The Migrating Image

di Riccardo Bellini
The Migrating Image - recensione film

The Migrating Image, ovvero “l’immagine migrante”. Il documentario del danese Stefan Kruse, visto Fuori Concorso al MedFilm Festival 2018, osserva il fenomeno dei recenti movimenti migratori verso l’Europa dalla prospettiva di un altro tipo di flusso: quello riguardante le immagini che condizionano la nostra percezione del fenomeno. A partire dalle modalità con cui, attraverso i social network, anonimi trafficanti di esseri umani pubblicizzano i loro servizi, sfruttando le immagini di un benessere occidentale da cartolina e di sicuri mezzi di trasporto, The Migrating Image innesta la propria riflessione sul nomadismo delle immagini nella nostra società e sul loro dominio nella produzione del reale. «La produzione di immagini», dice la voice over all’inizio, «inizia prima dell’immigrazione». Ad essere cambiata – vertiginosamente – è la loro accessibilità, la facilità con cui oggi le immagini possono essere prodotte e diffuse, da chiunque e in quantità un tempo impensabili. La posta in gioco è il nostro ancoraggio alla realtà, messo in pericolo da un atteggiamento passivo nei confronti di uno scenario mediale su cui le maglie del controllo si fanno sempre più larghe.

A chi sono destinate le riprese dei soccorsi in mare effettuate dalla marina militare e con quali logiche vengono prodotte? A quali media stranieri potrebbero finire le immagini dell’arrivo dei migranti caricate da fotografi volontari su piattaforme come Shutterstock? E con quali fini? Kruse si interroga non solo sulle modalità di produzione ma anche sui percorsi che le immagini della migrazione possono seguire, e lo fa con la giusta prospettiva di chi non è interessato a fornire facili risposte quanto a sollevare quesiti. Perché se, come dice Montani, «Le immagini, oltre ad avere un senso e a esercitare un potere, vogliono anche qualcosa. Ci pongono delle richieste», allora sta a noi interrogarci per attivarne la funzione testimoniale.

Attraverso filmati e fotografie di varia natura, provenienza e destinazione, dalle riprese satellitari della Frontex – il sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dell’UE – ai video realizzati con il telefono da alcuni migranti lungo il viaggio in mare, The Migrating Image ci restituisce un panorama visuale sfaccettato, difficilmente ricomponibile ma che chiede di essere sottratto alla deriva anestetizzante, quando non del tutto dirottata verso la strumentalizzazione. In questa breve ma composita ricognizione, assume particolare rilevanza la prospettiva dall’alto, quella per esempio dei droni che filmano una fiumana di profughi in cammino attraverso il confine tra Slovenia e Ungheria. Prospettiva che restituisce implicitamente l’idea di una dominazione delle immagini sull’uomo, quando l’uomo non è più capace di interpretarle correttamente. A meno che, come fa acutamente il regista, non si anticipi lo sguardo di questo Grande Fratello dei cieli, che distanzia e riduce i profughi a massa minacciosa senza volto, con una ripresa amatoriale dall’interno del gruppo in marcia, opponendo così all’algido sguardo aereo l’umanità di una ripresa frontale che restituisce le persone inquadrate nella loro dignità.

Il documentario di Kruse affronta questioni di assoluta urgenza per il nostro presente e il nostro futuro civile, affacciandosi con onestà a un quadro estremamente stratificato, com’è quello della produzione e diffusione mediale sull’immigrazione. Proprio per questo, l’impressione generale è che The Migrating Image, con i suoi ventotto minuti di durata, avrebbe forse aderito più saldamente alla formula del lungometraggio, meritando un maggiore approfondimento. Resta comunque l’esempio di un documentario che sa verso quali prospettive rivolgere lo sguardo.

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Stefan Kruse 28 minuti
Danimarca 2018
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Kidding - Il fantastico mondo di Mr. Pickles

di Rosario Gallone
Kidding - serie tv Gondry Carrey

In fedele continuità con Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Jeff Piccirillo è un Joel Barish che non riesce a cancellare una perdita, una mente candida cui viene negata l’infinita letizia. Jeff Piccirillo è anche il Truman Burbank di Peter Weir, una volta oltrepassata la soglia del suo mondo real(ity)e. Ma Jeff Piccirillo è soprattutto Mr.Pickles/Jim Carrey, un uomo condannato a sorridere e a far sorridere nonostante i drammi della vita.

Kidding, serie tv creata da Dave Holstein (staff writer di Weeds che ritorna dopo la deludente Brink), segna il ritorno alla collaborazione di Jim Carrey e Michel Gondry dopo il fondamentale film del 2004. L’interprete di Ace Ventura ha avuto un’infanzia decisamente difficile, ha vissuto con la famiglia in un camper date le ristrettezze economiche seguite al licenziamento del padre contabile, e di recente, nel 2015, ha dovuto affrontare anche il suicidio della compagna Cathriona White, ed è difficile non vederne traccia nella sua interpretazione di Mr. Pickles. Di contro, il regista di Versailles ha già dimostrato di saper rappresentare, mantenendosi coerente col suo immaginario fatto di découpage e artigianato, la malinconia e il dolore di una perdita (si pensi al sottovalutato Mood Indigo – La schiuma dei giorni). Nonostante sia una serie creata da un terzo, il segno di entrambi è ben presente, a partire dalla sigla diversa per ciascuna puntata che ripropone il meccanismo delle instagram stories del profilo di Gondry. Per il resto, l’altro pregio di Kidding è quello di non essere lo show di Jim Carrey, ma una vera e propria storia su una famiglia (disfunzionale come tante) che non è la nostra, ma nello stesso tempo lo è. E può esserlo perché Carrey viene affiancato da signori attori come Catherine Keener e Frank Langella: loro sono i Piccirillo, nome di origine italiana il cui senso non può essere sfuggito al creatore.

Kidding ci dice che il dolore può essere insopportabile, che il lutto può annientare, ma che nulla, dei nostri sentimenti, può essere risolto semplicemente facendo finta che non ci sia, come lo si può fare con una puntata sulla morte da non mandare in onda. Kidding non cerca il grottesco mostrando il lato oscuro della tv dei bambini (come nell’Eliminate Smoochy di Danny De Vito, con Robin Williams e Edward Norton), non è una dark comedy, anzi. Kidding punta in alto, ci spinge a misurarci con le nostre paure, a cambiare prospettiva (e sulla parallasse si giocava tutto il celebre video dei Chemical Brothers Let Forever Be diretto proprio da Gondry). Ci dice che l’ascolto a volte è più importante del saper parlare, e che la bontà ha un costo (ed è forse la cosa più rivoluzionaria e sconvolgente). A volte, specialmente vedendo gli episodi 4 e 10, si ha la sensazione che Kidding ci parli di cose così grandi che per noi è difficile assumerle senza soffrire. Kidding fa piangere, ma non di un pianto empatico, quello che si prova per i personaggi di una serie o di un romanzo. Kidding ci fa piangere di noi stessi, della nostra terribile condizione di esseri umani alle prese con l’irragionevole ragione di esistere e di essere. Kidding sembra tutto questo e poi con un rovesciamento finale sembra il contrario. Ma forse è la serie che serviva per una enorme seduta di autocoscienza universale.  

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Jim Carrey Catherine Keener Frank Langella Judy Greer 1 stagione da 10 episodi
USA 2018
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Ozark

di Mattia Caruso
ozark - recensione serie tv netflix bateman

Era il 2008 quando Breaking Bad rivoluzionava definitivamente la serialità televisiva scardinando l'istituzione famigliare e guardando dritto negli occhi l'oscurità nascosta dietro l'ipocrisia del sogno americano.
Dieci anni dopo, nell'America di Trump post crisi economica, si intravede ancora il fantasma di Walter White aleggiare nell'apparente tranquillità provinciale di Ozark, epopea famigliare dall'anima crime che si pone come inevitabile (e per molti versi degno) erede dello show creato da Vince Gilligan.

Certo, non è un'eredità da poco quella raccolta dalla serie creata da Bill Dubuque e Mark Williams, un passaggio di testimone che però non ha la presunzione di confrontarsi con il passato, preferendo piuttosto battere altre strade, esplorare nuove dinamiche, scoprire nuove realtà.
Perché se è vero che Ozark, con la sua parabola di quotidianità criminale e ambiguità morale, occupa proprio quello spazio lasciato vuoto dal cult di Gilligan, è anche vero che è una propria identità, chiara e ben definita, quella che questo prodotto originale Netflix cerca, episodio dopo episodio, di guadagnarsi, allontanandosi, a volte anche drasticamente, da qualsiasi forzato e fuorviante paragone.

Del resto, i tempi sono cambiati, e mentre il denaro si conferma l'unica vera unità di misura dell'esistenza (illuminante il monologo iniziale del protagonista), il mondo è diventato sempre più smaliziato, più cinico, più ambiguo. È qui che Marty Byrde – il volto e l'aspetto di un perfetto Jason Bateman, anche regista di alcuni episodi – operatore finanziario e riciclatore di denaro sporco per un cartello messicano, costretto, pistola alla testa, a spostare l'attività (e l'intera famiglia) da Chicago a una sperduta località turistica nelle Ozark del Missouri, si fa emblema di un sistema che lucra sul crimine restando pulito, senza sensi di colpa, mantenendo – o cercando di mantenere – intatta la propria integrità morale e il proprio equilibrio famigliare.
Proprio la famiglia, d'altronde, è il punto cardine dell'intera vicenda, una famiglia non più da tenere all'oscuro e da vedere come principale ostacolo alla propria ascesa criminale, ma un nucleo da tenere stretto, da coinvolgere, da rendere complice, mentre tutt'attorno i principi etici e morali (compresi quelli dello spettatore) si sfaldano e la linea di demarcazione tra bene e male diventa sempre più labile e indefinita.

Un'ascesa criminale vissuta come sopravvivenza, come lotta per la vita, quella di Ozark, un alibi che i coniugi Byrde (a fianco di Marty la moglie Wendy, interpretata da una bravissima Laura Linney, che con il proseguire della serie si fa vera e propria coprotagonista) impareranno presto a raccontarsi per dormire la notte, vittime di un'ipocrisia di cui sono estremamente consapevoli.
Un dramma violento, cupo e brutale – tra spietati sicari messicani, redneck pronti a tutto e politici privi di scrupoli – dove la parabola criminale, però, acquista tinte inedite, lontana tanto dai picchi stilistico-espressivi di Breaking Bad, quanto dal gusto per il grottesco di Fargo, fedele a un realismo che si rispecchia nel volto calmo, bonario e ragionevole di Bateman, corpo immutabile votato al calcolo e all'apparenza, incurante di un intero mondo che si sfascia sotto il peso delle sue azioni.

Nel giro di due stagioni Ozark si dimostra così una serie sorprendente, a tratti imprevedibile, ma non per questo vittima di facili sensazionalismi o abusati cliffhanger, forte di una scrittura rigorosa dal ritmo implacabile e di un senso corale garantito da interpreti di alto livello (assieme a Bateman e alla Linney, la giovane Julia Garner, alla sua definitiva consacrazione), confermandosi, paradossalmente, nella sua pur poca originalità, uno dei più intelligenti e interessanti prodotti originali Netflix, e non solo.

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Jason Bateman Laura Linney Julia Garner Peter Mullan Jason Butler Harner 2 stagioni da 10 episodi
USA 2017
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Halloween II (2009)

di Matteo Berardini
Halloween-II-2009 - recensione film rob zombie

Tra i protagonisti della scena metal americana di fine anni ’90, Rob Zombie approda al cinema nel 2003, nessuna avvisaglia ad anticipare l’inizio di una carriera da autore horror completo, regista, sceneggiatore e produttore, aperta dal promettente La casa dei mille corpi e confermata da un grande sequel, La casa del diavolo. Da quel dittico, crogiolo di personaggi e ossessioni covato per anni, incontro della sfrenata passione horror con i ricordi di un’infanzia trascorsa nel mondo circense, Zombie fa il salto e tenta l’impresa: accettare il reboot della saga di Halloween, che significa confrontarsi con il mito e cancellare in un sol colpo la deriva di un personaggio avvitato su sé stesso.
Il risultato è Halloween – The Beginning, un film che funziona e convince soprattutto per come riesce a reinventare l’icona di Michael Myers rispettandone al tempo stesso l’essenza. Zombie dona a “The Shape” carne e sangue, una psicologia deviata e una famiglia disfunzionale, senza che questo cancelli però quel pozzo di oscurità insondabile che il personaggio porta da sempre con sé. Michael è adesso un ragazzo con un’adolescenza difficile e una tara genetica corrotta («la combinazione perfetta di elementi esterni e interni» lo definirà il nuovo Dottor Loomis) ma è anche l’incarnazione stessa del male, l’emanazione di un incubo inconoscibile e impermeabile ad ogni forma di empatia e correzione. Nella stessa direzione va questo Halloween II, sequel non pianificato del nuovo corso in cui Zombie rilancia la componente eversiva e si prende rischi altissimi, impossessandosi di fatto di personaggi e situazioni dall’interno del suo filtro autoriale.

Se c’è un elemento che contraddistingue l’approccio di Zombie alla materia di genere, quello è l’empatia. Escluso il brutto incidente di 31, tutti i film del regista sono una traversata di sofferenza ben lontana da ogni intento goliardico o ludico. Il body count, l’enumerazione divertita dei morti ammazzati su uno schermo (ricordate Scream, il momento in cui i protagonisti guardano Halloween e si divertono lanciando popcorn e sbeffeggiando i protagonisti?) diventa con Zombie qualcosa di troppo scomodo da portare avanti; vittime e mostri non sono più pedine ma personaggi a cui il film dona sempre una forma di umanità, un momento di vicinanza che rende la fine troppo dolorosa per alimentare una visione spensierata. Quest’approccio esploderà raggiungerà il suo massimo con Le streghe di Salem, magnifica epica lisergica sulla depressione e la solitudine, ma già in questo Halloween II il lavoro su Loomis, Laurie Strode e Michael ha dell’incredibile.

Il celebre dottore, nemesi della serie classica orfana del volto di Donald Pleasence, rivela rispetto al primo episodio un cambiamento radicale. Da figura paterna che ha fallito il proprio compito e ne paga le conseguenze, Samuel Loomis diventa un’icona pop della società dello spettacolo, un dottorucolo da libri inchiesta editati in paperback e ospitate nei talk show, che cova dentro di sé il ricordo di quel che è stato ma cerca il più possibile di rinnegare quell’esperienza monetizzando vittime e carnefice.
Laurie Strode, sorella superstite di Michael, resta il bersaglio prediletto del fratello, l’ossessione che alimenta la spirale di sangue, ma per lei il passato è un fardello ingombrante che apre le porte alla follia. Laurie semina morte attorno a sé ma soprattutto convive con una tara di pazzia omicida che urla a voce sempre più alta, conquistando il suo spazio nei sogni e nelle fantasie. Il tema dell’ereditarietà del male non è inedito nella saga, già la piccola Jamie Lloyd di Halloween 4 soffriva la stessa condanna, ma qui il discorso riceve un’attenzione psicologica ben più intensa e vibrante, intrisa appunto di quella sofferenza esistenziale che caratterizza lo sguardo di Zombie.
E infine c’è Michael, ovviamente, un personaggio talmente rivisitato da offrire, nella director’s cut del film, una delle scene finali più emozionanti dell’intera saga: tormentato dai fantasmi del passato, ossessionato dall’idea di dover ricreare il suo nucleo famigliare, Michael si scaglia contro il padre putativo Loomis e urla contro il dottore di morire, accoltellandolo più volte. Il tutto a volto scoperto, significativamente nel film che più di tutti si impegna a donare al personaggio una sua fisicità umana, terrigna, carnale. Non a caso nelle interviste a Loomis, Michael viene paragonato a Bundy e altri serial killer americani, gli viene dato un profilo psicologico approfondito, che pur non funzionando a dovere (stona la presenza allucinata della madre con tanto di referente psicanalitico junghiano) porta ad una rappresentazione del Male ricca di sfumature dolorose.

Halloween II intreccia gli esiti di questi tre personaggi, resi tridimensionalmente con uno sguardo ricco di pietà e interesse, vicinanza umana che si traduce in un approccio registico intriso di un realismo sporco, immediato, che serve il Mito da una direzione nuova e inedita ma non per questo meno efficace.

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Rob Zombie Scout Taylor-Compton Malcolm McDowell Tyler Mane Brad Dourif Danielle Harris Sheri Moon Zombie 119 min. (Director's Cut)
USA 2009
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Killing

di Samuele Sestieri
Killing

“La via del samurai è quella della morte” dice Shin'ya Tsukamoto in conferenza stampa. Quattro anni dopo Nobi – Fires on the Plain, il grande autore giapponese torna in concorso al festival veneziano con un altro film in costume che non è mai quello che sembra.

Pensare Tsukamoto che si confronta con l’epica del samurai è qualcosa di molto allettante: come avveniva col cinema bellico nel film precedente, l'autore sabota il genere dall’interno, invertendone le prospettive e tornando alla scelta, all’atto battesimale dello svezzamento. Siamo a metà del diciannovesimo secolo, una nuova guerra si sta affacciando in Giappone dopo un periodo di pace. Mokunoshin Tsuzuki, durante la sua permanenza in un villaggio di agricoltori, viene arruolato dal samurai Sawamura per recarsi a Edo e combattere. Ma i due samurai non partiranno, rimanendo imprigionati nella foresta che circonda il villaggio: tutto il film è un falso movimento che parte come un addestramento e si trasforma in una furente caccia all’uomo. La guerra, in fin dei conti, finisce per rivelarsi nient’altro che un macGuffin. Quello che interessa a Tsukamoto è il terremoto emotivo, la crescita individuale, l’acquisizione di una forza interiore. Non a caso Killing è un film che nasce dalla spada e che in essa vede il suo vero protagonista. La spada è la forza che ci possiede e ci abita, ma anche il simbolo del sesso e della virilità. Il film di samurai diviene l’espediente per inscenare un complesso racconto di formazione. Killing, fin dal titolo, è un’opera sull’atto di uccidere. Perché il giovane Tsuzuki è il samurai paradossale che non ha mai ammazzato nessuno. Desidera farlo con tutte le sue forze, ma non riesce: impotente, come in una continua ansia da prestazione. Si allena, si masturba, brandisce la spada. Invidia il maestro Sawamura, interpretato da uno Shin’ya Tsukamoto monumentale e in totale sottrazione: il problema è il gesto, “Come riesci a farlo?” chiede Tsuzuki al maestro. Il ruolo di Tsukamoto diventa quello di un padre tutelare che, in fondo, sembra quasi immolarsi per portare il figlio alla maturità. Serve un sacrificio per rigenerare la carne, il sesso, l’identità del nuovo samurai. Serve morire per ritrovare la spada.

Magnifico, da questo punto di vista, il rapporto fra i due personaggi. Tsuzuki vede in Sawamura il vero uomo, veloce, potente, deciso. La spada per lui non ha segreti. L’identificazione tra l'arma e il fallo, fra l’atto di uccidere e quello di scopare, assurge qui a idea fondativa. Uccidere è il rito di iniziazione, il passaggio all’età adulta, la perdita della verginità e dell’innocenza. Tsuzuki solo in questo modo diventa uomo, emancipandosi dai propri modelli e dai propri fantasmi. Nel momento stesso dell’omicidio l’innocenza è perduta per sempre: la visione si oscura, la foresta si fa sottoesposta ed opaca, fino a dissolversi nell’oscurità. Sentiamo un urlo di terrore: la mutazione è avvenuta, la violenza ha indurito il cuore e avvelenato lo sguardo. Ora più nulla sarà come prima. Siamo entrati in guerra, il paradiso è perduto per sempre.

Il dolore, in Tsukamoto, diviene privazione di luce.

Viene da pensare che dal finale potrebbe nascere Nobi, quasi come se questo Killing fosse un prequel impossibile, una vera e propria genesi del male. E il grido femminile il compendio acustico con cui risentire tutto il cinema di Tsukamoto.

La foresta, fin dall’inizio, torna come regno di spettri, inferno verde di uno shock percettivo-formativo. Come Nobi, Killing è un vero e proprio terremoto dello sguardo anche se, per la prima volta, una sensazione lontana si insinua durante la visione. Tsukamoto è sempre stato un regista sorprendente che, di film in film, rinnovava completamente lo statuto estetico del proprio immaginario. Qui un'impressione di déjà vu, di riproposizione di alcune soluzioni formali, inizia a farsi sentire. Una piccola e trascurabile nota a margine per un'opera che, come poche, inscena la debolezza con implacabile potenza (certo, vorremmo vedere il regista a confronto con le nuove mutazioni architettoniche, sociali, culturali della metropoli: immaginate uno Tsukamoto, oggi, che si confronta col virtuale). L’armamentario visivo c’è tutto: macchina a mano frenetica, incrostata nella sporcizia digitale, montaggio omicida dell'occhio che uccide, sound folle e viscerale. E i riflessi di Oshima, Genet, perfino David Lynch! Certo, se Nobi era un capolavoro esperienziale, va detto che Killing ha una componente umana molto più straziante, tanto da diventare il titolo di Tsukamoto più legato a quella fragilità che ci rende uomini…e alla paura, paura di risvegliarsi e di vedere con altri occhi.

Ancora una volta, trasformarsi, verso nuove sconquassanti soggettive che rifondino il mondo o il suo riflesso distorto.

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Shin'ya Tsukamoto Sôsuke Ikematsu Yu Aoi Shin'ya Tsukamoto 80 minuti
Giappone, 2018
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Five Came Back

di Arianna Pagliara
Five Came Back di Laurent Bouzereau

John Ford, John Huston, Frank Capra, William Wyler e George Stevens: cinque cineasti che hanno fatto la storia del cinema americano raccontati attraverso lo sguardo partecipe ed emozionato di altrettanti registi del presente, ovvero Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Guillermo del Toro, Paul Greengrass e Lawrence Kasdan. Il documentario Five Came Back, che Netflix ha prodotto assieme alla Amblin Television di Steven Spielberg per la regia di Laurent Bouzereau, è basato sul testo (quasi) omonimo di Mark Harris, qui anche sceneggiatore.
Miniserie divisa in tre puntate, esplora la relazione complessa e a volte ambivalente tra il cinema hollywoodiano e gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, e lo fa analizzando il lavoro – e al contempo le avventurose vicende biografiche - dei cinque registi selezionati rispetto a tre diverse fasi: prima, durante e dopo. La propaganda e la chiamata alle armi, i rischi e le difficoltà sul fronte, il ritorno in patria e i tentativi di lenire le ferite fisiche e psicologiche. Ne viene fuori un discorso estremamente ricco e stratificato, che prende corpo attraverso l’utilizzo di materiali d’archivio preziosi e spesso sorprendenti alternati a sequenze di cinema di fiction.

La mappatura qui tracciata e dispiegata è una ricostruzione della storia attraverso il cinema ma anche, viceversa, una riflessione sul cinema attraverso la storia. Perché le modalità della  rappresentazione (propagandistica, patriottica, conciliatoria), qualunque esse siano, rispecchiano sempre intimamente la realtà socioculturale che le produce, sono il frutto e la conseguenza di un determinato stato di cose ma al contempo ne sono anche la causa. Ecco allora che la raffigurazione caricaturale e denigratoria del popolo giapponese, funzionale in una certa fase a produrre consensi, può rivelarsi dannosa laddove l’intolleranza rischia di mettere in crisi la stabilità sociale: è il caso, ad esempio, di December 7th di Gregg Toland (1943), reputato sconvenientemente razzista e quindi revisionato e tagliato da Ford. Come anche del film di Capra e Joris Ivens Know Your Enemy: Japan (1945), considerato disumanizzante nella sua descrizione del nemico tanto che il generale MacArthur, al fronte, rifiutò di mostrarlo ai soldati dopo il lancio della bomba su Hiroshima, suggerendo perfino di non distribuirlo in patria.

Ma le questioni che la miniserie di Harris e Bouzereau condensa e solleva sono moltissime: il razzismo infatti non è riservato soltanto al nemico ma è anche dolorosamente intestino (The Negro Soldier, di Stuart Heisler, 1944); il rapporto di Hollywood con il Dipartimento della Guerra è serrato, ambiguo, contrastato (Let There Be Light, documentario di Huston su un ospedale per reduci, verrà occultato fino agli anni Ottanta); e gli stessi registi dovranno costantemente confrontarsi, volenti o nolenti, con delle esigenze politiche prima ancora che produttive o artistiche.

Soprattutto però, Five Came Back si addentra nel merito di una riflessione attualissima e particolarmente rilevante, quella del rapporto – non più necessariamente oppositivo o disgiuntivo – fra documentario e fiction, tra realtà e rappresentazione. Un caso emblematico, in questo senso, è il documentario che Huston gira in Italia nel piccolo paesino del casertano San Pietro Infine, per testimoniare l’audacia e il coraggio delle truppe americane che però, ahimè, all’arrivo del regista sono già andate via. Per questo, in The Battle of San Pietro (1945) i caduti sono autentici mentre le sequenze della battaglia sono ricostruite, come verrà svelato soltanto decenni più tardi. Ma se, paradossalmente, il senso ultimo della realtà fosse comunicabile più efficacemente attraverso la sua ricostruzione che non attraverso la sua restituzione nuda e cruda? Secondo lo stesso principio di continuità e non contraddizione tra documentario e finzione, Stevens, nel momento in cui si troverà a filmare la Liberazione di Parigi, chiederà personalmente a De Gaulle di “ripetere una scena” alla luce del sole, nel timore che quanto appena ripreso in penombra potesse poi risultare indistinguibile. Ma Stevens è anche l’autore di alcune tra le prime, insostenibili immagini che hanno svelato al mondo l’esistenza dei lager nazisti, le stesse che vediamo qui a colori, in tutta la loro sconvolgente e terrificante drammaticità. In seguito, le sequenze girate dal regista verranno utilizzate come prove durante il processo di Norimberga, a ribadire l’equazione immagine foto/cinematografica = documento/verità.

Questo, a sottolineare la complessità – e la feconda contraddittorietà, in un certo qual modo – dei molti e diversi spunti di analisi che Five Came Back chiama proficuamente in causa. Una miniserie della quale è sì protagonista il cinema, ma assieme al suo contesto produttivo-distributivo – del quale vengono evidenziate zone grigie e discontinuità – e al suo portato contenutistico che è al contempo politico, socio-culturale e umano.

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Laurent Bouzereau Paul Greengrass Steven Spielberg Guillermo del Toro Lawrence Kasdan Francis Ford Coppola 1 stagione da 3 episodi
Usa, 2017
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Rimetti a noi i nostri debiti

di Arianna Pagliara
Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito

Quello di Antonio Morabito (Carrara, 1972) è un cinema di argomenti solidi: patriarcato e tensioni familiari (Cecilia, 2001), politica, storia, anarchia (Non sono l’uno per cento – Anarchici a Carrara, 2007), disabilità (Che cos’è un Manrico, 2012), corruzione in ambito sanitario (Il venditore di medicine, 2014). Fino a Rimetti a noi i nostri debiti, favola nera dei nostri tempi che si concede un po’ di spassosa ironia ma alla fine lascia in bocca un sapore amarissimo.

Claudio Santamaria - già protagonista del penultimo lungometraggio di Morabito - è Guido, il personaggio chiave intorno al quale il regista costruisce il nucleo della tensione drammatica che domina il film: da un lato la necessità di salvare se stessi e tenersi a galla sempre e comunque accettando qualunque compromesso, dall’altro l’impossibilità di rinunciare completamente al proprio senso non solo di moralità e giustizia ma, più in generale, di umanità. Il dilemma è tutto qui: se la posta in gioco è davvero alta, quanto si è disposti a perdere della propria integrità?

Guido è un ex tecnico informatico finito, come tanti altri,  sul lastrico dopo il fallimento della ditta per la quale lavorava. Non ha più soldi per le bollette, per l’affitto e neppure per bere un ultimo bicchiere al bar sotto casa prima di affrontare un’altra notte di solitudine. Ma almeno ci sono le occhiate comprensive della cameriera a consolarlo e le chiacchiere del “Professore”, suo unico amico, che lo distrae con le sue teorie politiche - neppure tanto bislacche - snocciolate con appassionata convinzione intorno al tavolo da biliardo. Ad ogni palla corrisponde una nazione e a finire in buca, afferma lui, sono sempre gli stati economicamente più deboli: la Grecia, il Portogallo, l’Italia ovviamente. E questo, certamente, nessuno lo sa meglio di Guido considerato cosa gli sta accadendo.

Le cose cambieranno – in peggio? – quando il protagonista verrà aggredito dai suoi creditori e capirà di non avere altra scelta che lavorare gratuitamente per loro, fino a saldare il debito. Cosa dovrà fare? Semplice, quello che loro hanno appena tentato di fare con lui: riscuotere crediti. A formare Guido, direttamente sul campo, sarà Franco, un Marco Giallini comicamente sopra le righe, sgradevole, volgare, indisponente e a tratti perfino un po’ sadico. C’è tutto un mondo da conoscere: ci sono i poveracci come Guido, ma c’è anche chi invece potrebbe pagare e fa il furbo, o così sembra.  E c’è tutta una tecnica che bisogna padroneggiare: prima di arrivare alle maniere spicciole bisogna tormentare, stalkerare e umiliare, con perseveranza e spietatezza. La necessità di arrivare a fine mese avrà la meglio sull’imbarazzo, sulla vergogna e sul senso di colpa, e il protagonista - con gli occhi pieni di rancore e diffidenza - dovrà seguire fedelmente le orme del suo divertito, spavaldo mentore. Ma fino a quando?

Franco e Guido sono le due facce di questo presente, le due scelte possibili, le alternative che si escludono a vicenda. Tuttavia nessuno dei due rappresenta un assoluto. Il primo ha fatto una scelta netta, ma per blandire i (fin troppo deboli) sensi di colpa ricorre, pateticamente, alla confessione in chiesa e lusinga il suo ego con le auto nuove, il panorama alla finestra e il viso giovane – ben più giovane del suo – della bionda moglie straniera. Il prezzo di tutto questo è la quotidiana consapevolezza della propria banale mostruosità. Ci si può convivere? A Guido piacerebbe poter pensare di sì, ma sa che – come dice il Professore – per stare nel sistema, bisogna avere un po’ di sistema dentro di sé.

Per Franco è facile, perché prova un piacere sottile e inebriante perfino a prendersi gioco di una semplice cameriera, stropicciandole sotto al naso, con gusto, un’allettante banconota. Ma la stessa banconota, in mano a Guido, non fa lo stesso suono: perché lui - che tuttavia non è un santo né un eroe - in fondo (e per fortuna!) non riesce a rinunciare alla propria umanità, e prova soltanto un profondo, nauseante disagio. Eppure tenta e ritenta, lotta contro se stesso, chiude gli occhi per non vedere: se è questo che richiedono i tempi in cui vive, deve dimostrare di essere all’altezza. Oppure no?

La fluida regia di Morabito lascia molto spazio agli attori-personaggi perché si raccontino e raccontino i propri ruoli, ai quali aderiscono forse senza rinnovarsi – Santamaria sempre ombroso, compresso, malinconico e Giallini sempre beffardo, volitivo, pungente – ma tuttavia senza sbavature e indecisioni. Funzionano bene anche i personaggi di contorno, la cameriera Rina - amore perso per un soffio - e il Professore, spirito nobile smarrito tra grettezze e volgarità.

Lucida fotografia di un presente davvero desolante, Rimetti a noi i nostri debiti è un film in grado di parlare a un pubblico ampio mantenendo intatta la sua dose, non indifferente, di causticità e soprattutto il suo valore di critica sociale. Il suo linguaggio è piano, disinvolto, limpido, senza vezzi e l’ironia che lo permea è corrosiva, perché non blandisce, non edulcora e non concilia, come è giusto che sia.

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Antonio Morabito Claudio Santamaria Marco Giallini Agnieszka Zulewska 104 minuti
Italia, 2018
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Icarus

di Arianna Pagliara
Icarus di Bryan Fogel

Un ciclista amatoriale di fronte a una sfida, una provocazione, una missione più che singolare: dimostrare che è possibile doparsi in barba ai controlli, a patto che si scelgano oculatamente le modalità e le sostanze adatte. Questo il punto di partenza del documentario Icarus, nel quale il regista Bryan Fogel punta l’obiettivo su se stesso utilizzando il proprio corpo come terreno di sperimentazione. Tutto viene dimostrato e monitorato nel corso del tempo, tanto l’assunzione di sostanze (in quali dosi, in che modo, quali sono le reazioni che queste provocano) quanto gli effetti sulle prestazioni sportive.

Per attuare questa avventata operazione a proprio rischio e pericolo Fogel non agisce però in maniera autarchica, ma si rimette ai consigli dello scienziato russo Grigory Rodchenkov, personaggio ambiguo e dal passato burrascoso: nel 2005 diviene direttore del laboratorio nazionale russo antidoping, per essere poi indagato – a distanza di pochi anni - proprio per il traffico di sostanze dopanti. A questo punto lo scienziato tenterà il suicidio e finirà in un ospedale psichiatrico, fino a che le accuse contro di lui verranno (misteriosamente?) cancellate. Ma a quale condizione? Rodchenkov dovrà collaborare a quello che sarà un vero e proprio programma di doping messo in atto su larga scala con la connivenza di diverse autorità statali. Quando questo fatto verrà alla luce, trascinerà il mondo dello sport russo in uno scandalo senza precedenti.

E’ questo, in sintesi, che Icarus finisce per raccontare: non più gli esperimenti di Fogel, ma una pericolosissima partita a scacchi di portata internazionale che culminerà con la fuga di Rodchenkov negli Stati Uniti. Non più il tentativo di un singolo di infrangere le regole insomma, o la dimostrazione della facilità di questa eventuale infrazione, ma un vera e propria rete messa a punto proprio con la connivenza di quelle istituzioni che dovrebbero impedire e/o punire ogni possibile corruzione.

A prescindere dalla notorietà dei fatti raccontati, quello che scandalizza qui è la relativa elementarità delle modalità con cui questa grande macchina del doping è stata organizzata e messa in moto. Basti pensare che i flaconi di urina incriminata venivano fatti sparire dal laboratorio di turno attraverso un buco nel muro: nulla di più rudimentale, e al contempo nulla di più incredibile.

L’approccio di Fogel alla messa in scena è tendenzialmente televisivo ma non nel senso negativo del termine: montaggio rapido, sottofondo sonoro vivido e onnipresente a caricare di tensione e/o drammaticità determinati passaggi, forte senso di immediatezza. Il suo intento è quello di trascinare con forza lo spettatore in medias res, di non fargli mai percepire le cose come eventi che si svolgono oltre uno schermo, oltre un buco della serratura, oltre una certa distanza di sicurezza insomma. Sensazione rafforzata dal lavoro che viene fatto in senso cronologico: l’impressione che Icarus vuole dare è quella di aver fissato in immagini una serie di fatti nel momento del loro svolgersi, non a posteriori. Perché, in principio, l’operazione viene presentata come la testimonianza personale del regista/protagonista, ed è solo a poco a poco che la materia trattata deborda violentemente e le cose iniziano a rivelare le loro spaventose dimensioni. Rodchenkov diviene protagonista, e con lui quel clamoroso scandalo che ha coinvolto, con tutta probabilità, più di un migliaio di atleti nel corso di anni e anni, infangando il mondo dello sport in Russia e costando alla nazione l’esclusione dai giochi olimpici.

Premiato al Sundance Film Festival e al Sundance Film Festival: London nel 2017, Vincitore del premio Oscar come Miglior Documentario nel 2018, Icarus è in sintesi un ottimo esempio di documentario d’inchiesta che ha il merito non solo di approfondire ma anche di chiarificare gli aspetti più oscuri e fumosi e i risvolti più intricati e complessi di una situazione di estrema, sconcertante gravità.

Categoria
Bryan Fogel
Usa, 2017
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Il sogno di Omero

di Marco Marrapese
Il sogno di Omero di Emiliano Aiello

Nel tempo dello streaming, del satellite e delle mille possibilità di distribuzione e fruizione, gli audiovisivi sono ancora fortemente vincolati a regole e modelli, scritte o no, che devono essere rigidamente rispettate se un film vuole quantomeno sperare di ottenere uno spazio di visibilità e una fetta di mercato.  Da questo punto di vista, quando in questo panorama di formati omologhi si palesa un'opera capace di differenziarsi, riesce quantomeno ad attrarre verso di sé la curiosità del pubblico più attento, che la osserva proprio come si scruta un alieno.

È il caso del documentario Il sogno di Omero, un mediometraggio dall'anomala durata di quarantacinque minuti, sul quale Emiliano Aiello è stato a lavoro per diversi anni. Il regista romano è partito da una ricerca scientifica di Helder Bertolo, un biofisico dell'Università di Lisbona, che ha scoperto che i ciechi sognano esattamente come i vedenti, ovvero con gli stessi contenuti visuali. Aiello ha incontrato Gabriel, Rosa, Domenico, Fabio e Daniela, cinque non vedenti dalla nascita, persone quindi che non dispongono di una memoria visiva a cui far riferimento e che per l'occasione hanno appuntato le loro visioni oniriche in un audiodiario, che poi è diventato il fil rouge del racconto. Naturalmente il film prende le dovute distanze dal voler restituire uno spaccato del quotidiano vissuto dalle persone non vedenti, e non è neanche un test o un esperimento in cui cercare qualche prova scientifica sull'attività onirica di chi soffre di cecità congenita. A suo modo, Il sogno di Omero tenta di esplorare e mettere in scena i sogni degli stessi protagonisti attraverso un viaggio nell'interiorità e con una struttura ispirata all'Odissea di Omero, che è stato il primo grande scrittore cieco a parlare proprio di sogni. Il film, nel rispetto della sintonia con il tema che propone, riesce ad offrirsi nella sua visione abbandonando il primato dell'immagine e costruendo un racconto imperniato sulla parola e sui suoni. Un approccio che pare andare contro i principi alla base della costruzione di un racconto filmico, ma che soprattutto tenta di ridefinire i rapporti di forza tra suono e immagine, sbilanciandosi fortemente a favore del primo. Aiello opera una gerarchizzazione inedita degli elementi che costituiscono il suo racconto, mettendo al primo posto la voce dei protagonisti e i suoni, che dunque non sono più relegati ad un ruolo di accompagnamento delle immagini. Il depotenziamento della visione (ad esempio tramite l'uso di sfocature) è funzionale non solo per provare a simulare il possibile aspetto di una visione onirica, ma anche ad assegnare un plusvalore al suono.

Un film sulle visioni oniriche, in cui le immagini fanno da perimetro a una narrazione orale e di suoni, proprio come quella che tanto piaceva ad Omero.

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Emiliano Aiello 47 minuti
Italia, 2018
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La strada dei Samouni

di Arianna Pagliara
La strada dei Samouni di Stefano Savona

Periferia della città di Gaza, 2009. Un quartiere tranquillo, una famiglia di contadini, niente ribelli né soldati. Fino a quando i militari israeliani non danno inizio all’operazione “Piombo fuso”: nella strada dei Samouni arrivano i carri armati a sradicare ulivi centenari e a devastare i campi, mentre un gruppo di civili viene confinato in una casa che viene poi scientemente bombardata. Una vera e propria strage, muoiono in ventinove. Amal, una ragazzina, resta per tre giorni bloccata sotto le macerie, in mezzo ai cadaveri dei propri parenti, fino all’arrivo della croce rossa.

Un anno dopo, il regista Stefano Savona filmerà quel che resta di questo mondo devastato, offrendo ad Amal uno spazio per raccontarsi e raccontare. La bambina prenderà un bastone e traccerà un grande cerchio per terra: “qui c’era il sicomoro...” e così ha inizio la storia.

La strada dei Samouni è un film che sovrappone passato e presente, un prima e un dopo, le case e le macerie, il vuoto lasciato dai grandi alberi dove i bambini si arrampicavano. Adesso c’è un desolante spiazzo sterrato, infinite montagne di rottami (si può recuperare una pentola bruciata, ritrovare qualche mattonella intatta, una porta, una traccia di sangue), una grande tenda che funge da moschea, qualche ulivo stentato sfuggito alla furia cieca dei soldati. C’è perfino la voglia di ricominciare – “più loro sradicano, più io semino” – un’ostinazione potente e dolorosa ma sorprendentemente quasi priva di rancore.

Savona guarda le cose dall’interno, non teorizza, non commenta, non trae conclusioni, forse perché la realtà è così terribile che parla da sé. I morti che nella percezione comune subito diventano martiri – pianti e portati in trionfo con formule di rito - i partiti politici che cercano di strumentalizzare gli eventi, il bambino che da grande vuole unirsi ai ribelli per vendicare il padre, ucciso a bruciapelo sulla porta di casa, disarmato. La religione è un collante e uno scudo per una comunità che se non elaborasse i propri lutti in una dimensione sociale, pubblica e condivisa probabilmente sarebbe già andata alla deriva nella più totale follia. E invece, in un impeto vitalistico inspiegabile e commovente, persistono i tentativi di ricostruzione, e nuovi edifici vengono progettati accanto alle rovine – anche se il cemento scarseggia ed è carissimo – mentre i ragazzini, come fossero già adulti, difendono ostinatamente le terre dei padri che non ci sono più.

Al netto dell’indiscutibile valore intrinseco di un’operazione come questa, nella quale in ultimo i veri protagonisti sono appunto i bambini, l’importante film di Savona contiene in sé anche un piccolo gioiello, ovvero le splendide animazioni in bianco e nero di Simone Massi, visione fascinosa, fiaba che si insinua nel documento per raccontare il prima: il grande sicomoro, le corse nei campi, un pugno di olive scure nella mano, il terrazzo dello zio invaso dai colombi mentre si fanno progetti di futuri matrimoni, ma soprattutto il viso e i racconti del padre ora assente. E non viene in mente ipotesi migliore di questa per dare corpo e peso a quei segmenti cruciali di racconto dei quali, senza l’intervento di Massi, sarebbe rimasto solo l’eco e il ricordo angoscioso. Mentre le vivide immagini animate restituiscono i fatti allo spettatore in tutta la loro tragica concretezza, sfumandone sapientemente i confini nell’incubo (gli elefanti, gli uccelli) e accrescendone in questo modo l’impatto drammatico.

La strada dei Samouni è, in sintesi, esempio perfetto e mirabilmente riuscito delle tante, differenti valenze che il cinema può conciliare e includere in sé: cronaca, documento e testimonianza, indagine antropologica, ma al contempo racconto e affabulazione, riflessione e sperimentazione formale e linguistica e in ultimo necessario, urgente e doveroso atto politico.

 

Categoria
Stefano Savona 128 minuti
Italia, 2008
Immagine con larghezza massima
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