Troppa grazia

di Riccardo Bellini
Troppa grazia - recensione film zanasi

Con Troppa grazia - presentato quest'anno al Festival di Cannes come film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs - torna il cinema di Gianni Zanasi e la sua umanità instabile, irrisolta, fragile e bizzarra, sospesa tra i propri fallimenti esistenziali e quelli di un’Italia in mano ad affaristi meschini e loschi imprenditori, un’Italia in cui, come dice il sindaco Paolo (Giuseppe Battiston), è difficile puntare il dito contro qualcuno perché, stando alla legge, tutti bene o male siamo corrotti.
Torna Zanasi e tornano le sue storie sui generis, attraverso cui filtrare le ben note miserie morali del Belpaese, preservando al tempo stesso l’unicità di uno sguardo personale. Uno sguardo che questa volta adotta il registro del fantastico per raccontare la storia di Lucia (Alba Rohrwacher), geometra specializzata in rilevamenti catastali nonché madre single, idealista ma dalla vita caotica, scelta dal sindaco senza scrupoli per un progetto edilizio che potrà giovare alle casse del comune. Lucia scopre che i rilevamenti condotti sul terreno del cantiere segnalano un’imprecisata anomalia, ma viene infine convinta dalla paura di perdere il lavoro a non dire nulla. Un giorno, durante un rilevamento, le appare la Madonna in persona, che prima la invita e poi la costringe (con la forza!) a boicottare i progetti del sindaco, con il proposito di edificare una chiesa sullo stesso luogo.

Con la sua folle sceneggiatura - scritta a otto mani insieme a Federica Pontremoli, Giacomo Ciarrapico e Michele Pellegrini - Zanasi ci ricorda che di fronte al dilagare dell’indifferenza generale prendere posizione è un atto non solo doveroso ma decisivo, che deve necessariamente passare attraverso un momento di rottura di cui purtroppo siamo sempre meno capaci. Santi e madonne (ergo quel poco di bene che rimane della nostra coscienza) non sono qui a pregarci gentilmente ma hanno il compito di prenderci a schiaffi e di tirarci per i capelli finché non li ascoltiamo. Non esiste possibilità di cambiamento senza traumi. Troppa grazia parte così dal mero pretesto del culto mariano per intessere una storia di assoluto laicismo sull’Italia del nostro presente, e parlarci di una spiritualità che non ha nulla di teologico né di dogmatico, la spiritualità di chi riesce a ritrovare se stesso negli altri e nel rapporto con le piccole-grandi cose del mondo. Il film ripone la sue speranze nell’immaginazione salvifica dell’infanzia, in cui si crede ancora ai mostri e alle favole - come facevano un tempo Lucia e l’ex compagno Arturo (Elio Germano) - piuttosto che nella religione come riscatto. Ed è questo il pregio di un’opera che al tempo stesso sfrutta e ribalta, asseconda e rilegge sotto una luce diversa quei presupposti di partenza ancorati al nostro retroterra culturale, con il consueto sguardo leggero ma non per questo disimpegnato.

La fotografia stessa, molto esposta e dai colori saturi, si tinge di una sognante leggerezza da riscoprire come arma di attacco, più che di difesa, contro le brutture del mondo. Peccato invece per il mancato approfondimento del sindaco Paolo, non il solito faccendiere abituato a cadere sempre in piedi bensì un penoso piccolo arrivista non immune dal fallimento, al quale però la sceneggiatura non riesce a fare del tutto onore, lasciandolo troppo sullo sfondo. Troppa grazia, già vincitore a Cannes del premio Label di Europa Cinémas, segna un ritorno sentito e vitale da parte di Zanasi, che riconferma così il proprio piglio autoriale, trovando al tempo stesso nuove declinazioni per il suo cinema.

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Gianni Zanasi Alba Rohrwacher Elio Germano Giuseppe Battiston Valerio Mastandrea Hadas Yaron 110 minuti
Italia, Spagna, Grecia 2018
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Homo Botanicus

di Samuele Sestieri
homo botanicus

Una lettera d’amore, un diario sentimentale, un viaggio naturalista nei meandri della foresta amazzonica colombiana: Guillermo Quintero realizza una preziosa opera di esplorazione, un film d’avventura  che assume le forme di un atlante sentimentale, di una mappa di passioni, amori e incontri fuori dal tempo. 

Il regista colombiano, spinto da un afflato simil-herzoghiano, segue il botanico Julio Betancur e il giovane allievo Cristian Castro nella natura vigorosa della foresta tropicale. Con pudico affetto, inquadra il loro rapporto: la passione peregrina e la generosa dedizione di Julio, lo sguardo fedele ed ingenuo di Christian, il loro raccontarsi nel corso del tempo e dello spazio tra orchidee, fiumi e fiori. Il film, prima ancora di perdersi nel verde della foresta, indaga gli sguardi dei due uomini, legge l’entusiasmo e la luce nei loro occhi alla scoperta di ogni nuova specie vegetale. Per questi due moderni avventurieri le piante sono come persone care a cui tornare ogni volta o, al contrario, nuovi amici da conoscere e da scoprire. Homo Botanicus vive nel sogno di un’unione totale tra gli uomini e la foresta, nell’armonia che dà voce ai discorsi amorosi dei due esploratori.

Julio e Cristian si muovono tra le piante amiche, classificano le specie, danno nome alle cose. Schedare, catalogare, nomenclare, distinguere qui significa intraprendere un discorso, trovare una nuova forma di linguaggio e di comunicazione: conoscersi e dunque amarsi, nient’altro che questo. Perché anche se tutta la foresta scompare, giorno dopo giorno, la sua storia e quella di chi l’ha scoperta rimangono impresse in questa relazione. Tra il botanico e la pianta si crea una simbiosi, un campo-controcampo che li rende un’unica essenza. Raccontare la storia delle piante significa raccontare la propria storia: Homo Botanicus, per l’appunto. “Una pianta” dice Betancur “è un poema in una lingua sconosciuta”.

Quintero interpreta questo poema, tra camminate, visioni caleidoscopiche, immagini d'archivio e campi lunghi che svelano paesaggi estatici. Scopre il cinema più antico del mondo perdendosi fra le orchidee, trova tra rami, piante e alberi le radici di ogni storia d’amore. In fondo questo piccolo, splendido film non inscena altro che il più atavico dei gesti, quello sentimentale. Un’infatuazione forse non corrisposta, perché le piante non rispondono con la stessa voce degli uomini. Ma Julio è come l’innamorato-semiologo che interpreta i segni, legge la storia delle sue innamorate, le salva – le preleva – dal loro tempo. Il botanico diventa allora un cartografo, l’inventore del grande libro con cui raccontare nuovi viaggi sentimentali, dalla foresta all’Erbario dell'Università della Colombia dove, da qualche parte, esistono storie ancora non scritte: quelle di tutte le specie mai classificate, delle piante sconosciute, delle storie d’amore che ancora non conosciamo. Migliaia di specie, migliaia di narrazioni, ma l’ignoto rimane sempre davanti a noi.

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Guillermo Quintero 88 minuti
Colombia, Francia 2018
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Red Zone - 22 miglia di fuoco

di Marco Compiani
Red-Zone-22-Miglia-di-fuoco - recensione film berg walhberg

You know nothing
James Silva

Peter Berg è uno degli autori più interessanti del panorama americano.
Senza tirare in ballo l’ambigua definizione di “blockbuster d’autore”, che sembra quasi chiedere scusa nel dover legittimare la propria natura commerciale, il cinema di Berg ha la lucida capacità di utilizzare i generi cosiddetti di serie b per indagare l’epica contemporanea del suo Paese. Pensiamo agli ultimi tre film prima di Red Zone - 22 miglia di fuoco: Lone Survivor, Deepwater - Inferno sull'oceano e Boston - Caccia all'uomo prendono tutti spunto da tragedie reali che hanno segnato l’immaginario del popolo americano, seguendo però una costruzione che predilige il genere action come motore trainante della narrazione. Come a dirci che la retorica della finzione, pur prendendo spunto da una ricostruzione dei fatti a cui il regista cerca di essere fedele (senza comunque rinunciare a iperboli retoriche), è l’unico modo per cauterizzare quel senso di fragilità, di insicurezza e di vulnerabilità, figli del post 9/11. Questa minaccia dà presto spazio a una situazione di crisi costante da survival movie, nella quale l’individuo viene responsabilizzato da un  forte senso comunitario che si fa collante di tutta la Nazione. Proliferano i punti di vista, la tecnologia può apparentemente monitorare tutto fino a decifrare il Male più nascosto, ma, a conti fatti, l’ultimo passo spetta all’umanesimo eroico esercitato dal singolo.

Pur non prendendo spunto da fatti realmente accaduti, Red Zone è l’ulteriore tassello di questa filmografia.
La rabbia e la nevrosi controllante che caratterizzano il protagonista – nuovamente interpretato da Mark Wahlberg, vero e proprio feticcio del regista – invadono fisicamente il film, ne dettano il ritmo in modo compulsivo.
Nella convinzione che svuotarsi delle emozioni ed evitare ogni contatto con il privato sia l’unica strategia di sopravvivenza nelle missioni operative, Silva fa un passo falso, perde di vista il lato umano, ostentando una sicurezza nel sistema che miete vittime a loro volta pericolose, fatali. Da qui ritroveremo il protagonista, nelle frequenti sequenze in flashforward, afflitto dal dubbio, la sua ricostruzione del Passato (da leggere proprio con la lettera maiuscola) è permeata da più di un interrogativo. Certo, Red Zone è anzitutto un thriller dal ritmo serrato e molto godibile, ma la riflessione storica e la messa in discussione delle proprie scelte, da parte poi di un Paese che ha definito la propria identità soprattutto attraverso la politica estera, sono un segno nitido delle rivisitazioni morali tipiche del presente. Ecco perché liquidare Berg solo come regista reazionario celebratore dell’intelligence americana è una prospettiva più faziosa della stessa politicizzazione che si vorrebbe criticare. Certo, questo regista è senza dubbio un celebratore patriottico, spesso ridondante, ma la sua posizione non è da limitare a una semplice etichetta ideologica.

Tornando a riflettere sul genere, la presenza di Iko Uwais è invece l’elemento mainstream su cui buttare un occhio di riguardo. Stella in ascesa del cinema orientale, lanciato alla ribalta dal seminale The Raid (film che ha rivoluzionato la messa in scena delle arti marziali optando per un sanguinolento iperrealismo), l’attore indonesiano funziona come una vera e propria infiltrazione nel tessuto di Red Zone; un agente esterno, che penetra la matrice classica della spy story e porta inevitabilmente con sé un insieme di aspettative sulle sue abilità nell’arte marziale del pencak silat. Il ruolo funziona, con un montaggio convulso che aumenta l’isteria e la velocità dei suoi colpi letali. Ma ci troviamo comunque in una prospettiva che vede l’indonesiano essere l’uomo della caccia, supportato da una squadra della CIA che viene assediata da forze governative locali che non vogliono far uscire l’uomo dai confini territoriali.

Dal ritmo caotico ma dall’anima classica, debitore della maestria à la Mann (la sparatoria/assedio lungo la strada), con sequenze di grande tensione (l’home invasion iniziale), Red Zone – 22 miglia di fuoco è un film che fa il suo sporco lavoro, unendo l’intrattenimento a una riflessione essenziale che rende sempre più chiaro il lato psicotico e vacillante di alcuni (anti)eroi contemporanei.

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Peter Berg Mark Wahlberg Iko Uwais John Malkovich Lauren Cohan 94 minuti
USA 2018
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Un paese di Calabria

di Carmen Albergo
Un paese di Calabria di Shu Aiello e Catherine Catella

C'era una volta Riace, un Paese (quasi del tutto disabitato) di Calabria.

Qui erano custodite due preziose statue di bronzo, rinvenute dopo un naufragio di molti anni or sono. Da ogni dove giungevano visitatori di passaggio per ammirare questi autentici tesori raffiguranti la bellezza della persona umana in tutta la loro perfetta riproduzione. Finchè un giorno approdarono sulle stesse sponde dei naufraghi, profughi scampati prima alle angustie e alle miserie di terre lontane e poi alle intemperie del mare, e di nuovo Riace, come nel mito biblico, salvò dalle acque, ma questa volta uomini in carne ed ossa, autentica umanità toccatale in sorte, non per essere contemplata, ma per essere realizzata in un disegno di accoglienza diffusa, che portasse speranza di prosperità continua, sia al luogo ospitante che ai nuovi volti e alle nuove braccia ospitate in quelle case e botteghe abbandonate. E mentre il mare continuava a  sospingervi barconi d'uomini da attraccare, un crogiolo di lingue e culture si radicava alle originarie tradizioni, le mura di pietra s'impregnavano di nuove e feconde memorie. Ancor più Riace divenne meta d'interesse, "modello" di ripresa economica solidale. Nel bene e nel male, Strategia di Vita.

Come narrare  (come avrebbe narrato Calvino per esempio?) un luogo diventato invisibile, perché abbandonato da abitanti partiti in cerca di fortuna e poi di nuovo ripopolatosi perché esso stesso divenuto approdo di dignità per uomini e donne anch'essi scampati a sventure e disgrazie? Come narrare di questa utopia dell'accoglienza fatta di ospitalità in libertà e non di ostilità burocratizzata? Ovvero dell'atavica conflittualità dell'etimo "Hos", nell'ambivalente accezione di oste e straniero, chi riceve e chi dà accoglienza (...ancor più nel risvolto di accettare e gradire!) di contro al labilissimo margine di sconfinamento in "Hos-t", straniero come nemico, pregiudizio imperante? Come e quanto fantasticare sulla ri-generazione dei luoghi, nel senso letterale di bambini venuti a rianimare non tanto strade e scuole, quanto gli sguardi anziani, le menti intontite e irrigidite, svigorite dalle separazioni, gli affetti lontani e perduti, quotidianità di passi vuoti e silenti?

Di questa realtà di fatti, da quasi un decennio, s'è fatto carico un certo cinema, purtroppo coerentemente coi fatti stessi, marginale, eterogeneo rispetto alle consuetudini produttive e distributive, di fatto esistente e di cui Un paese di Calabria, diretto dalle registe italo-francesi Shu Aiello e Catherine Catella, per le case di produzione indipendenti Tita Productions, Marmitafilms, Les Productions JMH e BoFilm (unica italiana),  è l'ultimo titolo. La docu-fiction del 2016, come la filmografia che la precede sull'argomento ( Il Volo, cortometraggio di finzione di Wim Wenders per Sky Cinema, 2010; Il Sogno a Mezzogiorno, documentario incompiuto del regista calabrese Fabio Mollo, 2009) incontra e raccoglie le testimonianze della popolazione locale, registra  la celebrazioni sacre (i battesimi interreligiosi di intere famiglie) e politiche (consigli comunali, campagne elettorali), nonchè i più latenti e contraddittori stati d'animo gettati alla mercede dis-orientabile dei mass-media, e sul plot liricizzato della rievocazione delle migrazioni di massa dal Meridione all'estero, conclude la propria narrazione ignara e ben prima che il "Modello Riace" diventi la "Questione giudiziaria Riace" dei giorni nostri, sedicente criminalizzazione e abuso delle pratiche di accoglienza e solidarietà, ai confini dell'interpretazione delle leggi precostituite. Un discorso sull'immagine, come reputazione e consenso di opinione comune (in primis antropologicamente dell'uomo su se stesso e il suo simile), attraverso le immagini, dunque (se con elissi quasi Kubrikiana) si salta dalla scultura ellenica allo stop inferto alla lavorazione della fiction Tv dedicata al luogo, sopraggiunto in seguito all'arresto del sindaco in carica Mimmo Lucano lo scorso Ottobre, sotto l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, proprio all'interno della medesima gestione dell'accoglienza che lo aveva portato agli onori esemplari delle istituzioni internazionali. E più l'immagine attraverso le immagini prende ad essere oscurata e travolta da faziosità, speculazioni, macchina del fango, più le immagini si dimenano e svincolano dagli schemi e schermi canonici  attraverso la mobilitazione distributiva che risale dal basso e dalla rete, per fare rete e resistenza. Un paese di Calabria (c'è da dire visto da quasi 40.000 spettatori in Francia, secondo fonti ufficiali) poggia in parte sulla circuitazione della piattaforma MovieDay e sulla coordinazione nazionale di centri d'accoglienza, per sbarcare volutamente e gratuitamente sul Web, attraverso uno streaming di 48 ore a sostegno della campagna di solidarietà "Riace non si arresta". Stesso dicasi del regista su citato Fabio Mollo che attraverso il proprio canale Vimeo ha reso definitivamente pubblico e legale il proprio lavoro documentario per le medesime ragioni.

Il Sud è niente, recitava il titolo dell'opera prima di Mollo, storia di una adolescenza combattuta nel Sud delle mafie occultate e delle sparizioni spontanee o violente, "Il Sud è niente... e niente vi accade" recitava  a conferma della cecità omertosa. Ma le immagini cinematografiche, che ingannano la retina e vi si inchiodano, documentano il contrario, a Sud qualcosa accade, accade il ritorno, accade la rinascita, accade la possibilità dell'alternanza al modello unico multiculturale. Accade un futuro. Accade che se la perfezione del modello resta l'utopia (I Bronzi di Riace) la sua perfettibilità uman(itari)a può attecchire ancora e altrove, ben al di là di un solo "Paese di Calabria".      

     

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Shu Aiello Catherine Catella 90 minuti
Francia, Italia, Svizzera, 2016
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The Purge

di Mattia Caruso
The Purge - recensione serie tv amazon demonaco

Non può essere immorale se è legale, giusto? Pare quasi un mantra quello che riecheggia lungo i dieci episodi che compongono The Purge, nuova serie Amazon creata da James DeMonaco e parte integrante della saga de La notte del giudizio.
Un interrogativo legittimo, soprattutto in tempi in cui l'etica diventa una questione smaccatamente politica, confermando il valore di un universo distopico rimasto, a distanza di cinque anni, il modo più diretto e immediato per parlare del presente.

Era inevitabile, allora, dopo quattro film (dal capostipite La notte del giudizio fino al prequel, La prima notte del giudizio, uscito appena qualche mese fa), dopo aver esplorato ogni genere e situazione possibile, che questo contenitore di spunti e riflessioni si rivolgesse alla serialità televisiva, cercando di sviluppare al meglio tutte le implicazioni di quell'idea forte e immutabile che ne stava alla base: cosa accadrebbe se, per un giorno all'anno, qualsiasi crimine fosse consentito? Un'idea capace di creare un universo inesauribile di possibilità e che, dopo aver generato sequel, prequel e parodie (la trascurabilissima commedia Meet the Blacks), scopriva (almeno apparentemente) nei modi e nei tempi di una serie la sua più congeniale realizzazione.
È qui, infatti, in una rigenerazione pressoché infinita di storie e situazioni, che a DeMonaco pare di trovare terreno fertile per il suo mondo in espansione, il contenitore perfetto per mettere in scena, ancora una volta, tipi e storie capaci di farsi specchio (sfacciato) di un'intera società.

Eppure, nel passaggio dal grande al piccolo schermo, qualcosa di importante sembra perdersi lungo la strada, qualcosa capace di intaccare la stessa caratterizzazione e le stesse motivazioni di quei personaggi in lotta per la sopravvivenza e che si incontrano e scontrano lungo tutto il corso della vicenda.
Perché se è vero che, moltiplicando i piani narrativi e continuando a esplorare quel mondo alla deriva in ogni suo anfratto e possibile degenerazione (dalle sette pseudo-religiose alle fiere del massacro, passando per i giochi sadici e omicidi dell'alta società), la storia guadagna in complessità di intreccio e varietà di suggestioni, è lo schematismo e la spesso forzata bidimensionalità dei suoi protagonisti a non mutare con il cambio di mezzo, trasformando quell'attitudine che aveva fatto la fortuna della saga cinematografica nel suo più evidente punto debole.
É proprio quel gruppo eterogeneo di personaggi, infatti, tra eroi tutti d'un pezzo (il soldato in cerca della sorella), abusati cliché (la coppia di yuppies in crisi) e figure spiccatamente ricalcate sull'attualità (la donna nera vittima di molestie), a rappresentare le maggiori criticità di una serie come The Purge, un gioco al massacro bloccato nel proprio schematismo, così preso dalla propria brutale immediatezza da trascurare quella caratterizzazione che proprio la confezione episodica avrebbe potuto garantirgli.

Mentre il tempo della visione si sovrappone quasi perfettamente a quello del racconto, in dodici ore fatte di momenti riflessivi e improvvisi picchi di violenza, quell'universo di possibilità infinite, capace di sviluppare dilemmi etici ad ogni livello, dalla guerra di classe alla discriminazione, dalle molestie al femminicidio, fino alla frustrazione dell'uomo medio(cre), finisce così per essere stemperato da un eccesso di schematismo che poteva risultare funzionale per il grande schermo, ma che nel panorama seriale contemporaneo mostra tutta la sua inadeguatezza, annullando ogni possibile parvenza di verosimiglianza.

Quello che rimane è un film d'azione diluito nei tempi della serialità che trova nei suoi riferimenti niente affatto velati alla contemporaneità la sua principale ragione d'essere, seguendo la tradizione di un franchise dove il genere si fa strumento politico (impossibile non vedere nella messa in scena della frustrazione della working class bianca o nell'indifferenza ottusa e ferina dei Nuovi Padri Fondatori un riflesso della presidenza Trump) e il futuro si colora di tinte forse prevedibili, ma sempre e comunque perturbanti.

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Gabriel Chavarria Colin Woodell Lili Simmons Lee Tergesen 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Robin Hood-L'origine della leggenda

di Matteo Marescalco
Robin Hood-recensione film Bathurst

Dimenticate il romanticismo di Sean Connery e Kevin Costner; dimenticate l'allegra volpe dotata di una furbizia fuori dal comune; dimenticate persino la narrazione delle origini del Robin Hood interpretato da un imbolsito Russell Crowe. L'ultimo adattamento dedicato all'eroe popolare del Regno Unito è rivolto ad un target totalmente differente e la presenza di Taron Egerton e Jamie Dornan tra gli interpreti, e di Otto Bathurst in cabina di regia, la dicono lunga sul pubblico sulla base del quale è modellato Robin Hood - L'origine della leggenda.

Tutto ha inizio all'interno di una stalla. Lady Marian entra da una finestra per rubare un cavallo ma viene scoperta da Robin di Loxley. Lei è truccata pesantemente e ha una scollatura accentuata. Lui è un guerriero tutto d'un pezzo chiamato a servire nella terza crociata in Terra Santa. I due si promettono amore eterno ma, al momento, devono lasciarsi. La location si sposta e mostra Robin insieme ai suoi commilitoni in una città in rovina, nel bel mezzo del fuoco nemico. In questa operazione, si imbatte in un abile arciere da cui riesce a sfuggire per un soffio. Le basi per la futura collaborazione tra Robin e Little John sono state poste. Spedito a casa per diserzione, il ragazzo trova una Loxley in rovina e scopre di essere stato dato per morto da circa due anni. La sua amata Marian vive con un nuovo compagno e lo Sceriffo di Nottingham ha messo alle strette il popolo che è giunto, ormai, sull'orlo della disperazione.

La leggenda che ha alimentato tutta la letteratura e la filmografia sul fuorilegge più famoso di Inghilterra è stata usata come un canovaccio su cui innestare nuove intuizioni narrative e visive. In modo assai simile al trattamento riservato a Lisbeth Salander nel recente adattamento firmato da Fede Alvarez, anche il Robin Hood di Otto Bathurst risente dell'influsso massiccio dei film sui supereroi. Tra esplosioni sullo sfondo, ripetute slow motion e messa in scena decisamente tronfia, il film sembra appartenere più alla saga di Fast and Furious o degli Avengers che ad una leggenda ben radicata nell'immaginario popolare. È questa forzata attualizzazione a-storica che non convince e lascia lo spettatore disorientato. L'estetica steampunk e gli effetti ottici in stile Matrix cozzano fortemente con un materiale che, viste le sue origini, avrebbe dovuto ricevere un trattamento differente. Privare di “nobiltà” un racconto come quello di Robin Hood per darlo in pasto ad una platea di giovanissimi mangiatori di pop-corn che smanettano con lo smartphone durante la visione non è stata una mossa particolarmente brillante.

In questo ambaradan fumettistico, ad uscire sconfitti sono proprio i personaggi, sviluppati come immobili macchiette vittime di un contesto da videogame che non sembra avere tempo per loro. I cavalli corrono, le carrozze si trasformano in macchine rombanti ed il tempo va alla velocità della luce. Peccato che la conseguenza sia la totale assenza di evoluzione per Robin e soci e la confusione in ogni coreografia di massa. Piuttosto che donare un personaggio alla leggenda, una scelta del genere gli riserva soltanto il baratro dell'oblio.

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Otto Bathurst Taron Egerton Jamie Foxx Jamie Dornan Ben Mendelsohn F. Murray Abraham Eve Hewson 116 minuti
USA 2018
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Animali Fantastici-I Crimini di Grindelwald

di Matteo Marescalco
Animali Fantastici-I Crimini di Grindelwald recensione film Yates

Chewbe, siamo a casa.

È innegabile che, per i nati nel corso degli anni Novanta, la saga creata da J.K. Rowling sia stata l'equivalente letterario dell'impasto filmico nato dalla mente di George Lucas e destinato a cambiare per sempre la storia del cinema americano. Harry Potter è l'anno zero dell'immaginario collettivo contemporaneo. Dal 1997, c'è un prima e un dopo Harry Potter. Ovviamente, non si tratta semplicemente di un fenomeno di marketing ma di una mitologia che, negli anni in corso, sta per raggiungere la maturità. I bambini che circa due decenni fa si accingevano a leggere le avventure di Harry, Ron ed Hermione, e a fare i conti con le proprie paure e con l'importanza dei sentimenti, sono i trentenni di oggi a cui è principalmente rivolta la nuova pentalogia di Animali Fantastici, prequel e spin-off giunto qui al suo secondo episodio.

A tornare in cabina di regia per Animali fantastici - I crimini di Grindelwald è David Yates, in apparenza il meno potteriano e magico dei registi che hanno trasposto al cinema le avventure del maghetto. In quest'episodio di transizione tutto inizia con una fuga: Gellert Grindelwald, il mago oscuro più potente di tutti i tempi prima dell'arrivo di Lord Voldemord, riesce ad evadere di prigione. Il suo obiettivo è quello di radunare seguaci e lanciarsi sulle tracce di Credence, l'Obscuriale protagonista del film precedente. In seguito alla fuga di Grindelwald, Albus Silente chiama a rapporto il giovane Newt Scamander e lo incarica di cercare il ragazzo che avrà un ruolo fondamentale per la sconfitta del mago oscuro.
Con l'incalzare del racconto, la fuga continua. Credence è alla disperata ricerca delle sue origini, Silente scappa da un passato che non sa ancora come affrontare, la dolce e riluttante Queenie abbraccia il lato oscuro. E, sullo sfondo, si muove Johnny Depp, nei panni dell'indefinito ed albino Gellert Grindelwald, la perfetta incarnazione fantastica di un attore che ha commesso il crimine di aver gettato al vento il suo estremo talento.

Abbandonato il clima da Belle Èpoque del primo episodio, Yates torna alle sue più congeniali nuance fumose. La location si sposta dalla tiepida New York, teatro di amori impossibili, alla fredda Parigi, luogo di vicoli bui, nebbia e misteri da svelare. L'elemento più riuscito del film risiede proprio nell'atmosfera che domina questo I Crimini di Grindelwald. La guerra è alle porte e la sensazione di una tragedia imminente che coinvolge il versante personale, civile e mondiale appesantisce ulteriormente un clima già distopico. Persino il ritorno ad una Hogwarts-pre Harry Potter (quindi familiare ma non del tutto) è carico di suggestioni e di tracce che rimandano a un futuro che è ormai passato. Sono decine i riferimenti disseminati lungo l'arco della narrazione che indirizzano alla pietra filosofale e a Nicolas Flamel, alla Fenice di Silente e alla famiglia Black. A rendere quanto mai debole il racconto sono invece le innumerevoli storyline aperte e destinate a non trovare (ancora) una loro conclusione, condannate alla struttura reticolare che, da sempre, si presta a metafora perfetta per tratteggiare le storie di J.K. Rowling. La sensazione è che questo secondo episodio della pentalogia, a saga conclusa, corra il rischio di essere dimenticato, etereo e volatile com'è.

In conclusione, un'idea attanaglia chi scrive. E se il carattere s-formato del film, così indeciso sul genere da abbracciare e popolato da personaggi dilaniati da conflitti, non fosse altro che un segno quasi tangibile della magia di cui tanto si parla? In questo senso, il racconto sarebbe un contenitore perfetto per maghi alle prese con polveri magiche capaci di individuare tracce di movimenti passati e rendere malleabile il tempo, dettando la velocità dell'azione in un cortocircuito di relatività che distingue le esistenze degli essere magici da quelle dei Babbani. È proprio quando mostra e lavora sulla propria assenza di forma che Animali fantastici - I crimini di Grindelwald riesce a raggiungere vette che, nei momenti in cui dispiega tutta la sua verbosità, non riesce nemmeno a sfiorare. In definitiva, una forma/non-forma del genere avrebbe strettamente a che fare con l'arcaico incantesimo visivo che rende percepibile il movimento di realtà bloccate nel tempo, e con una transitorietà che rende palese il proprio intimo segreto. In fin dei conti, sempre di magia si tratta.

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David Yates Eddie Redmayne Johnny Depp Jude Law Ezra Miller Zoe Kravitz Katherine Waterston Dan Fogler 134 minuti
Regno Unito, USA 2018
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Halloween (2018)

di Matteo Berardini
HALLOWEEN - gordon green recensione film

Come reagisce l’essere umano posto a contatto con il Male assoluto? È soprattutto attorno a questa domanda che ruota l’Halloween di David Gordon Green, ritorno alle origini che pone di nuovo al centro del discorso la natura metafisica di Michael Myers. Scansata la lettura iperrealista di Rob Zombie, “The Shape” torna ad essere una macchina omicida priva di umanità, un pozzo di oscurità che non può parlare o comunicare in alcun modo e che avvolge chiunque gli sia intorno suscitando fascinazione, emulazione, curiosità morbosa di sapere cosa si provi a togliere una vita. Al polo opposto dello spettro c’è chi invece non desidera altro che cancellare quella che considera un’entità maligna priva di speranze. Prima che Laurie Strode è già Loomis – deceduto nella cronologia del film ma presente tramite una registrazione vocale – ad augurarsi che Michael possa morire al più presto, mentre la sorella attende anno dopo anno che il fratello scappi dal centro di detenzione, così da poter chiudere i conti in prima persona. Che sia desiderio di scoperta o sete di vendetta, in qualche modo nessuno dei personaggi riesce ad allontanarsi da Michael, nessuno è davvero intenzionato o in grado di superare quanto accaduto 40 anni fa.

Più che un horror, questo Halloween è un’operazione sull’horror, un film che cerca un dialogo e un gioco costante con una tradizione ormai entrata nel mito. Nessuna rilettura approfondita o estensione degli elementi in campo, la sceneggiatura di David Gordon Green, Danny McBride e Jeff Fradley punta piuttosto sul ritorno alle atmosfere originali, come la zucca marcita che durante i titoli di testa ritorna in time-lapse alla sua forma originaria. Senza abbracciare alcun elemento della contemporaneità, stilistico o tecnologico, il film si nutre delle atmosfere horror a cavallo tra i ’70 e gli ‘80, inonda l’inquadratura di luce soffusa e musica in synth (composta per l’occasione da John Carpenter stesso, coinvolto come produttore esecutivo) ma il risultato non sembra davvero un ritorno alla vita, il gioco di Gordon Green e squadra è freddo e meccanico, come lo sono le tante, troppe scene del film che non inquietano o spaventano ma semplicemente mostrano l’horror nel suo farsi, come un saggio distaccato che enumera tecniche e soluzioni di regia senza saperle veramente mettere in campo. La verità è che questo nuovo Halloween manca di un regista che sappia fare horror e la conseguente è un film pressoché privo di suspense, che tratta i suoi personaggi come carne pronta per il macello. Nonostante mostri in abbondanza sangue e menomazioni, Gordon Green non arriva a suscitare disagio, timore, curiosità, non getta lo spettatore nell’orrore messo in scena preferendo uno sguardo dalla distanza, una decostruzione che smonta il genere senza portare con sé alcuna riflessione aggiunta.

L’unica importante eccezione offerta dal film è il lavoro sulla prospettiva femminile, il ribaltamento del concetto di final girl che non si discosta dalla contro-tradizione ma rilancia comunque con forza l’immagine di una preda che diventa cacciatrice.
Le antagoniste di Michael sono tre generazioni di donne Strode, madre, figlia e nipote che assieme imbastiscono l’unica trappola che possa fermare (apparentemente, un sequel è già in preparazione) la furia omicida di Michael. Ma il lavoro su Laurie va oltre questo scambio di ruoli ed entra nella grammatica stessa del film: è suo il corpo che compare fuori dalle vetrate sotto lo sguardo di sfuggita dei personaggi, è suo il volto che spunta all’improvviso da dietro un angolo. Green, qui sapientemente e in modo efficace, cita apertamente il primo capitolo ribaltando di senso l’inquadratura originale. Il corpo di Laurie prende il posto di quello di Michael perché è lei che, spinta dal trauma, si impossessa del film, infestandolo con i suoi incubi e le sue ossessioni, è lei che dà la caccia al mostro e detta le regole dello scontro. Aiutato da una grande Jamie Lee Curtis, Green riesce qui a giocare con una grande intuizione, dando finalmente al personaggio di Laurie lo spazio che merita.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Judy Greer Will Patton 104 minuti
USA 2018
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Bogside Story

di Paolo Di Marcelli
Bogside Story Pietro Laino Rocco Forte

Non è la prima volta che la Bloody Sunday approda al cinema, sia esso documentario o di finzione. È bene ricordare che il 30 gennaio del 1972, a Derry, piccolo centro dell’Irlanda del Nord famoso in quegli anni per essersi liberato dall’occupazione militare, fu indetta una manifestazione pacifica in difesa dei diritti civili (la minoranza cattolica, di fatto ghettizzata dai protestanti fedeli a Londra, oltre a pretendere condizioni di vita dignitose, chiedeva di abolire la legge disumana che prevedeva la detenzione dei prigionieri politici a tempo indefinito senza un regolare processo). L’Ira fu espressamente invitata a non partecipare e rispettò il divieto, non vi furono particolari tensioni tranne qualche minuto di sassaiola nei pressi di un blocco inatteso che obbligò il corteo a dirigersi prima del previsto verso il palco del comizio. Fu una domenica di sangue perché i soldati britannici spararono sulla folla disarmata uccidendo quattordici innocenti, molti dei quali minorenni. Un episodio inaudito ed efferato che ebbe ripercussioni in tutto il mondo ma soprattutto - le più devastanti - sul conflitto nordirlandese che si riaccese con rinnovata violenza – molti storici concordano su una spietata e strategica premeditazione che avrebbe dovuto, come poi accadde in seguito alla reazione dei nazionalisti, giustificare una nuova ondata di repressione.

C’è molto da vedere e da ascoltare nel film di Rocco Forte e Pietro Laino. Il perno sui cui ruota l’intero lavoro è il fotoreporter Fulvio Grimaldi, l’unico che quel giorno documentò il massacro con la sua macchina fotografica, chiamato a testimoniare in occasione della nuova inchiesta per individuare i colpevoli. Un uomo col portamento e il carisma dell’attore consumato (non a caso fu Patanè, giornalista del Paese Sera, in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), austero e compassato ma ancora energicamente vitale nel raccontare il prima, il durante e il dopo. Molto spazio hanno anche i Bogside Artists, che prendono il nome dal quartiere teatro della vicenda, un trio che negli anni ha dipinto sulle facciate di quelle case dodici murales di grande impatto visivo raffigurando le scene della strage, le vittime, l’assedio precedente alla Bloody Sunday e molti altri simboli e icone del conflitto e della resistenza. E poi la gente del Bogside, i familiari delle vittime, la commemorazione, i cenni a Bobby Sands e a tutti coloro che protestarono contro la Thatcher attraverso lo sciopero della fame.

Nonostante una confezione più televisiva che cinematografica - potrebbe tranquillamente rappresentare un appuntamento speciale all’interno di un programma di approfondimento - e una semplicità eccessiva nelle grafiche che riassumono le fasi salienti di trent’anni di scontri, Bogside Story sa aprirsi a due questioni politico-sociali che partono da Derry per riguardare qualsiasi altro posto “caldo” in giro per il mondo. La prima riguarda l’obiettivo dei murales, ovvero mostrare continuamente, da anni, una pagina di Storia su cui è essenziale continuare a riflettere e discutere, ricordando e spiegando a chi non c’era come andarono le cose. In questo modo, il documentario di Forte e Laino parla anche a noi italiani, urlandoci addosso il rimosso che faremmo bene a recuperare per capire qualcosa in più del presente in cui viviamo e più in generale mette il punto sulla necessità che i “luoghi oscuri”, come li chiama James Ellroy, restino ancorati nel dibattito culturale e mediatico del nostro come di qualsiasi altro Paese irrisolto. La seconda questione, infatti, è conseguente alla prima e ha come punto di partenza il viaggio senza sosta dei Bogside Artists laddove ci sia bisogno di sensibilizzare alla memoria una determinata comunità. Le grandi opere del trio disseminate in Tibet come in America estendono il discorso sull’azione politica dell’arte in uno scenario tristemente diffuso, in cui la Bloody Sunday non è altro che un tassello di un mosaico in continua costruzione. La domanda è sempre la stessa: cosa fare perché simili scempi non accadano più?


Infine, Forte e Laino sfruttano in pieno la collaborazione di Grimaldi per riflettere su un aspetto più propriamente profilmico e addirittura cinefilo, se pensiamo a Blow out di Brian de Palma (1981), ovvero l’audio integrale di quel pomeriggio che il giornalista documentò col suo registratore portatile. Ecco allora che il rumore degli spari, le grida, le implorazioni e l’angoscia assordante riescono a riportare a galla l’orrore di quarantasei anni fa senza filtri o rielaborazioni, celebrando drammaticamente l’assoluta centralità del suono in presa diretta nel cinema del reale.

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Rocco Forte Pietro Laino Fulvio Grimaldi Tom Kelly William Kelly Kevin Hasson John Hume Edward Daly Linda Nash Betty Walker Durata: 75 minuti
Italia, 2018
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On the Hillsides

di Samuel Antichi
On the hillside - recensione film badis

Un gruppo di giovani ragazzi algerini si incontra sul tetto di un edificio nella città di Orano, una delle più grandi del paese. Da questa posizione rialzata si possono osservare da una parte le colline, il paesaggio brullo, e dall’altra il mare. Nel mezzo il tessuto urbano in continua trasformazione, in cui svettano i cantieri dei grattacieli, sembra rispecchiare una società che trasmette la convulsione del cambiamento economico e industriale. Attraverso una pratica che richiama l'autocoscienza, i giovani, riunendosi in piccoli gruppi, raccontano le proprie esperienze, ponendo l'attenzione su temi come la deterritorializzazione e dislocazione di un’identità culturale autentica così come la marginalizzazione che provoca il costante processo di urbanizzazione e modernizzazione a cui il paese sembra andare incontro. Spaesamento del soggetto e dell’oggetto.
Da dove ripartire in una società sempre più individualista che sembra aver perso qualunque legame con il proprio passato storico e con la propria tradizione? («Per me quello che accade in Algeria è pura metafisica» afferma uno dei giovani). Bisogna ripartire dalle radici, dalle comunità, andando ad esplorare angoli nascosti, spazi ai margini che sono stati il motore e il cuore pulsante del paese, gettando luce su una storia che sia legata alle soggettività e alla relazione emozionale ed affettiva che le persone hanno con i luoghi fisici e mentali della memoria.

Nel corso dell’estate i sette giovani, insieme al regista franco-algerino Abdallah Badis compiono un viaggio (iniziatico) nell’entroterra rurale del paese con l’obiettivo di filmare questi spazi fragili in via di sparizione per preservarli, dal momento che la trasformazione di quei luoghi così come la sparizione delle comunità che li abitano, provoca una perdita della memoria storica e culturale. On the Hillsides percorre queste tracce raccogliendo una moltitudine di voci che riaffiorano tra narrazione collettiva ed esperienza personale. Vengono rievocate storie sommerse, memorie represse che scavano nella molteplicità di strati, di livelli di sedimentazioni. Le persone ricordano e raccontano le proprie memorie, dolorose e indicibili («non voglio ricordare quei momenti sennò non dormirei la notte» afferma uno degli uomini incontrati), dalla sanguinosa Guerra d’Indipendenza tra l'esercito francese e il Fronte di Liberazione Nazionale alla guerra civile scoppiata nel 1991.
In questi resoconti emerge anche la dimensione privata, del modo in cui la vita quotidiana sia profondamente cambiata dall’agricoltura alla pesca. Molte persone sono state costrette ad abbandonare luoghi ormai inghiottiti dall’espansione urbana che impone il proprio modello economico e politico, portando via con sé memorie ed esperienze. On the Hillside è un road movie che rappresenta un ritorno alle origini e alle tradizioni per compiere un processo di ri-scrittura della mitologia del paese, un nuovo linguaggio da cui possono partire le nuove generazioni per riprendere a sognare e per cominciare ad agire.

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Abdallah Badis 101 minuti
Algeria, Francia 2018
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