque la costruzione del dilemma etico-morale si sviluppa ancora una volta, dinanzi a un giallo che è tale solo in teoria: basti vedere come l’autore fornisce la soluzione, l’indicazione del colpevole che arriva ben prima del finale e non intacca il tessuto, perché non è quello il nocciolo della questione ma - come sempre - i rovelli interiori dei suoi personaggi.
Perché Laura rivela proprio adesso a Paco che Irene è sua figlia? Oscillazione spontanea dell’animo o tentativo di estorsione sentimentale per ottenere i soldi necessari? Perché Paco sceglie davvero di cedere la vigna, concretizzando una mera possibilità? Avrebbe aiutato un’altra bambina che non fosse sua figlia? E la moglie di Paco, Lea (Barbara Lennie), con il categorico rifiuto della solidarietà assume una posizione cinica o esercita una legittima gelosia? Sono esempi di domande che percorrono il racconto, frammenti di dubbi che si potrebbero applicare anche ad altre figure e scenari (uno su tutti: il primo sospetto sui braccianti, eventuali rapitori, come traccia di lotta di classe). La rilevanza, al solito in Farhadi, abita proprio nella domanda, nel punto interrogativo, nella difficoltà di decidere che tormenta i personaggi e la nostra posizione nel giudicarli. Non è semplice stabilire la legittimità dei loro moti, dove si trova l’autentico e dove l’attentamente costruito: da cosa vengono determinati, amore e sentimento o calcolo e interesse? In tal senso, idealmente separato dal confine tra Iran e Turchia, il suo cinema dialoga a distanza con quello di Nuri Bilge Ceylan: gemmazione di interrogativi, dubbi su dubbi, problemi etici inestricabili talmente tentacolari che mettono in scacco.

Se l’autore turco ha appena firmato un colosso come L’albero dei frutti selvatici, però, l’iraniano nella seconda trasferta della sua filmografia finisce parzialmente incartato. Dopo l’incursione francese de Il passato, l’applicazione spagnola del suo teorema soffre di limiti simili, anche tecnici: Farhadi non parla la lingua degli attori che dirige, e ne risente soprattutto una Penélope Cruz in overacting della sofferenza, così come alcuni malintesi sembravano riguardare Bérénice Bejo nel film precedente. D’altronde il cineasta ha sviluppato la storia partendo da un suo viaggio, ovvero posizionandosi chiaramente nella prospettiva di osservatore esterno: «Sono stato nel Sud della Spagna. In una città ho visto diverse foto di un bambino affisse ai muri. Quando ho chiesto chi fosse, ho saputo che era scomparso e che la sua famiglia lo stava cercando: lì è nata la prima idea del film (...). Ad attrarmi sono state soprattutto il paesaggio e la cultura locale». La traccia etnografica viene apertamente dichiarata, quindi, ma è altrettanto vero che nel disegno narrativo vivono i temi prediletti: il rapporto tra uomo e donna e la possibile resistenza del sentimento dopo la rottura; il peso del passato che ritorna con forza nel presente; l’improvvisa scomparsa di una figura femminile che costringe a riconsiderare le proprie posizioni, come accadeva alla giovane maestra di About Elly, film in odore de L’avventura di Antonioni; in generale il confronto necessario con noi stessi, complesso e crudele, cosa vogliamo ottenere e a cosa siamo disposti a rinunciare nel rapporto con l’altro, in un concetto che avanza in modo graduale ma inesorabile.

Già magnificato dalle sue perle, come Una separazione e Il cliente, il metodo Farhadi si dispiega qui altalenante e conferma il sottile equilibrio richiesto dal suo fare cinema, che può perdersi e trovarsi anche per un solo dettaglio o sfumatura: così è nei lunghi confronti tra Bardem e Cruz, che a volte restituiscono la gradualità dell’elaborazione morale e altre sfociano nella semplice scenata. Così nei video del matrimonio, che i personaggi guardano e riguardano in cerca di un indizio, provando ad aprire un discorso ottico interessante ma troppo vago per incidere. E così anche nel finale, affidato ancora ad una donna farhadiana che mette ordine e assume la posizione “giusta”, ma risolto nell’arco di una scena con sintesi perfino eccessiva.

Tutti lo sanno è un cosiddetto “film minore”? Certamente sì. Ma è anche la prova che conferma la strategia a orologeria di uno dei maggiori autori del contemporaneo: e torniamo allora all’apertura, alla ruota che scatta implacabile come il meccanismo di Farhadi, in una consapevolezza dello sguardo che molto cinema di oggi non vede da lontano.

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Asghar Farhadi Penélope Cruz Javier Bardem Ricardo Darín Imma Cuesta Carla Campra Eduard Fernandez Barbara Lennie 132 minuti
Spagna, Francia, Italia 2018
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Hill House

di Gian Giacomo Petrone
Hill House - serie tv Netflix Flanagan

In principio fu Robert Wise, con una delle massime espressioni del cinema gotico di ogni tempo, Gli invasati, a realizzare un notevole tributo cinematografico al romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, a sua volta fra i caposaldi novecenteschi delle storie di fantasmi. Dopo l’indegno remake del film di Wise  firmato da De Bont nel 1999 (parimenti indegno come adattamento del romanzo della Jackson, ça va sans dire), l’onere e l’onore di mettere in immagini le umbratili atmosfere evocate dalla scrittrice californiana toccano oggi a uno dei più quotati fra i giovani registi horror, lo statunitense Mike Flanagan.

Il progetto Hill House è targato Netflix e concepito come una serie in dieci puntate, quindi, per sua stessa natura, costretto all’eccedenza – di durata e di fruizione – rispetto ai normali standard cinematografici (sempre meno “normali”, a dire il vero, nell’universo multimediale che marca la contemporaneità). La sfida, per Flanagan, si dimostra quindi decisamente ambiziosa. Il regista americano, anziché azzardare un ulteriore adattamento del materiale di partenza, oltretutto tenendo presenti l’abuso e la consunzione del filone narrativo della ghost story classica al cinema, decide intelligentemente di rielaborare tale materiale riplasmandolo da cima a fondo. Flanagan infatti sceglie di rendere i protagonisti della vicenda come parte di un'unica famiglia di sette membri, due genitori, tre figlie e due figli (nel romanzo, i personaggi principali sono quattro e non sono parenti), la famiglia Crain; inoltre, il gruppo non risiederà a Hill House con l’obiettivo di studiare il paranormale, come nel romanzo, bensì per restaurare la magione e poi rivenderla; da ultimo, la vicenda viene spostata a cavallo fra l’inizio degli anni ‘90 e i giorni nostri.

Lo spirito che anima il progetto di Flanagan è proiettato nel tessere un dialogo costante fra la normalità del familiare e il perturbante del soprannaturale, fra la percezione ordinaria e l’allucinazione, fra il passato e il presente, fra la vita e la morte, con entrambi i poli di ciascuna diade a costituire le cause della deriva individuale. L’obiettivo ultimo è che l’orrore e la tragedia esistenziale si supportino a vicenda, senza che l’uno ceda il passo all’altra o viceversa. Non si tratta di un distacco totale dall’opera letteraria di partenza, perlomeno nel ricorso ad alcuni temi, e tuttavia è chiara la volontà di creare qualcosa di radicalmente autonomo rispetto ad essa.

Di fatto, Flanagan non fa altro che proseguire il suo percorso registico adattando il proprio stile e i propri temi prediletti a un formato-fiume e, per avere il maggiore controllo possibile sull’opera, si avvale abbondantemente di attori con cui ha già lavorato: da Carla Gugino (la mater familias Olivia Crain), protagonista della trasposizione de Il gioco di Gerald di King, a Henry Thomas (il capofamiglia Hugh Crain da giovane) presente sia in Ouija – L’origine del male sia ne Il gioco di Gerald; da Elizabeth Reaser (Shirley Crain da adulta), protagonista in Ouija, a Kate Siegel (Theodora Crain da adulta), sul set in ben quattro film del regista. Il lavoro sugli attori è senz’altro uno dei punti di forza di un’opera che richiede sovente dei veri e propri tour de force recitativi, interpretativi, espressivi: infatti, non di rado Flanagan ricorre a mirabolanti e virtuosistici long takes, sia producendo efficaci slittamenti – internamente all’inquadratura – della scala dei piani in funzione drammaturgica, sia esaltando l’architettura del set, costruito in modo tale da far risaltare l’incombere della tetra dimora-corpo e da far entrare e uscire i personaggi (durante alcuni snodi narrativi cruciali, specie nella seconda parte della serie), senza stacchi di montaggio e senza soluzione di continuità, da un ambiente all’altro e soprattutto da un’epoca all’altra. Il dialogo fra temporalità diverse è, in un apparente paradosso, causa e riverbero insieme dell’intrecciarsi di sogni, ricordi, allucinazioni, rimorsi, mentre i fantasmi che infestano Hill House si confondono con le paure e le idiosincrasie personali dei protagonisti, fino alla soglia dell’indiscernibilità fra tare personali e malefiche influenze esterne.

Forte di una buona sceneggiatura, sia pure con qualche evitabile orpello, e di una meticolosità certosina in dialoghi e monologhi di grande impatto, potendosi inoltre avvalere di una confezione di prim’ordine – rimarchevole il lavoro a livello scenografico (Patricio Farrell) e fotografico (Michael Fimognari) – e di una regia incisiva e barocca a un tempo, Hill House si configura in definitiva come un  riuscito aggiornamento del filone delle case infestate e maledette, innervato da una cospicua dose di family drama, che moltiplica il pathos anziché annacquarlo. Certo, a tratti la regia appare un po’ troppo compiaciuta, in alcuni casi ai limiti dell’autoreferenzialità, e il proliferare di molteplici sotto-trame, sia pure giustificato dalla necessità di conferire l’opportuna profondità a ciascun personaggio, talora indebolisce la tenuta complessiva del racconto, ma la passione che si respira è spesso autentica, e non è poco.

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Mike Flanagan Michiel Huisman Carla Gugino Henry Thomas Elizabeth Reaser Kate Siegel Timothy Hutton Oliver Jackson-Cohen 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Cold Skin

di Leonardo Strano
Cold Skin - recensione film xavier gens

Assediato dalla tensione dell’horror, irrobustito dallo spirito di avventura e gonfiato da un respiro letterario avvincente, generoso nelle spunti metaforici e nelle ambizioni riflessive, Cold Skin si rivela un particolare prodotto simbiotico, un amalgama forte di una personalità tanto netta quanto variegata.
Il film di Xavier Gens nasce da una composizione inusuale di elementi molto contrastanti tra loro, che portano a una stratificazione dei molteplici livelli di lettura. Un oggetto di forme strane, scolpito da tre caratteristiche fondamentali (le sopra citate influenze di genere: horror, avventura, dimensione letteraria) cui corrispondono altrettanti percorsi tematici, diversi tra loro ma capaci di coordinarsi e di incontrarsi, mischiarsi e sovrapporsi. Il risultato offre squarci interessanti e subito dopo momenti di incompatibilità greve e involuta: nel primo caso incroci immaginifici tra le fascinazioni della narrativa d’avventura e i brividi di una letteratura dell’orrore suggestionata dalla metafisica; nel secondo un ruolo ingombrante e mal gestito di una voice over d’impianto letterario impantanata nella formulazione di metafore e poetismi.

Non è difficile perdonare al film certe ingenuità (alcune anche comiche) a fronte di buone intuizioni, come quella di incorniciare le linee tematiche dentro a metafore visive avvolgenti, stranamente vive e attraenti malgrado il forte impatto formale di una palette cromatica singola e respingente (l’azzurro acciaio). Sono numerosi inoltre i momenti in cui la narrazione interrompe il ritmo sostenuto del film d’avventura, negando le normali regole di movimento del genere, attraverso il raccoglimento in posizioni statiche, quasi di riflessione esistenziale sulla propria natura contraddittoria. Come sono frequenti i momenti in cui, proprio grazie a questo fermarsi, le tematiche chiuse nella morsa delle regole del genere vanno a fuoco senza didascalismi inutili, brillando con decisione al centro dello schermo e oscurando gli inciampi, valorizzando così la forza dei messaggi e la potenza di una narrativa spesa in favore della riflessione.

Il film, tratto dal romanzo omonimo scritto da Albert Sánchez Piñol, vanta più elementi positivi che negativi e gode di un bilancio che a posteriori si livella sul buono, ottenuto da una storia a suo modo appassionante, incentrata sulla diversità, sulla natura dell’uomo, sul potere della comprensione e sulla labilità dell’identità di fronte ai misteri della natura. Sono i contenuti chiusi a guscio nella profondità infatti a rendere Cold Skin qualcosa che vuole essere un passo avanti all’intrattenimento convenzionale, qualcosa in grado di raggiungere lo spettro ampio della narrativa di genere intelligente, qualcosa capace di prendere in ostaggio l’attenzione e intanto solleticare il pensiero utilizzando tutti i mezzi disponibili (tra cui anche un budget di certo non generoso): con creatività a intermittenza forse, grande dose di elementi derivativi e alcune fragilità costitutive, ma anche con passione reverenziale, amore per l’artigianato effettistico e interesse nel racconto.

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Xavier Gens David Oakes Aura Garrido Ray Stevenson 108 minuti
Francia, Spagna 2017
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Hold the Dark

di Mattia Caruso
Hold the dark - recensione film saulnier

Potrebbe quasi ricordare i primi minuti di The Witch, con quel bosco incombente che pare mangiarsi, metro dopo metro, la civiltà, mentre un bambino scompare, come per magia, sotto i nostri occhi, la sequenza iniziale dell'ultima fatica di Jeremy Saulnier, esplicito trionfo di un orrore giocato, proprio come la pellicola Robert Eggers, interamente sul terreno dell'ambiguità. Ambiguo, d'altronde, lo è sin dal titolo, un film come Hold The Dark: incerto com'è se tenerla lontana, quell'oscurità, o accoglierla e portarla con sé.

Si è sempre situato tra questi due estremi, in fondo, il cinema di Saulnier, un cinema ambivalente capace di mantenersi rarefatto anche alla luce del sole, anche a dispetto di un rigore formale ed espressivo sempre forte e presente. Dopo Blue Ruin e Green Room, la terza tappa del viaggio cromatico nell'orrore quotidiano del regista statunitense non può allora che tingersi di nero, terminando un affresco sulla violenza capace di raggiungere vette di cupezza impensate persino per un autore tanto avvezzo al Male e alle sue più subdole degenerazioni.
Lontano dai sobborghi di quella provincia americana fotografata con distacco e senso del grottesco nei film precedenti, è con le distese innevate e con le foreste dell'Alaska che si confronta, questa volta, il sempre più gelido sguardo di Saulnier, tingendo di sangue, rabbia e follia l'ennesima storia di (anomala) vendetta. È qui, nello sperduto villaggio di Keelut, sorta di ultimo avamposto dell'umanità, tra lupi che rapiscono  bambini e uomini che si trasformano rapidamente in bestie, che prende piede un thriller glaciale dall'anima noir e dai risvolti orrorifici, dove la ragione muore lentamente e all'uomo non resta che aggrapparsi a un ritualismo sanguinario dal sapore ancestrale.

Partendo per la prima volta da un soggetto non originale (l'omonimo romanzo di William Giraldi, adattato per lo schermo dal sodale Macon Blair), il regista raggiunge, paradossalmente, la summa della propria poetica, il distillato di uno sguardo capace di calarsi, con fredda e spietata consapevolezza, nel cuore di tenebra dell'animo umano. Per farlo ricorre a un senso di angoscia opprimente e malsano, tra inquadrature costruite con perizia e un ritmo lento ma implacabile, dove la violenza esplode brutale e, altrettanto brutalmente, torna nell'ombra.

Pare essere fatto della stessa sostanza dei suoi luoghi, del resto, l'orrore di Hold The Dark, dalle atmosfere mortifere del deserto mediorientale (dove si consuma un breve quanto illuminante antefatto) fino all'animalità omicida delle foreste del profondo Nord, come se tutto fosse intriso dello stesso senso di fine imminente o come se, forse, la fine fosse già arrivata e niente fosse bastato a salvarci da quell'oscurità che tutto avvolge e tutto prende. Continuando quel gioco cominciato oramai un decennio fa con Murder Party, Saulnier porta avanti la sua personalissima destrutturazione di generi e immaginari, costruendo un cinema spiazzante che, a partire dalla sua stessa idea di vendetta, sovverte codici e ribalta modelli consolidati, salvo poi ritrovarli, intatti, in momenti che esplodono con tutta la forza di una rivelazione.
Non è un caso che sia allora proprio una sparatoria, con le sue dinamiche spietate e la sua geometria rigorosa, il fulcro stesso del film, un nucleo spettacolare di morte e distruzione attorno a cui ruota, silenzioso, un dramma antropologico popolato da individui apatici (un gelido Alexander Skarsgård) e totalmente smarriti (un Jeffrey Wright perfetto per il ruolo), dove nemmeno l'umorismo nerissimo del regista riesce più a trovare posto, annullato com'è da un mondo in cui regole, valori e morale non hanno più senso e la violenza, al di là di qualsiasi previsione o aspettativa, sembra l'unica realtà possibile.

Respingente, disperato, intriso di un'accettazione della morte quasi ascetica, Hold The Dark è un prodotto dal fascino perturbante, indifferente e sanguinario come gli spazi e i rituali che mette in scena, disorientato e privo di risposte come l'umanità che lo abita. Un film la cui visione, piaccia o meno, non può non lasciare indifferenti, attratti e respinti a un tempo da quel Male assurdo e tremendamente ambiguo.

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Jeremy Saulnier Jeffrey Wright Alexander Skarsgård Riley Keough James Badge Dale 125 minuti
USA 2018
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Disobedience

di Domenico Saracino
disobedience - recensione film sebastian lelio

Se obbedire è ciecamente assecondare la volontà altrui, subire le scelte piuttosto che agirle, recintandosi al di qua delle aspettative degli altri e mai al di là, disobbedire è un coraggioso atto di autodeterminazione, la massima espressione del libero arbitrio che Dio stesso ci ha concesso per distinguerci dalle bestie. Nell’indipendenza che ogni atto di disobbedienza porta con sé, l’uomo trova così la sua libertà ma anche il suo fardello. È questo il tema – il libero arbitrio come munifico e doloroso dono divino, attorno al quale l’uomo ordisce l’intrico della sua esistenza – del sermone che apre Disobedience, primo film hollywoodiano di Sebastián Lelio, regista cileno tra i più affermati e membro della factory del connazionale Pablo Larraín (già produttore del suo precedente lavoro, Una donna fantastica, opera acclamata e premiata con l’Oscar al miglior film straniero).

Questo inizio didattico assume sin da subito uno statuto speciale, sia per la posizione strategica in capo alla narrazione, sia per quella solennità propria da monito testamentario di cui viene rivestito. L’orazione infatti si rivela essere l’ultima compiuta da Rav Krushka, il rabbino capo di una piccola comunità londinese di ebrei ortodossi che stroncato improvvisamente da un malore sotto gli occhi impotenti dei fedeli cui si rivolge – e, specialmente, del giovane Dovid Kuperman (Alessandro Nivola), figlio spirituale del Rav e suo aspirante successore.
La disobbedienza cui fanno riferimento l’ultima predica del rabbino e il titolo stesso dell’opera è ciò che ha permesso a Ronit Krushka (Rachel Weisz, anche produttrice del film), fotografa omosessuale, di sfuggire agli egoistici desiderata paterni e alle ottuse aspettative della congregazione per vivere la propria vita a New York in una sorta di ostracismo tanto volontario quanto necessario. L’obbedienza invece è ciò che ha tenuta incatenata Esti (Rachel McAdams), sua amata, alla comunità di origine e al ruolo che da lei ci si attendeva. Quello di una donna dall’esistenza esclusivamente votata all’esaudimento del volere altrui, dell'Onnipotente, dei rabbini, del marito sposato (che in questo caso è proprio Dovid, con cui entrambe, sia Esti che Ronit, sono cresciute).

Sono donne oppresse, Esti e Ronit, come Naomi Alderman, autrice del libro omonimo da cui è tratto il film di Lelio, o Esty Weinstein, scrittrice cresciuta in una comunità Haredim (una forma di ebraismo ultraortodosso) e artefice di un libro-testamento intitolato esattamente Esaudisco il suo volere, lasciato alle stampe poco prima di togliersi la vita. Donne costrette a sfornare figli per formare le famiglie numerose prescritte dalla Torah, a sedersi in separata sede nelle sinagoghe (a dividerle dagli uomini è il mechitza, un separatorio già previsto dal Talmud babilonese), a sottrarsi dal contatto con il sesso opposto e al contempo ad assolvere doveri sessuali rigidamente programmati. Costrette, insomma, ad essere completamente subordinate agli uomini.

Lelio restituisce questo senso di oppressione filmando la claustrofobia delle case e lavorando sapientemente sulla mimica e sui corpi, prima di lasciare esplodere la passione amorosa, riaccesasi tra le due donne al rientro di Ronit a Londra per i funerali del padre, tra i vicoli che si snodano, ricchi di euforica sensualità, fuori dal quartiere ebraico. Lasciando spazio al godimento dell’amplesso senza morbosità né voyeurismi tipici del male gaze.
Se in Una donna fantastica è il trans Marina ad assumere il fardello della libertà e della lotta per il riconoscimento della propria identità, anche sessuale, in Disobedience è Ronit a portare avanti con più decisione l’istanza di emancipazione. Eppure non c’è condanna né giudizio nella costruzione filmica del regista cileno: Lelio fa di Dovid un personaggio complesso e sfaccettato, capace di una reale evoluzione che rende la sua fede più saggia e vera, mentre Ronit è una moderna Antigone pronta a sfidare le assurde costrizioni della legge, senza violenza ma con la semplice volontà di assecondare la propria natura e di vivere il proprio amore. Perché in un mondo che fa dell’obbedienza al potere una condizione necessaria al mantenimento dello status quo, la disobbedienza, da Prometeo a Siddharta, da Ghandi a don Lorenzo Milani, non è che uno splendido atto d’amore.

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Sebastián Lelio Rachel Weisz Rachel McAdams Alessandro Nivola 114 minuti
USA, Regno Unito, Irlanda 2017
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Searching

di Samuel Antichi
Searching - recensione film

Il genere horror ha sempre avuto una particolare affiliazione con la tecnologia, a partire da un racconto gotico come Frankenstein fino al cinema, dalla tecnofobia che caratterizza film come Videodrome e Tetsuo, ai futuri distopici in cui macchine intelligenti prendono il controllo dell’individuo o in cui virus e spiriti si diffondono tramite il web come in Kairo, specchio del connective turn della società contemporanea. Le nuove tecnologie inoltre hanno anche saputo riconfigurare stilisticamente ed esteticamente il cinema horror, dal found footage di The Blair Witch Project alle macchine digitali che catturano e rappresentato figure fantasmatiche, demoniache e oscure presenze come in Paranormal Activity. Ultima frontiera e innovazione del social media horror risulta essere il filone definito dello screencast cinema, dove per screencast si intende la registrazione diretta del segnale video emesso su uno schermo. L’inquadratura combacia con il monitor dell’utente.

Film come The Den di Zachary Donohue, The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger (il segmento diretto da Joe Swanberg per l’antologia V/H/S), Open Windows di Nachi Vigalondo, Unfriended di Levan Gabriadze (così come il recente seguito UnfriendedDark Web) si servono della narrazione attraverso screencast. Tuttavia, oltre ad essere una tecnica di racconto che senza ombra di dubbio consiste in una riflessione sui modelli e le pratiche di interazione con i social media, da Facebook a Instagram da Snapchat a Skype, lo screencast cinema può aprire nuove strade, dato lo spettro limitato e fisso dello sguardo e dell’occhio della macchina da presa, di interrelazione dialettica tra campo e fuori campo. I jumpscares di un film come Unfriended sono prevalentemente realizzati attraverso il celamento, o l’improvviso svelamento come nel finale del film, di un fuori campo attivo. Lo spettatore si domanda che cosa stia succedendo oltre lo schermo del laptop specialmente in risposta alle reazioni dei personaggi che vengono visti attraverso l’occhio della webcam.

Searching, opera prima del regista americano di origine indiana Aneesh Chaganty presentato in anteprima al Sundance Film Festival, adotta questa estetica e lo screencast come modello narrativo, eliminando, ad ogni modo, elementi propriamente horror o paranormali per mettere in scena una detection di stampo classico.
David Kim (John Cho) è un padre amorevole, forse fin troppo apprensivo verso la figlia Margot, specialmente da quando ha perso la moglie a seguito di un cancro, e sente di aver assunto maggiori responsabilità nei confronti della ragazza. All’improvviso Margot sembra scomparire nel nulla, non risponde ai messaggi e alle video chiamate del padre. Inizia così la ricerca dell’uomo che cercherà indizi andando ad esaminare le tracce lasciate dalla figlia sul proprio computer, una memoria esterna digitale fatta di contatti, foto, video e cronologia web. Il film inoltre mostra come l’utente, in maniera intenzionale e non, lasci elementi e informazioni proprie che possono essere manipolate e strumentalizzate. Enigmi disseminati tra le cartelle del pc. Ogni folder sul desktop potrebbe contenere una potenziale rilevazione o colpo di scena dal momento che il padre scopre di non conoscere affatto la vita privata della figlia. Sullo schermo del computer si alternano video dirette in streaming, video chiamate, immagini dei social media. Personaggi e luoghi non sono collegati attraverso i tagli del montaggio in maniera lineare e consequenziale ma coabitano l’inquadratura o lo schermo.


Attraverso lo spatial montage, termine proposto da Lev Manovich facendo riferimento anche al suo stesso lavoro Little Movies, ogni immagine, differente per dimensione e proporzione, non è giustapposta con quella che la precede o la segue ma sono tutte presenti sullo schermo. Sarà lo spettatore a decidere su quale elemento concentrare la propria attenzione nel momento in cui all’interno dell’inquadratura sono presenti immagini poste sullo stesso piano, video di youtube, conversazioni facebook e altro ancora. Con una nuova forma di montaggio proibito, che gestisce il tempo attraverso lo spazio del monitor e ridistribuisce più immagini sullo schermo, Searching, così come gli altri esempi citati di screencast cinema, riflette in maniera esplicita sulle differenti modalità di fruizione del testo filmico nell’era postmediale. Del resto il fatto che lo schermo della sala cinematografica possa corrispondere a quella di un monitor del computer è un chiaro riferimento al regime scopico con cui ha maggior familiarità lo spettatore/ utente contemporaneo.

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Aneesh Chaganty John Cho Debra Messing Joseph Lee Michelle La 101 minuti
USA 2018
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Il codice del babbuino

di Riccardo Bellini
Il codice del babbuino - recensione film

«Non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraverso la città» scrisse enrico ghezzi. Il duo composto da Davide Alfonsi e Denis Malagnino è senz’altro di questa specie, due marziani iconoclasti che il cinema lo farebbero anche solo con gli specchietti di una vecchia Citroën Saxo, a qualsiasi costo o per meglio dire anche a costo (quasi) zero. Il codice del babbuino, l’ultimo lavoro dei due registi e sceneggiatori, tra i fondatori nel 2004 del sorprendente Collettivo Amanda Flor – oggi trasformatosi nella società Donkey’s Movie – non smentisce le aspettative di un cinema senza compromessi, eroicamente distante da qualsiasi moda e animato unicamente dalla voglia di raccontare un’umanità autentica e dolente.

Il codice del babbuino è ispirato a uno stupro realmente avvenuto a Guidonia, comune romano in cui vivono Alfonsi e Malagnino, e alle conseguenti tensioni incendiarie che sono sorte nella comunità locale. Da questo clima in cui, dice Alfonsi, «regna l’idea che si possa privatizzare la giustizia» il film prende l’avvio raccontando la storia di Tiberio, il quale, dopo aver scoperto che la propria ragazza è stata violentata nei pressi di un campo rom, salta subito alle conclusioni e decide di farsi giustizia da sé. L’amico Denis (interpretato da Malagnino stesso), padre e marito indebitato fino al collo tanto da essere costretto a spacciare droga per mantenere la famiglia, lo dissuade e i due iniziano un’infernale odissea notturna sulle tracce dei responsabili. L’incontro con il Tibetano, bizzarro boss del quartiere, ribalta gli equilibri all’interno della coppia, portando la situazione alla deriva.

Macchina a mano, attori non professionisti, suono in presa diretta senza troppa cura per il missaggio, illuminazione ridotta al minimo, piani talmente stretti da imprigionare i volti, e la brutale campagna dell’estrema periferia romana come unica, eterna ambientazione che inghiotte i due protagonisti tra i suoi abissi. Il cinema dei registi guidoniani è un cinema nudo e crudo come quel mondo da cui si lascia permeare, in una nuova preistoria ripresa questa volta di notte e per lo più in auto. Una notte che corrode e corrompe, dipanando una storia di deformazione al cui centro la partita per accaparrarsi l’anima di Tiberio, diviso tra i consigli del saggio Denis e le tentazioni del mefistofelico Tibetano. Scartata l’ipotesi di una redenzione, tutti vengono trascinati in un torrente di precarietà e istinti primari che non risparmia nessuno, mentre del sacrificio resta solo il peso delle sue conseguenze da trascinarsi fino alla fine dei giorni, come un auto in panne.

Siamo di fronte un esempio di cinema acuto, moralmente vitale ed energico – nonché dalla lapidaria ironia – in quanto capace di omaggiare e mettere in moto, rimasticandolo per sputarlo con veemenza, tutto un immaginario cinematografico, posto come termine di paragone per uno scarto significativo verso la realtà rappresentata. Il Tibetano si confronta con i suoi modelli, cita il Tony Montana di Scarface (nel corso di una diatriba per decidere se attribuire la paternità del film a Scorsese o a De Palma) e vi si riconosce compiaciuto, senza riconoscere al contrario il gap incolmabile tra la squallida quotidianità di cui fa parte e i sogni di gloria – almeno secondo la sua visione – di quella criminalità rappresentata sullo schermo. Modelli che non a caso finiscono con l’equivalersi in un processo indifferenziante – Scorsese e De Palma diventano la stessa cosa – messo in moto da una bulimia anestetizzata che riconduce il cinema, come fanno del resto sacrosantamente gli ex Amanda Flor, alla materia escrementizia (si veda, tanto per fare uno degli esempi più estremi, la loro web serie The Marduk’s). Del resto, per vantare la sua cultura cinematografica, il Tibetano afferma «….io quando vado al cesso leggo sempre il Mereghetti».  

Il codice del babbuino trasuda anche in questo tutta la gran voglia di fare cinema di Alfonsi e Malagnino, i quali hanno dimostrato per l’ennesima volta di saper tradurre la scarsità dei mezzi in un sinonimo di libertà creativa.

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Davide Alfonsi Denis Malagnino Denis Malagnino Tiberio Suma Stefano Miconi Proietti 81 minuti
Italia 2018
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Tetsuo: The Bullet Man

di Alessandro Gaudiano
Tetsuo 3 - the bullet man - recensione film tsukamoto

A quasi vent’anni dal primo Tetsuo, il terzo capitolo della trilogia dell’Uomo di Ferro approda al lido di Venezia nel 2009. Molte cose sono cambiate: Shin’ya Tsukamoto è ormai riconosciuto come un autore di primissimo piano dalla cinefilia e critica internazionale, come dimostra la presenza in concorso alla Mostra del Cinema, mentre il cinema digitale ha cambiato le regole del gioco e reso più accessibile la realizzazione di opere “leggere” e autoprodotte come fu il capitolo del 1989 (girato in 16 millimetri). Tetsuo: The Bullet Man è il prodotto di tutti questi cambiamenti: una riflessione sul passato, un punto fermo su una storia ancora attuale e conturbante, una mediazione tra epoca analogica e digitale.

Il cuore di The Bullet Man è sempre la trasformazione/evoluzione del corpo, il dolore di una mutazione ineluttabile. Ad agitare la carne in nuove geometrie metalliche è, ancora una volta, la rabbia, scaturita dalla morte di un figlio come in The Body Hammer. E, di nuovo, l’unico esito possibile del superamento del corpo è la rottura dei confini dell’identità corporea: la fusione tra il protagonista e l’antagonista che, per la prima volta, non ha esiti apocalittici.

The Bullet Man è una variazione sul tema di Tetsuo: parlare di sequel, o di reboot, rischia di semplificare un dialogo tra queste tre opere che ha una natura più emotiva e stilistica che narrativa. I richiami formali e le esplosioni percettive richiamano, quasi inglobandoli, i due capitoli precedenti. Ancora una volta, Tsukamoto non esita a mettere in scena sequenze dalla grafia rapidissima, fatta di camere a mano e teleobiettivi che danzano come dervisci attorno alla carne dei personaggi. In particolare, la sequenza della prima trasformazione, con il titolo del film in sovraimpressione, è da antologia. Tuttavia, queste esplosioni formali sono più rare del solito, mentre uno spazio maggiore viene dato alla costruzione di un racconto filmico più tradizionale, fatto di complotti ed esperimenti militari segreti. Gli effetti speciali sono stati aggiornati rispetto agli anni Novanta, ma restano di fattura gustosamente analogica, artigianale. Il risultato è un simbionte di difficile descrizione, un film giapponese che gioca ad essere americano; Tsukamoto aveva in progetto, dopo The Body Hammer, di girare un film della saga negli Stati Uniti, e The Bullet Man è qualcosa che ci si avvicina molto.

Questa natura ibrida attraversa tutto il film, nei contenuti e nelle forme. Anthony è americano, mentre sua moglie è giapponese. Metà uomo e metà macchina, è destinato a confliggere con la sua nemesi (nuova incarnazione del feticista del metallo, interpretata, ancora una volta, da Tsukamoto stesso) e ad inglobarla nel proprio corpo. Narrativo ed astratto sono accostati, quasi in conflitto tra loro, e la narrazione procede con un ritmo volutamente irregolare. Se c’è una parola chiave che può definire l’intera operazione, questa è “sintesi”. Sintesi per tentativi, a volte reale, a volte illusoria: un ventaglio di tesi e antitesi, estrusioni e intrusioni, analogico e digitale, che procede per penetrazioni, impatti, traumi. Un incubo a occhi sbarrati che, a differenza dei primi due titoli della saga, sembra concludersi con un risveglio: il mutante e il feticista non si uniscono per diventare una macchina di morte o gli unici sopravvissuti di un’apocalisse, ma resistono – semi di ribellione in un mondo conforme – all’interno della metropoli popolata di colletti bianchi e anime perdute. Se non un’utopia, quasi un lieto fine.

The Bullet Man manca della furia iconoclasta dei primi due episodi di Tetsuo ed è appesantito da una trama non necessaria, ma la potenza delle sue immagini resta indiscutibile. Il dolore della perdita e la ricerca di un’impossibile sintesi sembrano permeare ogni singola inquadratura e farsi qualcos’altro: una esplorazione dell’indicibile e dell’incubo, ricerca necessaria per riemergere dall’oscurità della sala e ritrovare la magia sciamanica del cinema.

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Shin'ya Tsukamoto Eric Bossick Shin'ya Tsukamoto 79 minuti
Giappone 2009
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Overlord

di Matteo Marescalco
Overlord - recensione film abrams avery

A proposito del suo Cloverfield Universe, J.J. Abrams ha parlato di un gigantesco parco giochi in cui ogni film corrisponde ad un'attrazione tematicamente collegata alle altre; un progetto trasversale, del quale in molti hanno pensato facesse parte anche Overlord, ennesimo titolo sviluppato sotto mentite spoglie. In particolare si pensava ad un quarto capitolo che mostrasse le origini dell’esperimento causa di tutti i mali seguenti, e in effetti – per chi avesse letto la sinossi del film e fosse in attesa della sua anteprima al Fantastic Fest di Austin – si comprende quanto questi dubbi fossero assolutamente dotati di fondamento.

È la vigilia dello sbarco in Normandia. Un contingente di soldati sta per arrivare in Francia per via aerea. Il gruppo di paracadutisti americani deve abbattere una torre di controllo e favorire la buona riuscita del D-day. L'aereo su cui viaggiano, però, viene colpito dal fuoco dei mitragliatori nemici e i soldati si ritrovano catapultati nel bel mezzo di uno strano villaggio francese occupato dai nazisti. Ben presto e grazie al sostegno di una ragazza indigena, il gruppo si accorge che il sottosuolo del villaggio nasconde un terribile segreto. Gli scienziati nazisti, infatti, hanno costruito una fitta trama di laboratori per testare un siero che trasforma gli uomini in zombie e dar vita, in questo modo, ad un esercito immortale. E lo spazio domestico del villaggio, in tal modo, viene invaso non solo dai nazisti ma anche dai morti viventi.

Anche Overlord non è sfuggito alla coltre di mistero che caratterizza ogni progetto di J.J. Abrams, mago del marketing e delle tecniche di depistaggio utilizzate per stuzzicare gli spettatori da molto tempo prima dell'uscita del film nelle sale. Questa folle commistione tra war movie, buddy film e horror è quanto di più lontano possa esserci da un saggio teorico come Cloverfield. Anzi, l'assunto su cui poggia lo spin-off della saga, 10 Cloverfield Lane, viene completamente ribaltato. Tanto là l'apocalisse era già avvenuta ed era relegata al fuori campo, quanto in Overlord si spinge l'acceleratore sul gore estremo e sullo splatter gettato in faccia allo spettatore. Nel film diretto da Julius Avery, i soldati si muovono come indagatori dell'incubo, alla ricerca dei germi che hanno intaccato e ridotto alla morte i corpi delle cavie umane. Come la New York di Cloverfield, sul cui tessuto da b-movie si era innestato il gigantesco mostro invisibile degli effetti speciali da blockbuster, anche la “povertà” del body horror a basso budget, in Overlord, subisce una sorta di evoluzione.

Il nazi-zombie movie è costruito su una drammaturgia da manuale che parte con lentezza e va incontro ad una clamorosa progressione che conduce verso un secondo atto dinamitardo e canzonatorio. Anche l'ottica del videogame viene inglobata da questo prodotto fresco ed inventivo che riesce a caratterizzare ogni singolo personaggio che anima il suo mosaico. Avery dirige un blockbuster rigorosamente travestito da b-movie a cui, probabilmente, la distribuzione italiana (20th Century Fox) non ha creduto più di tanto. Overlord è una produzione mainstream originale e particolarmente attenta ai gusti del proprio spettatore tipo, cui viene dato in pasto un divertimento sveglio e mai omologato al resto della produzione di massa. Un divertissment del genere è una bizzarria che provoca risate e orrore viscerale, una vera boccata d'ossigeno che ha il coraggio scriteriato di rileggere la storia con toni da screwball comedy e che dimostra di conoscere e di sapere gestire con ottimi risultati l'eterogeneo materiale che maneggia.

 

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Julius Avery Jovan Adepo Wyatt Russell Jacob Anderson 110 minuti
USA 2018
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