Blazing Fists

di Emanuele Polverino
recensione film Miike

Presentato all’ultimo International Film Festival di Rotterdam, Blazing Fists (o Blue Flight), è l’ennesimo tassello nella sconfinata filmografia del regista di culto Miike Takashi.
Sono passati sei anni dall’ispiratissimo First Love (2019), la storia di un giovane boxeur impegnato a salvare la vita del suo primo amore; nel mezzo, una serie di discutibilissime mega produzioni – una su tutte, quella con Disney per la serie Connect – e un mediometraggio tratto dall’omonimo manga di Tezuka Osamu: Midnight. Ed è proprio qui che Miike sembra gettare le basi per il suo ultimo lavoro, dichiaratamente ispirato alla storia del lottatore di MMA Asakura Mikuru, ma ben lontano dalle architetture del biopic classico. Come per First Love e Midnight, anche in Blazing Fists il regista nipponico decidere di fondere il suo cinema alla dimensione del fumetto. Ma se nei primi due film sembrava essere tutto un discorso di forma – le scene animate in First Love o le tavole di Tezuka in Midnight – per Blazing Fists il tutto si amplia, accoglie la narrazione che ricalca il classico racconto seinen per sfociare in un vero e proprio spokon, dove lo sport – un’altra volta da combattimento, ritorna il collegamento con First Love – si fa cantore di una rinascita personale e collettiva, dove il villain sembra mutare pian piano per tutta la storia, per ritornare idealmente alle inquadrature iniziali, tra le sbarre dell’istituto correttivo - mutato nell’ottagono da MMA - e l’ombra oppressiva dello Stato - incarnata dalla rampante progenie della classe dirigente.

Come per buona parte delle produzioni di Miike Takashi, anche Blazing Fists, scritto a quattro mani con Kibayashi Shin, è un film che parla di, e ai giovani. Ikuto Yagura (interpretato dall’esordiente Kinoshita Danhi) e Akai Ryoma (Yoshizawa Kaname) sono due diciasettenni che stanno scontando la loro condanna in riformatorio. Ikuto per un crimine che sembra non aver commesso – come del resto suo padre, in carcere per uno scambio di persona durante le indagini – Ryoma a causa di una bravata nel tentativo di sanare un grosso debito nei confronti della piccola gang di quartiere. Sarà un incontro con lo stesso Asakura Mikuru, ex fighter professionista e creatore del Breaking Down, un evento di arti marziali in cui fighter di ogni tipo si sfidano nell’arco di tempo di un solo round nel tentativo di strappare un contratto tra i professionisti, ad unire indissolubilmente le vite dei due.
Ed è nell’underground che Miike Takashi torna a raccontare le sue storie, di rivalsa e rivincita su un potere ormai insondabile e inafferrabile, nemico invisibile di intere generazioni e simbolo di una politica schiava della corruzione. Una ribellione che parte dallo schiaffo di una madre che prende le difese di un figlio schiacciato dalla (falsa) autorità di una guardia carceraria, e che passa per un amore giovanile riscoperto e ritrovato dopo anni. È dalle figure femminili che il cinema di Miike si mette in moto, le uniche in grado di mettere da parte l’orgoglio per riuscire a riscattarsi da un abisso senza fine. Miike ritorna nelle stradine più periferiche di Tokyo, quelle di Dead or Alive, Audition - la stessa Audition a cui i due amici prenderanno parte per partecipare al Breaking Down - o Rainy Dog. Dove è il dramma familiare, prodromo di un sentimento di rabbia comune, a divenire motore di tutto: dalla caduta nelle viscere della disperazione alla rinascita più scintillante, illuminata dalle sfavillanti luci del ring. 

“Can’t you see there’s life in him yet”, le parole del coach che osserva combattere per la prima volta Ikuto. È dagli occhi, che si intravedono tra i guantoni da boxe, nei movimenti soppesati e il respiro controllato, che scorre la voglia di rivalsa del giovane fighter. Un volto granitico, che sembra fondere la ferocia repressa di Shishido Jo – la prominenza della mascella di Yoshizawa Kaname che ricalca la fisionomia del grande attore giapponese - in La Giovinezza di una belva umana di Suzuki Seijun e la urla di ribellione di Joe in Ashita no Jo (Takamori Asao e Chiba Tetsuya), quello di Ikuto, inamovibile nelle sue decisioni. “I saw it in your eyes” dirà alla fine del film, rivolto a Ryoma, confessandogli un segreto che l’amico aveva cercato di tenergli nascosto fino a quel momento. La vita che scorre attraverso gli occhi, tra i dettagli di Miike che ne cattura gli sguardi, e la forza dei personaggi che ne sanno cogliere l’essenza. Quelli di un figlio, che percepiscono il cambiamento di una madre, divenuta più forte e risoluta, forgiata nelle difficoltà. Quelli di un padre, che si uniscono agli occhi del figlio nei riflessi di un vetro: “I’m fighting”. Combattere per tornare a vivere, accettare l’ostacolo per trasformare il proprio corpo in qualcosa di più. Plasmarlo per resistere ai colpi di uno yakuza d’altri tempi, uscito direttamente dalle pagine di un manga degli anni 80 – i biker che sfrecciano tra le strade di Tokyo come in Akira (Ōtomo Katsuhiro) – per prepararlo al mondo che verrà.

Corpi in prima linea, a difendere gli ideali. Tornare a scoprire come Miike sia sempre stato un regista politico, schierato senza mai risultare didascalico. Le immagini che dialogano con noi prima di ogni cosa, prima di ogni slogan urlato da uno dei personaggi. Attraverso i colpi nell’ottagono che scandiscono la rivolta, l’ipertrofia dei combattimenti nel sottosuolo di Tokyo che assurgono a manifesto di una rabbia generazionale, a simbolo di un’incomunicabilità radicata nel retroterra del popolo giapponese.
“The journey to my future begins now”, nulla è perduto, bisogna combattere.

Categoria
Takashi Miike Kinoshita Danhi Yoshizawa Kaname Terajima Susumu 120 minuti
Giappone 2025
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Grand Theft Hamlet

di Alessio Baronci
Grand Theft Hamlet - Documentario - Sam Crane

Inizia con un classicissimo establishing shot tipico dei prodotti machinima a cui inevitabilmente fa riferimento, Grand Theft Hamlet e forse svela già evidentemente la sua natura profonda, i suoi obiettivi, le sue paure.

La camera si attarda sugli ambienti urbani di Los Santos, segue i passanti comandati dalla CPU del software di gioco, crea un contesto, uno spazio scenico, ma soprattutto inserisce il progetto di Sam Crane e Pinny Grylls in un contesto riconoscibile. Potrebbe essere un approccio a suo modo comprensibile, il team dietro Grand Theft Hamlet sta scoprendo in realtà il mondo del gaming per la prima volta. Lei è una documentarista, lui è un attore inglese sempre in cerca dell’occasione giusta per sfondare, entrambi, tuttavia, vengono fermati dal lockdown, che ostacola soprattutto l’allestimento dell’Amleto di Shakespeare a cui Crane ed il suo amico Mark Oosterveen stavano lavorando prima dell’esplosione del Covid.

In quegli stessi giorni, tuttavia, i due scoprono il mondo di GTA Online, in cui migliaia di giocatori ogni giorno si incontrano sotto forma di avatar per mettere a ferro e fuoco la città o anche solo per ammazzare il tempo durante questo momento di sospensione sociale. E a questo punto perché non cogliere la palla al balzo ed allestire proprio lì, in quello spazio virtuale ma apparentemente immenso, quasi infinito e pieno di giocatori/spettatori/potenziali attori quello spettacolo a cui tanto hanno lavorato nel mondo vero?

Potrebbe davvero essere un testo fondamentale del contemporaneo, Grand Theft Hamlet, innervato com’è di continue tensioni legate allo spazio mediale con cui ci confrontiamo ogni giorno, dall’importanza del gioco al ruolo del surplus cognitivo, passando per le dinamiche performative da role play su cui si è fondato sempre più, negli anni, proprio il progetto Rockstar Games. Solo che è in mano a persone che conoscono solo superficialmente (per loro stessa ammissione) il mezzo su cui stanno lavorando, il suo linguaggio specifico, la sua prassi, i suoi spazi. Ecco spiegato allora quella riduzione alla leggibilità a tutti i costi che si nota fin dall’inizio, quella ricerca immediata del punto di fuga almeno nello spazio della sintassi (comunque cinematografica, al di là di qualsiasi cornice videoludica).

E si potrebbe in effetti davvero scrivere moltissimo di questo bisogno di controllo da parte del film, un’esigenza che lo porta, in primo luogo a guardare dalla parte sbagliata del contesto in cui si trova. È evidente, in particolare, nel primo atto, il più interessante, quello che registra meglio l’impatto dei protagonisti con un mondo distante anni luce da loro e che per questo diventa densissimo di spunti, dall’importanza del caos nella galassia di GTA Online alla nuova interpretazione degli spazi della città digitale passando per il confronto della troupe con un mondo che, più che non volere regole, è restìo ad una serie di istruzioni apparentemente lontane dal nucleo ludico del gioco originale.

Grand-Theft-Hamlet- Documentario- Sam Crane

Eppure Grand Theft Hamlet sembra sottovalutare l’importanza di dettagli che, in prospettiva, avrebbero potuto reggere il film da soli. Li accantona quasi subito, troppo fumosi, forse, per un gruppo di persone che cerca griglie sempre più solide per leggere (e far leggere) ciò che in cui sono impegnati. Sia chiaro, il film non condanna mai il gaming ma dopo questo folle, lucidissimo prologo quell’immaginario viene guardato sempre più dalla distanza: qualcosa si rompe, gran parte del carico di riflessioni stimolato dal film finisce in tralice. La Los Santos di Rockstar Games non è più uno spazio da esplorare ma un luogo in cui Mark e Sam devono sopravvivere alla bell’e meglio, ben diverso, si faccia anzi attenzione a confondere le cose, da quella vita vera da cui provengono notizie tremende, l’assenza di prospettive, addirittura l’improvvisa morte per COVID dell’ultimo parente di Mark.

Ma così il film impiega pochissimo a divenire un lavoro quasi d’antiquariato, un classico documentario sul dietro le quinte di un progetto (con tutti i crismi del caso, dal momento di scoramento del cast alla rinascita, passando per la tradizionale improvvisa intuizione che spariglia le carte in tavola fino alla risoluzione del conflitto), quando non un altrettanto tradizionale COVID Movie, ancora incastrato in dinamiche note, comprensibile sebbene, certamente, ravvivato da un’atmosfera straniante.

Sul fondo rimane una sorta di garbata ironia, un retrogusto forse involontariamente saccente che lascia intendere come in un videogioco in cui la gente si spara addosso e rapina i minimarket (ma sarà davvero solo questo?) si possa parlare di morte, di epidemie, insomma della serietà di quel quotidiano che di solito resta fuori dal gameplay.

E per assurdo in quel mondo si può perfino fare teatro. Eppure quando Grand Theft Hamlet si lancia in quel tipo di racconto manca di entusiasmo, come se, ancora, Mark e gli altri facessero fatica ad appassionarsi davvero ad un progetto incastrato in uno spazio che continua a rimanere indefinito. Shakespeare non può dunque che rimanere Shakespeare, inerte a qualsiasi affascinante ribaltamento o rilettura nutrita da un contesto così inedito e spiazzante e dal punto di vista dei registi la citta di Los Santos è soprattutto una sorta di eterotopia da esplorare alla ricerca di landmarks dove installarsi, nuovi set su cui organizzare lo spettacolo, luoghi vuoti di cui prendere possesso, attorno a cui organizzare strutture performative in realtà classicissime.

Ecco, questo è forse il più grande tiro a vuoto del progetto, uno svelamento che racconta soprattutto quanto l’operazione di Crane e Grylls assomigli soprattutto ad una sorta di gentrificazione, ad un medium lasciato invecchiare come il teatro che prende possesso di un’ultima roccaforte libera, quella del gaming e la piega alle sue regole, la incasella, spegne l’anarchia che l’ha nutrita fino a quel momento, non arriva forse a costringere i giocatori a recitare ma forse svela quanto a questi ultimi piaccia farlo molto più che giocare ai malviventi.

E forse, in questo senso, non è un caso se il film si chiuda con una domanda apparentemente gioiosa ma in realtà particolarmente inquietante: "What now?" "E ora?" si chiedono i due protagonisti. Come a cercare nuovi modi per giocare, divertirsi, ma anche altri spazi da conquistare.

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Sam Crane Pinny Grylls Mark Oostervenn Sam Crane Tilly Stelle 90 minuti
Gran Bretagna, 2024
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The Brutalist

di Rosario Gallone
brutalist recensione film

Era il 21 novembre del 2014 e Roy Menarini si chiedeva, in un pezzo sul sito di Scenari, rivista di approfondimento di Mimesis Edizioni, se, al pari di un Grande Romanzo Americano, si potesse individuare anche una categoria definibile Grande Film Americano. La risposta, affermativa, lo vedeva elencare, tra i possibili titoli, The Tree of Life di Terrence Malick, Boyhood di Richard Linklater, Interstellar di Christopher Nolan, Gran Torino di Clint Eastwood e Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Ed è proprio da Il petroliere che il processo entra in una fase diversa, in un percorso inedito di de-spettacolarizzazione della Storia Americana e del Cinema Americano. O della Storia Americana così come raccontata dal Cinema Americano. Cos’altro è il film con Daniel Day-Lewis se non una rivisitazione di Greed, Il figlio di Giuda e Il gigante asciugata dello spettacolo? C’è in tutti un incontro/scontro tra Religione e Capitale, le due anime che intossicano l’America (che, infatti, nel successivo Vizio di forma sarà indicata come “tossica”). Quell’America che, nell’incipit di Il petroliere, partorisce (fisicamente, dalla terra) Daniel Plainview, ovvero la deriva sociopatica del Capitale cui si opporrà (ma è davvero così?) Eli Sunday. E quest’ultimo torna a sua volta, risorge (o continua a esistere) in The Master, dove cambia nome e diventa Lancaster Dodd (Lancaster come il Burt di Il figlio di Giuda, di nuovo), un uomo che fa del suo sapere (è un fisico) l’arma con cui incastrare i deboli (gli ignoranti, i creduloni). Fred Quell (Joaquin Phoenix), invece è un sociopatico come Daniel, la Guerra lo ha reso tale. La Guerra e quel Sogno Americano che viene promesso a tutti, ma donato a pochi. Fred è un rebel without a cause (il titolo originale di Gioventù bruciata) e Lancaster provvede a trovargliela (la Causa è il nome del culto che fonda). Ancora una volta l’America sembra fare tutto e il contrario di tutto: il capitalismo e la sua demonizzazione, la ribellione e il suo ingabbiamento (in Vizio di forma la tossicodipendenza e la disintossicazione). In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, ovvero il business. Tutto è affare in America.

La dialettica business/arte/architettura è anche quella alla base di The Brutalist, ma stavolta il protagonista è un immigrato (anch'egli rovinato come Quell dalla Guerra) che, pertanto, si scontrerà col razzismo latente di una élite che, proprio perché non originaria di un paese (al pari dello stesso László Tóth), si arroga un diritto di prelazione sulla terra che è solo e unicamente commerciale, acquisito coi soldi. Questa élite non è l'America, ne è diventata sua padrona grazie al denaro. D'altro canto in Cena con delitto di Rian Johnson e Finché morte non ci separi di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett abbiamo due famiglie simili ai Van Buren di The Brutalist: ricconi che rivendicano una "storia" che non hanno e che trattano con ipocrita condiscendenza, salvo rivoltarglisi contro, chi considerano un usurpatore (un'immigrata nel primo e una “plebea” nel secondo). La differenza è che mentre quelli di Johnson e di Bettinelli-Olpin/Gillett sono prodotti di genere che inquadrano la prima America di Trump, Corbet, e non da ora, ha ben altre ambizioni autoriali (e il suo film acquisisce senso aggiunto nel venire distribuito durante il secondo mandato, non consecutivo, del tycoon americano).

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Quello intrapreso da Corbet è quasi un viaggio al contrario: un attore americano che professionalmente matura in Europa, tra Assayas, Bonello, Östlund, Haneke, Hansen-Løve e Von Trier, e che da questa prospettiva (corroborata dalla condivisione con la compagna e coautrice norvegese, Mona Fastvold, il cui ruolo è tutt'altro che ancillare), giunge alla sua terza regia (dopo The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo del 2015 e Vox Lux del 2018) per mettere in scena un'America "stuprata" i cui violentatori sono alla continua ricerca di una sorta di "art washing" con cui mondare i loro peccati mentre di fatto ne perpetuano l’abuso (si pensi ai Sackler – ancora una volta tossicodipendenza e disintossicazione come due facce dello stesso business - e al MET di New York, così ben raccontati in Tutta la bellezza e il dolore - All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras). L'arte è fumo negli occhi dietro cui celare la logica del profitto, unico motore di un'intera nazione. Pure Corbet, un americano dal sentire europeo, ricorre a un ideale trompe-l'œil. Il suo fumo negli occhi è il VistaVision, formato di pellicola tipico del kolossal, per un'opera che, al contrario, è quasi intimista, e in cui gli unici campi lunghi sono a Carrara e a Venezia, mentre nella parte americana (che, in un gioco metalinguistico intrigante, è ricostruita a Budapest, ovvero nell'Ungheria da cui proviene il protagonista) prevalgono le inquadrature antropocentriche. I grandi spazi, l'immensità e la magnificenza, in The Brutalist, sono europee, negli Usa se ne può avere solo una riproduzione in sedicesimo. E allora qual è il Sogno? Quello rovesciato di una libertà, solo illusoria, di un europeo immigrato in America o quello di un autore americano libero di esprimersi solo in Europa (come Orson Welles, Joseph Losey e, di recente, Woody Allen)? La scelta è sicuramente dipesa anche dal budget limitato (10 milioni di dollari per soli 34 giorni di riprese), che non avrebbe consentito una ricostruzione tale da poter essere sfoggiata in inquadrature di ampio respiro, ragion per cui potremmo azzardare che The Brutalsit è un film brutalista, che punta all'essenziale, mostra la struttura, è imperfetto nel suo eccesso, disdegna gli orpelli che fanno lievitare il budget. È arte vs capitale. E l'arte vs il capitale è il cinema. Tutta la carriera da regista di Corbet è improntata su questa volontà di non scendere a compromessi con l'idea di merce che Hollywood auspica, e quindi al disegno, ostinatamente perseguito (come Tóth), di non farsi violentare dal Capitale. La sua libertà è rovesciata, è un'indipendenza conquistata con la diaspora. Ha un costo, ma è decisamente più contenuto rispetto a quello pagato da chi insegue il Sogno Americano.

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Brady Corbet Adrien Brody Guy Pearce Felicity Jones Stacy Martin Joe Alwyn Raffey Cassidy Alessandro Nivola 215 minuti
USA 2024
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A Complete Unknown

di Alessio Baronci
A Complete Unknown - recensione film Mangold

Forse era già tutto nello stranissimo, straniante incipit di Indiana Jones ed il Quadrante Del Destino, quello con il treno in corsa, la fuga, come nei western del canone e il protagonista interpretato da un Harrison Ford vistosamente ringiovanito a colpi di CGI, che si muove fluido e agile malgrado i quasi ottant’anni tra gli scompartimenti di quel treno come un personaggio di Call Of Duty. È un prologo che assomma in sé le fondamenta del cinema di James Mangold, il tentativo di ricostruire e preservare il passato, il suo rapporto prorompente e violento con il contemporaneo, forse soprattutto la tradizione e la presenza tangibile del suo regista sulla scena, che prende posizione, ragiona sui caratteri, sui limiti di questi clash. Tradisce in maniera giocosa la sua presenza, Mangold, dice “io sono qui” e forse evidenzia quanto in certo cinema contemporaneo l’emersione dell’autore tra le immagini stia tornando a essere un fatto non secondario e la decisione dell’esatta posizione del punto macchina (fino a esiti concettualmente coraggiosissimi, da Zemeckis all’ultimo Albert Serra) sia divenendo, di nuovo, un fatto politico.

Fare cinema, ancor meglio, posizionarsi all’interno di un flusso, di una tradizione, è un fatto fisico, sembra lasciar intendere Mangold, e forse è anche per questo che in A Complete Unknown sceglie di raccontare proprio “quel momento” della vita di Bob Dylan, quello della svolta elettrica, e forse è anche per questo che il film inizia con il primo di moltissimi pellegrinaggi del giovane cantautore al capezzale del malato ma ancora agguerrito Woody Guthrie, eminenza, archivio, senatore di quel folk di cui Dylan vorrebbe cogliere lo spirito e divenire erede. Dylan passeggia nella New York notturna, si perde, finisce in periferia, capisce che parlare con Guthrie è qualcosa di molto simile a una prova da conquistare e forse è solo attraverso questa strana lente tutta materiale, legata alla fatica, che Mangold pare trovare la quadra del suo cinema postclassico, qui forse all’apice di un passo convintamente analogico, con cui si affanna a costruire attorno al suo racconto di formazione un mondo che costantemente pare voler accogliere immagini, riferimenti, spunti tutti da riordinare: dallo sguardo sporco, quasi gonzo con cui D.A. Pennbaker raccontò il cantautore nel suo leggendario documentario del 1967 al mastodontico lavoro che Todd Haynes dedicò a Dylan agli inizi degli anni ’00,  passando per la polvere, il fumo, i libri e gli arredi eccentrici del Greenwich Village, per lo spirito del racconto di frontiera, come ha detto qualcuno, e soprattutto per una coralità quasi altmaniana (e se il primo referente del film fosse un classico come Nashville?).

Ci sarebbe da ragionare su questo approccio, su questa rincorsa all’archivio, su questa tradizione, su questa memoria ricostruita a forza di sangue e sudore (ancora, un fatto fisico…) su cui sembra stia perdendo il sonno parecchio cinema americano, o che comunque guarda a un immaginario mai così american made (anche Here, in fondo fa un discorso simile), come se certi registi intuissero qualcosa di catastrofico stagliarsi sull’orizzonte e volessero provare a preservare con le unghie e con i denti la cultura occidentale in tutta la sua complessità. A colpire, però, del florilegio di immaginari mosso da Mangold, è una singola inquadratura, un punto fisso che esorbita dal caos. A un certo punto, durante il primo incontro tra Bob Dylan e Sylvie Russo, lo sguardo di Mangold (come quello di Dylan) viene attratto da Alan Lomax, impegnato a registrare stralci del concerto che stanno ascoltando i due protagonisti. Alan Lomax è stato musicista folk ma soprattutto etnomusicologo tra i più importanti del secolo scorso. La sua vita è stata votata alla registrazione e all'archiviazione della memoria sonora americana, della sua tradizione popolare nel senso più stretto del termine, quello della pancia d'America, della provincia, che la crescente urbanizzazione e il progresso rischiavano di far scomparire. Non è scontato. Al di là di qualsiasi iperbole, A Complete Unknown potrebbe davvero essere contenuto in questa brevissima sequenza, che non solo sostiene il racconto ma forse definisce senza possibilità di fraintendimento il senso dell’operazione di Mangold e del suo ruolo all’interno di essa.

A Complete Unknown - recensione film Mangold

L’archivio, ormai è chiaro, è uno spazio ideologico ma in Mangold la sua costruzione nasconde qualcosa di accademico, didattico in un certo qual modo. Si riuniscono immagini, spunti, dettagli per rimettere ordine nella scala dei piani e delle priorità, per reimparare ad approcciare, a guardare la Storia, come in fondo già ha provato a fare Justin Kurzel nel bel The Order, che rimbalza, seguendo le coordinate del thriller, tra i numi del genere, da Sam Peckinpah a John Boorman a Point Break e Kathryn Bigelow. Ma forse anche per mettere in discussione ciò che si intende per Storia stessa.

È un film profondamente politico ma soprattutto coraggioso, A Complete Unknown, perché trova la forza di fare le domanda più scomode, di chiedersi cosa sia, davvero, la Storia, la tradizione, il passato e forse soprattutto di dire, apertamente, all'America contemporanea (non dissimile da quella di sessant'anni fa) che non sa più raccontare il suo passato, descrivere la sua tradizione, forse persino capire gli americani. E così il giovane Dylan lotta per posizionarsi in un flusso culturale protetto, tuttavia, da freddi intellettuali che si definiscono custodi del folk più puro ma che in realtà non possono essere più lontani dal popolo stesso, difensori di uno spazio polveroso, che non si guardano attorno per rendersi conto di quanto folk ci sia nell’R&B nero in cui Dylan sembra intuire il (suo) futuro.

Eppure sarebbe così facile riequilibrare lo scontro. Basterebbe uno scambio di chitarre, un avvicendamento sul palco di Newport tra Dylan e Johnny Cash, che Mangold inscena con un’ironia quasi da melò (che sia il “suo” Cash, quello di Walk The Line? Che sia un altro modo per dirsi “degno” del canone?), tradendo lo sguardo guascone di chi vuole portare la tua attenzione sull’architettura del racconto, sull’exploit finzionale che irrompe nella dimensione realistica. Come a dire che la pace, l’equilibrio competono solo al cinema, nel mondo vero c’è ancora troppo da fare per arrivare allo stesso risultato.

Categoria
James Mangold Timothée Chalamet Elle Fanning Monica Barbaro Edward Norton 141 minuti
USA 2024
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La metamorfosi dello sguardo: Wolf Man

di Jacopo Bonanni
Locandina

                                                                                        “Guardati dalla luna!” - John Landis

Fin dagli albori della civiltà, il fenomeno della metamorfosi, comune a tutte le tradizioni folkloriche, si configura come uno dei mitologemi più radicati e diffusi nell'immaginario collettivo, al pari del patto faustiano con il demonio. L’influenza di questo processo, ereditato dai culti totemici, risulta ancora più evidente se ne analizziamo la complessità delle implicazioni filosofiche e l’impatto culturale esercitato sulla nostra società. Basti pensare all’inquietante metamorfosi in insetto di Gregor Samsa, che nel celebre racconto di Kafka non si limita a rappresentare la trasformazione in altro ma diventa simbolo della perdita stessa di ogni forma, traducendo in chiave esistenziale l’incapacità umana di cogliere la verità del mondo circostante. Oppure alla radicale mutazione dell’attrice Demi Moore in The Substance, in cui Coralie Fargat attualizza i paradigmi del body horror per offrire una riflessione lucida e affilata sul rapporto morboso e autodistruttivo tra identità e immagine nella contemporaneità, sostenendo l'assunto per cui «noi esistiamo solo in quanto immagini» (Bocchi) e pertanto siamo impreparati ad accettare il nostro inesorabile decadimento: la nostra metamorfosi biologica.

The Substance

Sempre nell’ambito cinematografico, l’icona polisemica del licantropo, esiliato a causa della sua natura ibrida e blasfema, ha rivestito un ruolo cruciale nel dibattito sull’evoluzione dello sguardo e sul conflitto tra tradizione e innovazione nel cinema horror contemporaneo. Come ha osservato Craig Ian Mann nel suo saggio Phases of the Moon: A Cultural History of the Werewolf Film, anche l’evoluzione dell’archetipo del lupo, prima demonizzato e poi rivalutato, non è un processo recente, tuttavia ha raggiunto una piena consacrazione a livello mediatico soltanto a partire dagli anni Ottanta, grazie a un trittico imprescindibile per ogni appassionato: Un lupo mannaro americano a Londra, L'ululato e Wolfen, la belva immortale. Questi film non soltanto hanno sancito definitivamente la rottura col passato ma hanno emancipato il licantropo dal ruolo di eterno comprimario nelle produzioni hollywoodiane.

Wolfen

Da allora, tutte le opere dedicate ai lupi mannari, anche quelle ritenute mediocri dalla critica, oltre a incentivare i progressi tecnologici in materia di effetti speciali, hanno plasmato una nuova generazione di autori, affascinati dalla rappresentazione, simbolica e non, del mostro sul grande schermo. Tra le interpretazioni più originali degli ultimi anni, tralasciando parodie discutibili come WolfCop e Werewolves Within, spiccano titoli capaci di oltrepassare i confini del genere per intercettare le istanze socioculturali del nostro tempo, come il glaciale When Animals Dream, il grottesco The Wolf of Snow Hollow e il crepuscolare Blackout di Larry Fessenden.

Blackout

Oggi, però, la voce più autorevole in materia diventa quella dell’australiano Leigh Whannell, il cui Wolf Man è la storia di uomo diviso a metà, alla ricerca del suo posto nel mondo. Il film, dichiaratamente ispirato alle dinamiche del lockdown, esplora il collasso delle figure genitoriali e la disintegrazione delle relazioni interpersonali all’interno di un nucleo familiare, isolato e minacciato dall'insorgere di un'epidemia sconosciuta, simboleggiata dall’apparizione di un misterioso licantropo, che costringe i protagonisti a barricarsi nella propria abitazione per difendersi dagli esiti imprevisti di un possibile contagio. Questo è ciò che il regista sembra suggerirci all’inizio, ma cosa accadrebbe invece se ci fossimo sbagliati, se il pericolo non provenisse dall’esterno, se il “nemico invisibile”, o meglio asintomatico, fosse già uno degli abitanti della casa? Per Whannell, la risposta è negli occhi di chi guarda.

Wolf Man

Il film prosegue la riflessione iniziata dal regista con L’uomo invisibile sul valore politico delle immagini, intese come strumento di analisi del presente, per mettere a fuoco le ragioni psicologiche e le modalità di rappresentazione delle angosce palpitanti della società, che albergano dentro e fuori dalla mura domestiche. Se nel lavoro precedente Whannell analizzava il tema del controllo e della manipolazione in una relazione tossica, stavolta con Wolf Man si interroga sulla crisi dell’identità maschile e la stigmatizzazione della malattia mentale attraverso la metamorfosi di Blake Lovell: un padre di famiglia, incompreso e vulnerabile, destinato a trasformarsi in una creatura estranea, una minaccia non tanto per sé stesso quanto per i suoi familiari. Nel film, il personaggio interpretato da Christopher Abbott vive in uno stato di coscienza alterato, sospeso tra il terrore di essere emarginato e il bisogno di essere accettato, in un crescendo di frustrazione che esplicita la condizione di disorientamento congenita del genere umano.

Curse of the Werewolf

A differenza dell’iconografia tradizionale, dove la trasformazione in lupo mannaro era associata a un’antica maledizione connessa ai cicli lunari, nella contemporaneità l’“implacabile condanna” perde il suo alone mistico e leggendario. Infatti, secondo la versione proposta dal regista australiano, la licantropia si configura piuttosto come un morbo contemporaneo, il frutto di un retaggio patriarcale ereditario da combattere e sradicare. Il dramma personale di Blake Lovell, a cui viene sottratta ogni possibilità di appartenenza e di legame affettivo, ne è un esempio emblematico. La sua crisi interiore affonda le radici nel trauma infantile legato alla perdita del padre: una presenza opprimente e intimidatoria che continua a ossessionarlo, minando la sua vita sentimentale. È questa la ragione che lo spinge a tornare nel luogo dove tutto ha avuto origine, nel tentativo disperato di saldare il suo debito con il passato. Non è dunque la mutazione in sé a trasformarlo in un mostro ma un conflitto irrisolto, che innesca un processo di spersonalizzazione e regressione allo stato bestiale. Durante l’arco della visione, Blake non si trasformerà in un’entità sovrannaturale bensì nell’ incarnazione del genitore che ha sempre temuto, perpetuando così quel ciclo di violenza e sopraffazione da cui aveva sempre cercato di affrancarsi fino al tragico epilogo.  

Wolf Man

Nell’adattamento di Whannell, ispirato all’omonimo cult diretto da George Waggner, non c’è spazio per l’autocompiacimento nostalgico, tantomeno per il manierismo calligrafico, involontariamente caricaturale, di un’operazione “tassidermica” come il remake di Joe Johnston con Benicio Del Toro. Da questo punto di vista, Wolf Man condivide con il Nosferatu di Robert Eggers quell’urgenza autoriale di risemantizzare le icone del terrore alla luce di una fase storica contraddistinta da cambiamenti epocali: entrambi i film sono testimoni di una trasformazione collettiva, l'orrore non proviene più dall'esterno ma da una rarefazione personale.

Nosferatu

Viviamo in un mondo profondamente segnato dall’esperienza pandemica, che ha stravolto il nostro tessuto sociale e ridefinito l’assioma “homo homini lupus”: l’uomo si trasforma e fagocita i suoi simili, ma sulla base di nuovi parametri. Temi ricorrenti come l’isolamento, la paura del contagio e la percezione dell’altro come minaccia hanno riportato in superfice paure ancestrali che il cinema horror ha saputo aggiornare e trasfigurare. La vera metamorfosi, in definitiva, è quella dello sguardo: ciò che un tempo escludevamo a priori, in quanto ritenuto inverosimile, è diventato reale, e la nostra stessa percezione della realtà ne esce irrimediabilmente mutata. Ed è proprio questa consapevolezza a provocare nello spettatore un senso di disagio alla fine della visione che si protrae nel tempo, ben oltre i titoli di coda. 

Categoria
Leigh Whannell Christopher Abbott Julia Garner Matilda Firth 103 minuti
USA, 2025
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The Girl with the Needle

di Mattia Caruso
The girl with the needle - recensione film von horn

Sin dalla sequenza iniziale di The Girl with the Needle, con quel montaggio di volti distorti che si alternano e sovrappongono tra loro, richiamando, da una parte, i ritratti di Francis Bacon, dall'altra, inevitabilmente, il Bergman di Persona, è chiaro come il film di Magnus von Horn (Sweat) – disponibile su MUBI e candidato all'Oscar come miglior film internazionale – tradisca una certa ambizione. Nella fiaba (bianco e) nera di Karoline (Vic Carmen Sonne), giovane sarta di Copenaghen con un marito disperso in guerra (siamo nel 1919), sedotta e abbandonata dal padrone della fabbrica in cui lavora e ritrovatasi ad affrontare, sola e senza lavoro, una gravidanza oramai ingestibile e un ritorno inaspettato, c'è infatti tutta la forza di un cinema estremamente consapevole di sé.

Dalle atmosfere che richiamano apertamente l'espressionismo tedesco, passando per una messa in scena che interroga continuamente la storia della settima arte e il modo in cui, nel tempo, ha saputo guardare la realtà, tra intermezzi grotteschi che citano i Freaks di Tod Browning, rimandi a M – Il mostro di Düsseldorf e viaggi alle origini del mezzo, fino alla citazione esplicita de L'uscita dalle officine Lumière, sembra infatti che The Girl with The Needle cerchi continuamente un proprio sguardo, il modo esatto e la giusta distanza per raccontare una storia dell'orrore tanto reale (la vicenda di Karoline si intreccerà, suo malgrado, con un terrificante fatto di cronaca nera del tempo) quanto trasfigurata dalle sue infinite suggestioni.
È una discesa nell'inferno di un'umanità disperata, del resto, quella raccontata da von Horn. Una storia di sopravvivenza tutta femminile in una Copenaghen sconfitta e sfigurata tanto moralmente quanto fisicamente, dove l'orrore sembra all'ordine del giorno. Un affresco lugubre e nerissimo raccontato dal regista attraverso uno stile muscolare, un'eleganza formale carica di riferimenti e di un citazionismo fuori controllo ma anche ricca di trovate e spunti interessanti.

Dividendo, tra colpi di scena e svolte repentine, il suo racconto in due parti ben distinte, il regista passa così dal dramma sociale dagli echi quasi dickensiani a una cupissima storia di serial killer. Con l'ingresso in scena di Dagmar (Trine Dyrholm), donna di mezza età che accoglie i neonati non voluti per poi affidarli, così dice, a famiglie benestanti, l'orrore da privato si fa definitivamente collettivo, colorando di risvolti oscuri e terribili persino il concetto stesso di maternità. Un orrore a tratti insostenibile, che scuote le coscienze e parla la lingua della disperazione. Quella di un'umanità ormai abituata a voltare la testa, così assuefatta dall'orrore da guardare da un'altra parte mentre il Male fa il suo corso.

È questa assuefazione all'orrore e a una miseria prima di tutto morale, forse, il punto di The Girl with the Needle. Una parabola che – con la sua forma esasperata e il primeggiare delle immagini su qualsiasi approfondimento psicologico o emotivo dei personaggi – potrebbe tradire un certo compiacimento o sembrare un semplice esercizio di stile, ma che in realtà, nel suo racconto di un'umanità sempre a un passo dal grottesco ma mai abbastanza da mettere una barriera tra sé e lo spettatore, parla del nostro tempo più di quanto si potrebbe immaginare.

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Magnus von Horn Vic Carmen Sonne Trine Dyrholm Besir Zeciri 115 minuti
Danimarca, Polonia, Svezia 2024
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"So cosa hai fatto" - Intervista a Pier Maria Bocchi

di Simone Rossi
so cosa hai fatto recensione libro bocchi

So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell'horror moderno esce lo scorso settembre per i tipi di Edizioni Lindau. Da quel momento Pier Maria Bocchi lo va presentando in tour in tutta Italia e intanto si susseguono le ristampe. Insomma, un clamoroso successo editoriale. «Un libro che mi aspettava» ha detto lui. Un libro che aspettavamo evidentemente anche tutti noi. E siccome le passioni – quelle belle, quelle sane - vanno alimentate, ho pensato di intervistare Pier Maria nel tentativo di espandere ulteriormente il discorso attorno a un genere, l'horror, che «ascolta sempre la realtà: nei casi migliori la ricostruisce, la combatte, le risponde a tono; nei casi peggiori, la lusinga».

Ciao Pier Maria. Come una rockstar sei in tour da mesi col tuo libro. Ci sono stati incontri che hanno lasciato un segno particolare?
Ti confesso che l'incontro fatto a Bologna alla Libreria di Cinema Teatro e Musica è stato abbastanza toccante. La libreria stava chiudendo dopo 35 anni di attività, e il mio è stato l'ultimo incontro. Il proprietario è un caro amico di sempre e l'esperienza mi ha emotivamente coinvolto.

Come scrivi nell'introduzione il titolo del libro ha un significato duplice: «volutamente confidenziale, che ha l'ambizione di rivolgersi tanto al genere di riferimento quanto a me». Subito dopo parlando di tuo marito Luca Malavasi spieghi come ami l'horror, ma non riesca a vederlo da solo per paura degli incubi. Per te, invece, la visione horror è un fatto privato o collettivo? E in tempi di conflitto piattaforma-sala, possiamo parlare di un genere che non si è mai posto il problema dell'esperienza individuale?
Partendo da Luca sì, è proprio così: non riesce a guardare l'horror da solo. Vero anche che è il genere che più di tutti non si è mai posto il problema della visione in solitaria e magari anche isolata. Ma ci sono delle eccezioni abbastanza importanti. Una delle quali analizzo nel libro, su cui torno più volte, e cioè la visione collettiva nei festival. Prendiamo Bruxelles. Il primo anno al BIFFF lo ricordo come uno shock perché l'horror per me era davvero una questione privata, anche in senso spettatoriale, di pura fruizione. Anzi, mi sono sempre volutamente allontanato dalla visione di gruppo nel timore che gli amici potessero rovinarmi la visione. Accadeva solo con l'horror, con gli amici guardavo tutto il resto. Mi prendeva un timore irrazionale di vedere rovinato il godimento e il rapporto esclusivo e ossessivo che da sempre intrattengo col genere. Al BIFFF mi trovai immerso in una sala di mostruosi caciaroni che da quando si spegnevano le luci fino a che non tornavano, seguivano una sorta di rituale dialettico, con battute programmate che si rilanciavano, con esclamazioni e urla ad hoc: per me fu davvero sconcertante e pensai che non avrei potuto vedere i film in quelle condizioni, che mi sarei rifugiato nelle semi-deserte proiezioni stampa. Poi a poco a poco ho capito e un po' mi sono fatto trascinare dalla corrente, benché le battute fossero quasi tutte in fiammingo e io non ci capissi una mazza! Ho cercato di adeguarmi al flusso di questa cosa estremamente gioiosa e a suo modo estremamente seria da condividere. Capii che per loro era davvero una religione. Così ho cominciato ad apprezzarla.

E oggi? Ti dividi tra sala e privato oppure no?
Devo dire che più invecchio più mi sento a mio agio quando guardo i film da solo. Anche alle anteprime stampa a Milano, che per noi sono la manna, ammetto una costante, ma inesorabile tendenza all'abbandono. Perché ho sempre detestato, anche ai festival, questa sorta di ansia del dover esprimere il proprio parere appena finiscono i titoli di coda. È una cosa che più vado avanti e più fatico ad accettare. A volte me ne scappo proprio, sarò un po' cafone, ma proprio non riesco. Non è una questione di sacralità del proprio giudizio, ma voglio che il film mi lavori dentro. Ci sono amici e colleghi che sono l'esatto contrario e io intanto penso “no, state zitti per favore!”. La verità è che io adoro guardare i film da solo, andare al cinema da solo. In questo senso i festival sono per me deleteri perché lì non scappi dall'opinione freschissima. Appena finisce un film ti rimetti in fila con qualcuno che era in sala con te un momento prima e sei in trappola...

pupi avati

Torniamo alle origini. C'è stata una persona che ti ha avviato alla visione del cinema horror o hai fatto tutto da solo?
No, non c'è stata una persona. Sono state mie visioni infantili, ero molto piccolo, avrò avuto otto-nove anni. Mi ricordo che ero a casa di mia nonna e di una rassegna di cinema italiano dell'orrore che passava in Rai, credo in prima serata. Ho nitidamente in testa almeno tre titoli: La casa dalle finestre che ridono, e poi due film di Giorgio Ferroni, Il mulino delle donne di pietra e La notte dei diavoli. Mi fecero una paura pazzesca, ma credo che sia nata lì questa sorta di seduzione che l'horror ha esercitato su di me sempre. Un fascino che poi è diventato una vera ossessione per Dario Argento: dalle medie e per un po' di tempo lo identificai come il più grande regista del mondo. Raccoglievo e ritagliavo tutte le schedine che comparivano su Tv Sorrisi e Canzoni dei film trasmessi, li incollavo su un quadernetto e davo i miei giudizi (del tipo, per dire: “Tenebre: a me Giuliano Gemma ha sempre fatto schifo però qui viene trafitto e allora...”) e naturalmente mettevo le stelline. Poi negli anni Ottanta sono passato alla mia passione più travolgente che è stata per i gore, per lo splatter, per il corpo esploso e sbriciolato. Io sono figlio degli anni Ottanta, mi sono formato lì come cinefilo e come uomo, direi. Li ho vissuti come anni che mi hanno costruito la testa e anche lo sguardo. No, non esiste una persona che mi ha instradato, è stata una cosa da puro autodidatta.

E poi c'era la bellezza di andare a caccia della visione desiderata. Oggi che esistono le piattaforme ed enormi archivi sono a nostra disposizione un giovane può appassionarsi allo stesso modo? Si può ancora andare incontro a una scoperta?
Non cado nella trappola di dire che si stava meglio quando si stava peggio. Ho quasi 54 anni e potrei abbandonarmi alla nostalgia e alla malinconia di quando la ricerca era davvero senza fine. I sacri graal erano infiniti, ma dovevi sbatterti per cercarli e trovarli. Più raro era l'oggetto e più riuscire ad acciuffarlo dava valore all'opera, ancor prima di vederla. Oggi sì, è tutto diverso. Credo però che chi fa il mestiere di critico, di studioso delle immagini (di quello che ci bombarda in modo parcellizzato lo sguardo), non può permettersi di vivere in un eremo isolato e chiudersi fuori dalla contemporaneità. Troppo facile mettersi seduti a guardare film di trenta o quarant'anni fa e dire: che meraviglia quel cinema! Io voglio cercare di capire le cose che mi circondano oggi e che non mi appartengono e alle quali magari io non riesco ad adeguarmi per ragioni di gusto, o puramente anagrafiche: come posso sintonizzarmi sui desideri e i gusti di un diciottenne. Nel libro provo a farlo con la generazione Z. Un ragazzo o una ragazza che improvvisamente scopre di amare l'horror lo fa in modo casuale come è capitato a noi o c'è qualcosa che li stimola e li eccita a tal punto da capire in anticipo che hanno un determinato gusto? Non lo so. Ma mi piace rifletterci sopra: il come, il perché, il modo. Capire queste dinamiche aiuta a comprendere i nuovi scenari culturali. Non credo che possiamo permetterci di farne a meno.

Quando leggo i tuoi articoli e le tue recensioni trovo sempre un discrimine: il fatto che un film sappia parlare o meno al nostro presente. Molte delle critiche mosse a The Substance lo hanno accusato di essere puramente citazionista e perciò vuoto e quindi incapace di stare nella contemporaneità...
Francamente un horror più contemporaneo di The Substance faccio fatica a trovarlo. È ovvio che dentro c'è tutto il cinema del passato, e ci mancherebbe altro. Il piacere e il valore è capire come Coralie Fargeat ha elaborato tutto questo con i piedi ben piantati nel presente. Perché quello che si è sottovalutato di questo film è l'idea alla base. Uno spunto lucidissimo: noi siamo solo in quanto immagine. Anzi: io sono, dunque sono un'immagine che è come dire che non solo la nostra identità è un'immagine, ma che addirittura noi esistiamo in questo nostro mondo soltanto se ci percepiamo e consideriamo come immagine. Non credo di arrampicarmi sugli specchi. Credo che per questo The Substance sia molto più di un film sul desiderio della bellezza eterna e così via. Appartiene all'oggi come pochissimi altri horror. Basta guardare come usa lo stile, in modo così spesso, voluminoso, eppure sta parlando di immagini, di qualcosa di assolutamente impalpabile. Un film davvero importante.

Altro titolo, altra corsa: Oddity dell'irlandese Damian Mc Carthy. So che è uno dei titoli che hai maggiormente apprezzato nel 2024. Guardandolo mi ha stimolato un discorso sull'ambientazione. Lo spazio fisico dell'horror moderno qual è? È cambiato rispetto al passato?
Oddity mi ha molto sorpreso perché è un film che scivola sempre via dal genere al quale sembra appartenere: parte come un horror, poi diventa un neo-noir, poi torna horror. Scarta continuamente. Mi ha molto spiazzato in questo senso e l'ho trovato di un'intelligenza particolarmente elegante. Rispetto agli spazi dell'horror attuale è vero che The Substance e Oddity vivono un po' agli estremi classici: da un lato la metropoli, dall'altro la provincia. Può anche accadere che medesimi spazi siano utilizzati in contrasto. Prendiamo It follows e il suo formato scope: vediamo che lì il male non sembra nascondersi come faceva Michael Myers in Halloween dietro le siepi e nelle ombre, ma improvvisamente lo vedi in piena luce ed è qualcosa di estremamente comune, può essere un passante sullo sfondo, in prospettiva lunghissima che infine ti accorgi, punta esattamente te. Nei due casi siamo nella medesima provincia sonnolenta e sonnacchiosa, ma tutto è narrativizzato diversamente. Poi c'è da dire che l'horror torna (qui penso alla saga di Terrifier) pure ai luoghi simbolo degli slasher degli anni Ottanta: le scuole, le docce, le palestre, tutti spazi che sembravano spariti con gli anni Novanta e film come Scream o The Faculty. È tornato l'appartamento dove il singolo e la sua psicologia vengono sbriciolati e piegati. The Substance è nella metropoli, ma quasi tutto si svolge dentro l'abitazione di Demi Moore. Pare esserci una sola strada, un solo boulevard da percorrere per reperire il siero. Non direi che l'horror pratichi spazi nuovi, direi invece che resistono tutti gli spazi che abbiamo imparato ad amare nel corso del tempo.

follows

Hai citato It Follows. Un film sul contagio del male che gli somiglia è Smile 2, un sequel che prende strade diverse rispetto all'originale e dialoga con il Trap di Shyamalan.
Smile 2 mi ha sorpreso. E vedendolo anche io ho pensato a Trap. Naturalmente da un'altra prospettiva – direi ribaltata - che è quella della psicologia contorta, piegata e svuotata come un guanto della protagonista. Ma per entrambi i film vale lo scenario: quello della folla e della messa in pubblico, in esposizione, in esibizione. La cosa più sorprendente in Smile 2 è l'utilizzo che si fa del mestiere della protagonista (cantante e ballerina) e dell'intero entourage che le ruota attorno. Il corpo di ballo usato come strumento per creare suspense e paura. Mi riferisco alla sequenza nell'appartamento di lei con i ballerini che letteralmente coreografano un agguato. Per me è la scena horror dell'anno. Intelligente e pertinente al racconto: un coro greco che intrappola la prima ballerina; una sorta di performance spaventosa. L'intelligenza del film è usare gli strumenti della “trama” per inquietare e costruire l'orrore. E parliamo di un film che è tutt'altro che d'autore, ma piuttosto il prodotto di una major. Un horror che riprende il suo giusto scettro di riflessione sulla realtà anche lontano dalla mano ingombrante di un autore.

Già che ci siamo spendiamo due parole pure su Oz Perkins e Longlegs...
Secondo me è più fumo che arrosto. A conti fatti, a cercare di cavarci fuori qualcosa, mi pare un discreto filmetto. Fondamentalmente non mi dice niente, o meglio, me lo dice in un modo che se all'inizio mi incuriosisce, a lungo andare mi infastidisce con lo spiegone degli ultimi venti minuti che tradisce – ed è come farsi lo sgambetto da solo – un po' l'assunto stesso di un film che dovrebbe giocare sul non detto, sul non spiegato, sull'allusivo, sulle ipotesi. Invece il regista ci fa rivedere tutto da capo, mettendo ogni puntino sulle i. Sto finendo pure per cambiare opinione su Oz Perkins perché il suo primo film – che ho anche rivisto per il libro – February mi aveva convinto perché lì invece tutto quel che è ipotizzato resta tale e alla fine resti con tanti dubbi e un pugno di mosche in mano. Devo dire che a lungo andare questo girare intorno a un modo di raccontare sospeso, astratto, mi ha un po' stufato. Di certo evito di fare quello che han fatto in tanti: parlare di un nuovo Silenzio degli innocenti. Stesso stile cartesiano di Jonathan Demme, uguale proprio (ride).

Nel tuo libro dici che in Italia l'horror è finito molto tempo fa. Precisamente con La chiesa (1989), «titolo che più di tutti sintetizza e conduce al punto di non ritorno le idee tematiche ed estetiche di un mercato giunto (con piena consapevolezza) al capolinea». Dopo oltre trent'anni come siamo messi?
Siamo messi malissimo. E mi verrebbe da risponderti che non è neanche colpa nostra. È davvero lo scenario che è cambiato nel profondo. Non abbiamo più i presupposti di mercato, estetici, culturali per fondare una nuova onda horror. Pensa solo alla Francia, per fare un paragone all'opposto. Purtroppo come discorso culturale il nostro cinema horror è morto nei primissimi anni novanta. Mi fanno ridere quelli che appena esce Piove o The Well si esaltano e dichiarano che allora “si può ancora fare”. Non bastano un titolo, due, cinque. Mi fanno ridere. E infatti cosa fa The Well: rivanga il passato, vestendo un puro abito da soffitta, bric-à-brac stantio, senza nessuna idea contemporanea, senza nessun appiglio al mondo odierno. Perché appunto non ci sono idee se non riferite ai maestri del passato. Recuperare una tradizione è inutile. Non possiamo più farlo. E se mi chiedi se le cose possono cambiare ti dico che non lo so. Sono convinto di questo però: non vedo nuovi sguardi interessanti nel nostro Paese.

In sala intanto è tornato il mito del vampiro. Telegrafico. Nosferatu sì o Nosferatu no?
Per me è assolutamente no. E devo dire che mi ha veramente quasi fatto dormire. L'ho trovato estremamente soporifero. Di una noia sovrana.

In ultimo parliamo di futuro, di aspettative. C'è un/una regista del quale ti manca il fatto che non stia uscendo un suo film, adesso, in questo momento?
Bella domanda. Visto che siamo in tema di prestige horror devo dire che se penso a come mi ha folgorato Nope sono tanto curioso di vedere cosa può fare “dopo” Jordan Peele. Perché sai, ha alzato così tanto l'asticella, con un film che contiene 120 anni di storia delle immagini... Mi dico: come può fare un nuovo film altrettanto importante? Nope è così grosso e così tanto, e per tanti è così troppo, che sono qui alla finestra. E poi penso anche a David Robert Mitchell. È notizia di circa un anno fa che avrebbe dato un seguito a It follows. L'idea di un possibile seguito mi stimola e spaventa, ma dopo dieci anni le cose sono assai cambiate e il progetto potrebbe avere un senso. Di certo attendo con più impazienza il ritorno di questi due che il prossimo film di Robert Eggers.

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Giurato numero 2

di Alessio Baronci
recensione film eastwood

Per alcuni Giurato numero 2 è il film testamento di Clint Eastwood, il suo atto finale da regista. Non ci interessa, in realtà, sapere se sia vero o no; è possibile, però, che a volte certe storie si nutrano anche di suggestioni, dettagli, auto convinzioni. E allora può capitare che qualcosa risalti sullo sfondo e finisca, comunque, per dettare il passo non solo del film ma anche dei tentativi di lettura che se ne danno. Forse Giurato Numero 2 non sarà l’ultimo film di Clint Eastwood, ma certamente è quello maggiormente animato da un’urgenza finale, dal desiderio di chiudere certi ragionamenti e tornare all’origine delle cose. Non è probabilmente un caso se si tratti di un film fondato su temi universali e dichiarati come tali fin dalla prima inquadratura: il bene contro il male, la verità contro la menzogna, la civiltà della responsabilità e la barbarie dell’impunità a ogni costo, il buio e la luce.

Colpisce, certo, come spesso accade in Eastwood, la straordinaria modernità del ragionamento che sviluppa quei temi, la piega argomentativa che interroga, prima di ogni altra cosa (e proprio ora nell’epoca dell’opacità), la nostra capacità, tutta analogica, di vedere ciò che ci circonda e di capire la posizione della verità al di là di qualsiasi pregiudizio. Alcuni hanno individuato più di una continuità tra il mite Justin Kemp, giornalista di provincia che dall’oggi al domani si trova a partecipare come giurato popolare a un processo per giudicare un imputato accusato però di un omicidio che in realtà ha compiuto proprio lui, e lo straordinario protagonista di Trap: entrambi sono narratori inaffidabili delle loro storie, entrambi, soprattutto, sembrano possedere la peculiare capacità di vedere chiaramente un contesto che per tutti mostra un aspetto solo parziale, entrambi sembrano bloccati in un’ideologia borghese che poi, alla lunga, segnerà la loro condanna. L’inconsapevole dialogo con il film di Shyamalan è affascinante ma è evidente che a distanziare irrimediabilmente i due film sono proprio i modi in cui quest’indagine umana viene sviluppata. Se il gioco di Trap è scoperto, ironico, felicemente grottesco a tratti, il film di Eastwood è prevedibilmente calvinista nell’approccio: asciutto, didattico, leggibile, quasi a voler dire che sulla verità, su temi di questo tipo, non si può scherzare, non è ammissibile. 

Sceglie piuttosto un respiro monacale, Giurato numero 2, che chiude nelle quattro mura del tribunale e della sala della giuria un racconto dalla struttura diretta, semplice, priva di doppi giochi, depistaggi, consapevole, forse, che già il peso specifico del punto di vista orientato del protagonista è abbastanza per movimentare il racconto, al punto da farlo deragliare se si aggiungono ulteriori livelli di lettura. Tuttavia a reggere la narrazione troviamo, paradossalmente, un respiro evidente da favola morale, da saggio etico, da allegoria che prevedibilmente prende il tema e lo disperde nel racconto, lo anticipa, fa presagire certe linee della lezione sottesa al film nell’atteggiamento di certi personaggi, ne smonta criticamente le componenti per rimontarle, con consapevolezza, nell’inquadratura successiva. «Inventati una balla per non affrontare il processo», consiglierà l'inconsapevole moglie di Justin al marito, all’inizio del film, come a voler portare in primo piano fin da subito la facilità con cui la verità può essere messa in discussione, malgrado lo stesso giudice, qualche sequenza dopo, metterà in chiaro quanto proprio quel processo sarà l’unico modo comprovato per scoprire come sono andate le cose quella sera (senza sapere che il vero imputato è seduto nel banco sbagliato). Forse il coraggio di Eastwood è allora soprattutto nel girare a 94 anni un film su temi esistenziali così centrali riconoscendo però, lui per primo, che ormai si fa fatica ad affrontare discorsi del genere senza ammettere la crisi profonda degli stessi, ridotti a spunti vuoti, parte di una sorta di rituale performativo, come tradisce, forse, lo stesso Justin, che passerà le prime riunioni con la giuria a provare a far tornare i suoi colleghi sui loro passi ma, in prospettiva, senza troppa convinzione.

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Forse è tutta questione di punto di vista, forse il centro di ogni discorso non è tanto nel suo protagonista ma nella stessa giuria, ben più abissale, a ben vedere, dei 12 uomini arrabbiati di Lumet. È un film sul bisogno di verità, quello di Eastwood, ma tra le righe è anche e soprattutto un film su una nazione irrimediabilmente bugiarda, dominata dai pregiudizi, dai bias di conferma (spiazzante che il primo che inizi a sospettare di Justin sia il giurato afroamericano, membro di un gruppo sociale vittima spessissimo di racial profiling pregiudizionevole), incapace di leggere ciò che la circonda ma anche solo di prendere seriamente i ruoli che rappresenta («Guilty is cool», dirà, frettolosamente, uno dei giurati durante una delle votazioni, come a voler smaltire una scomoda pratica). Ma la patologia è ben inscritta, ovvio, nell’atteggiamento dello stesso protagonista, che si ostina a rimanere sulle sue posizioni rimarcando quanto la verità, a volte, non corrisponda necessariamente alla giustizia, che si intestardisce ad avere due piedi in una scarpa, a vestire i panni del cittadino responsabile ma anche del criminale impunito.
Non stupisce che quello interpretato da Nicholas Hoult sia il primo personaggio del cinema recente di Eastwood con cui è difficile entrare davvero in empatia: lo comprendi, evidentemente, quando racconta il suo passato, quando ricostruisce la sera dell’incidente e si sofferma sui motivi che l’hanno condotto in quel bar, ma poi te ne allontani, anche un po’ stizzito, quando si impunta in certi capricci. Ne risulta un film come meccanismo in pezzi, che fatica a chiudersi  e trovare una via di pacificazione  lasciata tutta al fuori campo, in quello straordinario campo/controcampo di chiusura che assomma in sé (senza mostrare) la verità, la risoluzione dell’omicidio, forse anche la dissoluzione della famiglia borghese. 

Probabilmente, ancora, l’unica consolazione possibile, per Justin ma anche per noi, radicale, paradossale, è che l’America è bugiarda quanto lui, quindi perché cercare di impegnarsi a fare davvero la cosa giusta?

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Clint Eastwood Nicholas Hoult Toni Collette J.K. Simmons Kiefer Sutherland 114 minuti
USA 2024
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Megalopolis

di Saverio Felici
MEGALOPOLIS recensione film COPPOLA

Ad alcuni mesi dalla sua comparsa in sala, non esiste ancora una definizione precisa di Megalopolis. Il dibattito, anche furioso, sull’opera-testamento di Francis Ford Coppola ha curiosamente evitato il confronto con il film in sé, concentrandosi piuttosto sul ruolo che questo andrebbe a occupare idealmente nel panorama audiovisivo contemporaneo - per non dire della storia del Cinema tutto. Con Megalopolis, inutile usare eufemismi, ci si è trovati di fronte a un Evento di quelli veri, potenzialmente definitori, nei confronti del quale lo scherno rabbioso del grande pubblico “lasciato fuori” appare fuori contesto quanto le dichiarazioni d’amore dei critici innamorati (forse più di Coppola stesso che del film, distinzione in questo caso quanto mai pretestuosa).
In una fase storica in cui le “imprese” cinematografiche appaiono sempre più inconcepibili, Megalopolis si pone quindi come un high water mark non tanto artistico, quanto simbolico. Quello che potremmo sintetizzare come il primo film d’avanguardia prodotto e concepito come un blockbuster è d’altronde figlio di una contingenza irripetibile: lo sforzo folle e individuale di un unico autore-investitore, alter ego quanto mai scoperto del protagonista, votato a ridisegnare un futuro al cinema-metropoli-mondo. È sull’asse metonimico della città come film e del film come universo che Megalopolis fa della sua utopia artistica un’Utopia a trecentosessanta gradi: non con ciò che mette in scena, ma attraverso la propria stessa assurda esistenza.

Una volta riconosciuto il senso di Megalopolis, resta però da tradurne le immagini in qualcosa. E di fronte alla visione in sé, il giudizio si complica. Come il return di Twin Peaks o gli Avatar di Cameron, forse gli unici altri esempi degli ultimi due decenni ad aver a modo loro piantato una bandiera, delimitato un limite a cui guardare e con cui confrontarsi - così anche Megalopolis è un unicum destinato a rimanere tale. Non indica il futuro della settima arte più di quanto non ne celebri il passato, irriducibile com’è a riferimenti precisi (che pure ci sono, da Vidor a Lang e quanto altro già ampiamente individuato all'interno della filmografia del regista). Modernista anziché postmodernista, Coppola parla un linguaggio suo e di nessun altro. Non il balbettio sconnesso e inintelligibile che gli hanno imputato i critici americani, quanto l’idioma sconosciuto di un alieno venuto da chissà dove.

Megalopolis-recensione film coppola 4


Da queste premesse, è chiaro come sia impossibile trarre da Megalopolis alcuna lezione su un ipotetico nuovo cinema che da esso possa nascere. Messa da parte ogni regola di storytelling, le inquadrature diventano rappresentazioni astratte di scenari interiori: una statua di marmo può accasciarsi stanca a riposare di fronte al protagonista, e nessuno (né lui, né il film) sottolineerà il fatto. Si parla di urbanistica, Antica Roma, Shakespeare e superpoteri temporali – ma sono pennellate di un affresco impressionista più che linee narrative. Un’analisi frame by frame del film impiegherebbe semiologi e storici del medium per un anno, e il massimalismo felliniano dei set pieces uno più stordente dell’altro ne è solo l’aspetto più sfacciato.
A
 essere messo in discussione in Megalopolis è l’ABC stesso del racconto audiovisivo, ripensato dai dialoghi (un raffinato argot elisabettiano aggressivamente anti-naturalista), al rapsodico montaggio che divaga tra frammenti e squarci di vita senza apparente direzione, fino a una brechtiana Roma in cui la storia presente e passata collassano l’una sull’altra. Viene da appellarsi a precedenti storici nelle avanguardie (Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi di Straub e Huillet, magari?) ma nel suo rifiuto di rispondere ad alcuna teoria, Megalopolis si pone al di fuori persino dalla tradizione (ben più conservatrice di quanto si creda) del cinema sperimentale. È ciò che girerebbe un bambino che non abbia mai visto un film – o un vecchio che li abbia già fatti tutti: «mi ci è voluta tutta la vita ad imparare a dipingere come un bambino», celebre aforisma picassiano che Coppola senz’altro sottoscriverebbe.

La domanda che ci pone questa idea - meglio ancora, questa ideologia creativa - non può però ridursi a una diatriba tra cerebrolesi dei supereroi e menti belle delle accademie. Cosa fare di un’arte tanto autoindulgente da chiudersi allo sguardo dello spettatore (e dunque di un interlocutore), ponendosi come pura espressione di una mente allucinata? E dunque: che dobbiamo farcene di Megalopolis?
Il rischio di molto cinema ad aver provato questa via è quello di rimanere sul concetto - in altre parole, che sia più bello pensato che guardato. Art pour l’art programmatica, ma non ispirata. È un’accusa legittima ma che, più che mai di fronte a Megalopolis, ci si sente di respingere con fermezza. Perché l’invasamento demiurgico che anima il film non ne è un aspetto: è il film stesso. Cinema come creazione di spazio, dunque di presente, in risposta ad un tempo che sta finendo (Roma come paradigma di un’istanza vitale che ha nella continua decadenza la propria condizione costituente). La triplice metonimia di film-società-mondo converge nell’utopia di un vecchio che vede la propria storia concludersi (Eleanor Coppola, cui il film è dedicato) e cerca un perché ai suoi momenti finali. Modernista fino alla fine: l’Irishman dell’amico Scorsese chiedeva alla macchina da presa di immortalare il passato in una mummificazione digitale che annullasse il tempo. Megalopolis chiede all’immaginazione di farsi centro filosofico per una creazione artistica del futuro, e trova qui la sua ultima risposta.

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Francis Ford Coppola Adam Driver Giancarlo Esposito Shia LaBeouf Nathalie Emmanuel 138 minuti
USA 2024
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Longlegs

di Mattia Caruso
Longlegs - recensione film perkins

Oregon, anni '90. Grazie alle sue capacità fuori dall'ordinario, alla giovane agente dell'FBI Lee Harker (la Maika Monroe di It Follows e Watcher) viene assegnato un caso decennale riguardante una serie di omicidi-suicidi apparentemente irrelati ma che lascerebbero supporre una stessa, inquietante regia. Su ogni scena del crimine è stato rinvenuto infatti un misterioso messaggio in codice firmato sempre con lo stesso nome: Longlegs.

C'erano una volta i film di serial killer. Una stagione unica, capace, nel giro di qualche anno, di regalarci titoli come Il silenzio degli innocenti, Seven o Cure. Film caratterizzati, ognuno a modo suo, da un fascino malsano e perturbante in grado di dar vita a un vero e proprio filone. È proprio a quella manciata di film, a quell'estetica e all'idea di un Male come “effetto senza causa” che sembra guardare Oz Perkins per il suo Longlegs, ambientando la vicenda proprio negli anni novanta del “Satanic Panic” e trasformando quei modelli in una favola nerissima destinata a sconfinare ben presto nell'horror puro. Che sia pur sempre una favola, del resto, quella di Longlegs, il regista di Gretel e Hansel pare farcelo capire sin da subito, imbastendo una storia di figli smarriti e padri omicidi, presenze oscure (“l'Uomo di sotto”) e fantasmi del passato, dove il mostro (un Nicolas Cage la cui recitazione sopra le righe qui si sposa perfettamente alla vicenda) pare quasi una degenerazione del Geppetto collodiano, un antagonista capace di insinuare il suo Pinocchio all'interno dell'istituzione famigliare, pervertendola.

Abbandonate le derive folk horror del precedente film, Perkins sembra così imprimere una svolta inedita al suo cinema, portando con sé alcuni elementi ricorrenti ma riadattandoli e ridefinendoli attraverso una sensibilità nuova. Sebbene a tratti la visione risulti infatti ancora appesantita, se non pretenziosa, è indubbio come quell'estetismo insistito ed esasperato sembri qui capace di andare oltre la superficie, oltre la facile sensazione garantita da immagini suggestive e minuziosamente costruite. Ben consapevole (questa volta, almeno) che evocare un'atmosfera non basta a fare un film, Perkins sembra così abbandonare mode e riletture furbesche in favore di una sceneggiatura (firmata in solitaria) davvero originale e perturbante, trovando, finalmente, un malsano equilibrio tra parola e immagini.

Mentre "Get It On" dei T. Rex suona in sottofondo (“You've got the teeth of the Hydra upon you...”) e i personaggi, ingabbiati in quadri fissi e implacabili, arrancano senza speranza ne fede (“le preghiere mi spaventano”, dice Lee alla madre), prende così forma un mondo fatto di riti satanici e padri degeneri, vittime inconsapevoli e carnefici improbabili. Una realtà dove il trauma diventa il veicolo perfetto per un Male sfuggente e dai tratti soprannaturali. Un Male sempre pronto a emergere come un'ombra dai margini dell'inquadratura, nascosto in bella vista all'interno di immagini e immaginari apparentemente ben codificati. È così che il crime finisce con lo smarrirsi dentro i tempi e i modi di un horror perturbante e malsano, tanto estenuante nella sua messa in scena e nei silenzi insistiti della sua protagonista (brava Monroe a rendere un personaggio incapace di venire a patti col proprio rimosso), quanto immediato per l'orrore – enigmatico e universale a un tempo – che sottende.

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Osgood Perkins Maika Monroe Nicolas Cage Alicia Witt Blair Underwood 101 minuti
USA 2024
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